2.2.17

La mediterraneizzazione del mondo (Franco Farinelli)

Non c’è un solo Mare Nostrum: ogni continente ha il suo, dal Golfo del Messico al bacino sino-malese. E in questi contesti, così fitti di relazioni, si innescano dinamiche geopolitiche ed economiche che anticipano le logiche della globalizzazione.
È un fatto a suo modo consolatorio che il vecchio gioco delle capitali, in cui per molti si riassume l’intero sapere relativo alla geografia, abbia ancora senso, avvii ancora a comprendere come il mondo funziona. A differenza di quanto accade nell’Europa settentrionale (si pensi a Londra, Stoccolma, Helsinki, Oslo, Riga tra le altre) nel nostro Mediterraneo i capoluoghi nazionali non sono quasi mai sul mare, ad eccezione di Algeri, Beirut, Tunisi e Tripoli, promosse come esito della loro passata funzione coloniale.
La logica territoriale mediterranea obbedisce evidentemente a un modello diverso se non opposto rispetto a quello che vale per il resto dei continenti. E proprio tale contrasto apre uno spiraglio che consente di gettare uno sguardo sulla natura della globalizzazione. Va subito precisato: quasi tutti i continenti (ad eccezione almeno per il momento di quelli polari) hanno il proprio Mediterraneo, una grande ingolfatura oceanica che agisce da sinapsi tra le grandi masse emerse, un vero e proprio insieme di «pianure liquide che comunicano per via di porte più o meno larghe», come Fernand Braudel definiva il Mare Nostrum dei Romani, il Mediterraneo euro-africano. Ma esiste anche il «Mediterraneo americano», costituito dal golfo del messico e dal mar dei caraibi, così come esiste un «Mediterraneo sino-malese» composto dal Mar Cinese meridionale e orientale e dal Mar Giallo e dai mari indonesiani e filippini.
Nel complesso si tratta di una vera e propria cintura estesa a cavallo del Tropico del Cancro, tripartita in corridoi di circa 4 mila chilometri di lunghezza e di circa 1.200 chilometri in corrispondenza della loro massima larghezza. E le cui analogie dal punto di vista della rendita di posizione territoriale a scala planetaria, del ruolo economico e della struttura politica risultano, da un continente all’altro, troppo coerenti e puntuali per essere casuali.
Facciamo l’esempio del nostro Mediterraneo, del nostro Paese e del nostro continente. Nel 1957 tre processi presero all’unisono avvio: in Europa nacque la Comunità Economica, in Italia fu varata la legge 634 per l’industrializzazione del Mezzogiorno e Cosa Nostra decise di fare della Sicilia la base dello smercio dell’eroina in Europa. Tre atti di tre differenti soggetti in varia misura tra loro antagonisti e che operavano a differente scala, ma determinati dall’identica necessità: far fronte alla nuova articolazione fondata sull’imbricazione dello spazio economico nazionale con quello internazionale e mondiale.
L’avvento della Cee segnò l’avvio del coordinamento delle politiche economiche statali all’interno di un quadro sopranazionale. L’industrializzazione del Meridione, che avrebbe dovuto favorire le piccole e medie imprese, finì invece per generare la proliferazione dei grandi impianti a ciclo integrato dell’industria di base, attratti dalla possibilità di superprofitti dovuti al basso costo della manodopera, ma programmaticamente privi di qualsiasi reale connessione con le economie e le culture locali, e invece saldamente inseriti nello specifico spazio multinazionale che allora nasceva. Al contrario, proprio su tale saldatura si basò il pervasivo e capillare carattere dell’economia illegale, in grado sin da allora di mantenere il contatto tra i nuovi flussi (prima di natura materiale e poi immateriale) e l’ambito della riproduzione della vita sociale.
In termini più generali: furono proprio i portatori delle logiche extrastatali a cogliere, in anticipo sul loro competitore istituzionale, la natura dello spazio informazionale — come oggi si usa definire l’ambito che risulta dall’applicazione della telematica e della cibernetica — e a modellare le proprie strategie in riferimento ad esso. E ciò perché l’avvento di tale spazio, mettendo in crisi l’ordinamento territoriale moderno, reintegrò la preminenza dell’archetipico assetto mediterraneo, che altri e non lo Stato ebbero la capacità di mettere a frutto. Dall’installazione di raffinerie e acciaierie in Sicilia, Puglia, Campania e Sardegna non derivò nessuno sviluppo indotto, come invece si attendeva: se avesse incrementato la domanda di forza lavoro, esso avrebbe automaticamente cancellato, in forza del corrispondente aumento dei salari, ogni convenienza delle multinazionali.
