4.2.17

La carica dei Seicento. Mosca 1934, il I Congresso degli scrittori sovietici (Cesare G. De Michelis)

Gorky
Cinquant'anni fa, il pomeriggio del 17 agosto 1934, si apriva nella Sala delle Colonne, al Dam Sojuzov di Mosca, il primo Congresso degli Scrittori Sovietici. Ventisei sedute nel corso di sedici giorni (i lavori si conclusero la sera del 1 settembre), quasi 600 delegati tra quelli con voto deliberante e quelli con voto consultivo; fu il Congresso che formalizzò l'istituzione dell'Unione degli Scrittori in luogo della molteplicità dei raggruppamenti letterari - del resto, già abolita nel 1932 - e che espresse organicamente la dottrina del realismo socialista; insomma, il Congresso che tradusse in forma burocratica il rapporto tra potere politico e lavoro intellettuale. La formula staliniana degli "ingegneri delle anime" trovava così una concreta attuazione istituzionale.
Nella storia del potere sovietico, quel Congresso fa da spartiacque tra i primi quindici anni (o poco più) della cultura sovietica formatasi nel crogiuolo degli anni rivoluzionari (rispetto alla quale - secondo la risoluzione presa dal partito nel 1925 - il potere politico si manteneva sostanzialmente neutrale) e i successivi cinquant'anni in cui l'attività letteraria ha avuto un'organizzazione e una dottrina unitarie, garantite e controllate dal Partito. Nell'intonazione degli attori di allora, il Congresso voleva significare molto di più. Il pomeriggio di quel 17 agosto di cinquant'anni fa, Maksim Gorkij diede il via ai lavori dicendo:"Stimati compagni, prima di aprire il primo Congresso, in tutta la storia plurisecolare (la sottolineatura è mia), di letterati di repubbliche socialiste sovietiche, in qualità di presidente del Comitato organizzatore mi permetterò di dire alcune parole". E dopo un vibrato - ancorché d' obbligo - omaggio al "genio" di Lenin, e alla "ferrea volontà" di Stalin, ribadì il concetto nella formula ufficiale d' apertura:"Con orgoglio e con gioia apro il primo Congresso nella storia del mondo dei letterati d'un' Unione di repubbliche socialiste sovietiche, che abbracciano nei loro confini 170 milioni di persone".
Questa nozione di "primo giorno della creazione", che dal campo della costruzione del socialismo passava a quello della organizzazione del lavoro intellettuale, era allora moneta corrente, e nei loro interventi al Congresso venne ripresa da più parti e anche da scrittori come Olesa, Babel, Erenburg: tuttavia l'insistere di Gorkij sul carattere millenaristico del 1° Congresso degli scrittori sovietici è talmente uscito dalla coscienza comune che nella traduzione italiana (nel 1967 Laterza pubblicò col titolo di Rivoluzione e letteratura una sintesi degli interventi) è sfumato, quasi al punto da scomparire del tutto.

