5.2.17

Battaglie. Custoza 1866, un'opera buffa (Marco Scardigli)

dal sito del Ministero della Difesa
La battaglia di Custoza del 1866 è una delle meno presenti nella storia patria e c’è il motivo. Fu una sconfitta (non sono mai belle da ricordare) che si avverò con modalità grottesche: un catalogo dei difetti italiani che ancora oggi possiamo trovare immutati ogniqualvolta si tratti di elaborare una leadership, decidere strategie, governare uomini. Non per nulla uno dei migliori libri sull’argomento, Custoza 1866 di Gioannini e Massobrio (Rizzoli) ha come sottotitolo La via italiana alla sconfitta. E il Guinness dei fiaschi militari (Mondadori) dell’inglese Geoffrey Regan la definisce «opera buffa» in cui i vari protagonisti «confusero tutti compresi se stessi e trasformarono in farsa cose alquanto serie». Perché critiche tanto spietate da diventare sberleffo?
Innanzitutto 150 anni fa non c’era nessuna idea di fare guerra all’Austria. Fu la Prussia di Bismarck, che stava perseguendo la sua politica di unificazione della Germania, a coinvolgerci. Dopo parecchie esitazioni, Alfonso Lamarmora, che era sia primo ministro, sia capo dell’esercito, accettò la proposta, attirato dal miraggio di una facile vittoria. Tutto faceva pensare a una occasione imperdibile, da cogliere al volo con italica furbizia: la guerra avrebbe avuto come campo di battaglia principale la Germania, mentre il fronte italiano sarebbe stato secondario. Inoltre voci credibili da Vienna facevano sapere che il Veneto sarebbe stato dato all’Italia indipendentemente dal risultato del conflitto. E i numeri sembravano mettere al riparo da sorprese: gli italiani schieravano 175 mila uomini contro i 75 mila dell’impero.
Tutto facile? Non per gli impennacchiati generali italiani. Il piano di guerra prevedeva una doppia linea d’attacco: un distaccamento dall’Emilia doveva attraversare il Po e minacciare gli austriaci da sud, mentre il grosso assaliva il nemico da ovest, nelle zone infauste della sconfitta del 1848. Però alla testa dell’armata del Po c’era il generale Enrico Cialdini, che non sopportava, ricambiato, Lamarmora: il primo tanto fece e tanto brigò che alla fine ottenne di comandare un vero esercito in maniera autonoma: 70 mila uomini e 300 cannoni. Più di quanti ne avesse Napoleone ad Austerlitz. Poi c’era il re, che non godeva di grande considerazione da nessuno dei due generali, ma che voleva essere in linea e non glielo si poteva certo impedire. La sua presenza aumentò ulteriormente la confusione su chi comandasse per davvero. Infine c’era una miscellanea di generali: piemontesi, ex borbonici, garibaldini, toscani, emiliani. Tutti con motivi di diffidenza e sospetto reciproci.
Fu questo esercito che all’alba del 24 giugno 1866 si mise in marcia verso le linee austriache. A fare che? Questo è il problema. Forse a cercare battaglia; forse per una sorta di ricognizione in forze. Forse per attirare gli austriaci a ovest e lasciare il campo sgombro a Cialdini per passare il Po. Qualsiasi cosa fosse, fu fatta male. Le fanterie avanzarono come per una parata, alcune con la fanfara in testa, mentre la cavalleria, che avrebbe dovuto essere davanti a esplorare il terreno, era in coda, imbottigliata nel caos dell’attraversamento dei ponti.