Così, mentre lo Stato assecondava la costruzione di quelle che ben presto vennero definite «cattedrali nel deserto», altri soggetti economici approntavano una geometria variabile di produzione e consumo, lavoro e capitale, management ed informazione, attraverso una rete in grado di cambiare forma celermente e senza posa, e soprattutto fondata sulla messa in valore delle specifiche qualità del contesto. Cioè del luogo: la fondamentale cellula fisica e territoriale, vale a dire politica ed economica, di ogni Mediterraneo.
Al contrario dei soggetti multinazionali o portatori dell’economia illegale o informale che si voglia dire, i quali da tempo pensano e agiscono soprattutto in maniera intensiva, cioè per luoghi dunque per differenze, lo Stato è per natura costretto invece a pensare e comportarsi in termini estensivi cioè spaziali, vale a dire in senso opposto a quello dei suoi concorrenti, verso i quali alla fine non resta, paradossalmente, che cedere più o meno volentieri il passo. Quel che infatti accomuna tutti i Mediterranei è la loro funzione di «zona franca», di luogo dello scarto dalla norma, a partire da quella relativa ai regolamenti fiscali e doganali, spesso in condizioni di vera e propria extraterritorialità molto vantaggiosa per le industrie che vi si insediano. Ma tali «territori dell’eccezione» assolvono oltre quello industriale ben altri compiti: supportano i traffici illegali, di armi oltre che di droga; accolgono esercizi tollerati perché limitati come i casinò e i paradisi fiscali; sostengono strategie di controllo attraverso la presenza di basi militari, teste di ponte, servitù d’uso; funzionano da punta avanzata nell’ambito delle strategie di marketing territoriale, attirando nuovi clienti all’interno dell’ambito (deregolato prima ancora che regolato) di pertinenza statale. Ed è proprio in tale congiuntura che l’opposizione tra la logica territoriale del diaframma mediterraneo e l’assetto continentale torna oggi a manifestarsi, a tutto vantaggio della prima.
Quel che sui continenti appare come l’incipiente effetto della pressione della globalizzazione sulla sintassi statale, nei Paesi mediterranei risulta invece nativo e originario. Ad esempio la progressiva diminuzione della taglia degli Stati stessi: si pensi all’esito del crollo del blocco comunista. Oppure la crescente natura alveolare della loro grammatica interna: si pensi alle spinte autonomistiche e indipendentistiche in Europa, Africa e Asia, da riferirsi alla tardiva e imperfetta centralizzazione degli Stati. Si aggiunga la generale trasformazione in senso transazionale, se non immateriale, di tutte le economie. Oppure il progressivo riconoscimento, anch’esso generale, del valore delle specifiche, locali capacità di manipolazione simbolica a scapito delle attività materialmente produttive.
Narra Polibio che, di ritorno da Roma, l’ambasciatore di Rodi terminò di informare i propri concittadini della mancata concessione a importare legname dalla Macedonia con queste parole: «È la nostra rovina; ma possiamo ancora conservare la nostra fama di essere il popolo più civile di tutto il Mediterraneo». L’attuale globalizzazione sembra insomma assumere, per un verso decisivo, le forme e le movenze di una specie di mediterraneizzazione, di Un’avanzata del modello territoriale mediterraneo come contraccolpo alla crisi dell’architettura statale del mondo moderno, sempre più sorretto da una specie di «antimondo» fin qui concepito e tollerato come semplice retrobottega.
Nient’altro che un’ipotesi per cercare di capire per tempo l’ibrido nuovo che avanza: la «selvaggia e nuova terra» cui, come Alice nel Paese delle Meraviglie, noi stessi crederemo «soltanto a metà» quel che vedremo.


“La lettura-Corriere della sera”, 22 maggio 2016

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