Primo e unico
Da "primo nella storia mondiale" questo Congresso restò il primo di una serie di appuntamenti di un'organizzazione politico-culturale; ma anche questo più banale significato stentò a realizzarsi, giacché - stando allo stesso Statuto approvato al Congresso - il "secondo" avrebbe dovuto tenersi tre anni dopo, nel 1937, ma non si tenne né nel '37, né negli anni immediatamente successivi. Prima la tragedia interna delle purghe e dei processi (in cui perirono non pochi dei protagonisti del Congresso del ' 34), poi la tragedia mondiale della guerra, poi ancora i sussulti dello stalinismo post-bellico, torvo nel trionfo, finirono col far sì che quel "secondo" Congresso si tenesse non tre, ma più di vent'anni dopo, dal 15 al 26 dicembre 1954.
Per vent'anni, il "primo" Congresso degli Scrittori sovietici rimase così l'"unico": il primo atto, ma per certi versi anche quello conclusivo, d' una organizzazione del lavoro culturale che non concedeva la parola ai chierici nemmeno dopo il tradimento. Si è già detto che i delegati furono quasi seicento; accuratamente catalogati, tra l'altro, per nazionalità. C'è anche un italiano: quel Giovanni Germanetto, autore delle Memorie di un barbiere, esule in Urss, che prese la parola e, per esemplificare la distanza tra la letteratura proletaria (in Unione sovietica) e quella dell'Italia fascista, citò Tre operai di Carlo Bernari, asserendo che "vi sono esibiti il pessimismo, la disoccupazione, senza che l'autore ne veda scampo alcuno". Quasi seicento delegati, scrittori e critici illustri, alcuni destinati a impersonare - con le loro opere e con la loro sorte - la tragica grandezza della loro epoca (si pensi a Babel, Pilnjak, Pasternak); altri mediocri, altri oscuri allora e poi. Ma invano cercheremmo nella lista di quei seicento i nomi di Anna Achmatova, di Osip Mandelstam, di Michail Bulgakov: cioè di alcuni scrittori sovietici maggiormente significativi nella letteratura sovietica di quel tempo. Tra tutte queste contraddizioni, quale sarà per noi, a cinquant'anni di distanza, il senso di quel 1° Congresso degli Scrittori? Credo che proprio rispetto a questo diventi importante il dato che abbiamo sottolineato prima, quella nozione "epocale" e trionfale avanzata da Gorkji, per un appuntamento che si rivela solo un momento drammatico nella moderna cultura letteraria sovietica. Fu il Congresso che consacrò la formula ortodossa del "realismo socialista": "...un metodo fondamentale della letteratura creativa e della critica letteraria sovietica, che esige dall'artista la rappresentazione veridica, storicamente concreta della realtà nel suo sviluppo rivoluzionario. Col che la veridicità e la concretezza storica della rappresentazione artistica devono unirsi al compito d' una trasformazione ideale e dell' educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo". Come acutamente scrisse a suo tempo Vittorio Strada, è bene evitare, nei confronti del realismo socialista, un atteggiamento analogo a quello che l'anticlericale ha verso la religione ("una trovata di Stalin per turlupinare e assoggettare i letterati sovietici e comunisti"). Tuttavia, è pur vero che - assieme a Sinjavskij - non possiamo non cogliere il vizio d'origine proprio nella direzione teleologica, universalistico-religiosa, cui deve piegarsi il "rispecchiamento".
Non è qui il caso di riaprire una complessa questione teorica; ma è giusto ricordare che la conseguenza immediata fu l'apertura delle ostilità contro il "modernismo", in particolare contro quel James Joyce, esplicitamente contrapposto da Karl Radek, nel suo intervento del 24 agosto, al realismo socialista. E andrà anche ricordato che, pur fondandosi sulla "assimilazione critica del retaggio letterario del passato", il realismo socialista - almeno nella versione avanzata da Gorkij al Congresso - finiva per assumere un tono inquisitorio. E chi ne fece le spese fu il povero Fedor Dostoevskij (per il quale Gorkij non aveva mai nutrito simpatia) che fu accusato di avere influito su Nietzsche, "le cui idee sono alla base della turpe propaganda e dell' azione pratica del fascismo". Del resto non fu il solo: anche Viktor Sklovskij (che vent' anni dopo avrebbe scritto un intero libro su Dostoevskij, Pro et contra) si spinse a dire: "Se venisse qui Fedor Michailovic, noi potremmo giudicarlo come eredi dell' umanità, come gente che giudica un traditore, come gente che oggi risponde del futuro del mondo".

Ma c'era Bulgakov
Ma di che natura fosse il neonato "realismo socialista", non certo una banale "turlupinatura di Stalin", ma una pagina grandiosamente tragica nella storia ideologica del nostro tempo, lo si poteva già intravedere da un volume apparso all' inizio dello stesso 1934, una glorificazione collettiva, sotto la guida di Gorkij, del Canale del Mar Bianco, costruito col lavoro - e col sangue - dei reclusi del Gulag. Caso pressoché unico, di un gruppo di scrittori che glorificano il lavoro schiavistico, ha scritto Solgenitsin. Anche qui, può essere miope, più che di cattivo gusto, enumerare quanti di quegli scrittori si sarebbero assai presto accorti della natura del sistema che aveva partorito il Belomorskij Kanal. Tuttavia, a dispetto dell'avvenimento "epocale" inaugurato da Gorkij nella Sala delle Colonne, la letteratura russa, anzi, sovietica, andava avanti: anche perché c'erano scrittori non delegati, come Michail Bulgakov, che proprio allora stava scrivendo Il maestro e Margherita.


“la Repubblica”,17 agosto 1984  

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