Dall’altra parte il comandante austriaco, l’arciduca Alberto, aveva elaborato un piano coraggioso: aveva lasciato solo un esile velo di truppe sul Po, spostato tutte le forze a ovest e nella notte aveva varcato l’Adige e si era portato verso il Mincio. Risultato fu che gli italiani si trovarono a urtare contro posizioni forti, del tutto inattese e trovandosi per di più in inferiorità. Infatti tra le truppe lasciate a Cialdini, quelle di guardia alle fortezze austriache di Peschiera e Mantova e quelle tenute di riserva, la superiorità numerica italiana si era volatilizzata. Intanto, intorno a Villafranca, due divisioni erano state attaccate dagli ulani: resistettero bene in quadrato (c’era anche il principe Umberto), ma l’effetto della sorpresa fu tale che non si mossero più per tutta la giornata.
Fin qui una battaglia slegata e improvvisata, ma nulla di irreparabile, se non fosse che il panico prese i comandi. Lamarmora era irreperibile: forse per emulare lo stile di Garibaldi, era andato nelle prime linee a cercare di rimediare alla situazione, col risultato che nessuno sapeva dove fosse. Senza ordini superiori gli altri generali si guardarono dal prendere iniziative. Verso metà giornata, nel caotico quadro generale, con unità in rotta e altre ferme, che non sapevano cosa fare, si delineò una possibile linea d’azione vincente. Uno dei migliori generali italiani, Giuseppe Govone, portò la sua divisione ad attaccare al centro dello schieramento nemico, presso Custoza. La mossa ebbe successo e il paese venne conquistato: Govone chiese rinforzi per proseguire lo sforzo, ma non arrivarono. Con un altro assalto conquistò anche le alture circostanti: la vittoria sarebbe stata probabilmente a un passo, ma ancora una volta non giunse nessun aiuto. A pochi chilometri di distanza c’erano le due divisioni ferme a Villafranca, le armi al piede; la risposta del loro comandante, Della Rocca, alle richieste di aiuto furono: «Ca s’rangi». Che si arrangi. Della Rocca era soprannominato Macigno, probabilmente per la sua duttilità mentale, e non sopportava Govone, detto Professorino o Picozzino per la sua ostinazione in quello che credeva. Picozzino non poté nulla per smuovere Macigno e a metà pomeriggio, a fronte di un imponente contrattacco imperiale, dovette cominciare a far retrocedere i suoi: la giornata era definitivamente perduta.
A ben vedere si era trattato di una battaglia storta, non una sconfitta decisiva: l’esercito italiano era ancora superiore per uomini e cannoni, gli austriaci avevano avuto più perdite e Cialdini non aveva davanti nessuno che potesse ostacolare la sua avanzata. Ma invece di cercare di rimediare, i vari comandanti preferirono gettarsi la colpa addosso l’un l’altro e Cialdini, per non rischiare di essere immischiato nella rotta, ritirò le sue truppe senza nemmeno sparare un colpo.
Le alte sfere impiegarono una decina di giorni a recuperare la situazione e quando sembravano pronte a riprendere la campagna arrivò la notizia ferale: il 3 luglio a Sadowa i prussiani avevano sbaragliato l’esercito austriaco, mettendo in campo capacità all’opposto di quelle mostrate dagli italiani: pianificazione, efficienza, innovazione. Per evitare che la guerra terminasse con l’annessione del Veneto, ma senza una vittoria italiana, si cercò di ottenerla sul mare. A Lissa si ebbe la replica marinara di Custoza: gli italiani, in superiorità per numero e qualità di navi, si fecero sconfiggere per incapacità di comando superiore (l’ammiraglio Persano poi fu condannato per incompetenza) e ignavia dei comandanti inferiori. Tegetthoff, l’ammiraglio austriaco, poté constatare con orgoglio che «uomini di ferro su navi di legno avevano sconfitto uomini di legno su navi di ferro».
Alla fine l’unico a ottenere una mezza vittoria fu il solito Garibaldi a Bezzecca: un altro schiaffo per i militari sabaudi. Il commento più triste e profetico lo scrisse Govone (nel frattempo ostracizzato dagli altri generali perché in battaglia si era dato troppo da fare!) in una lettera a un amico: «Perdemmo per inabilità l’occasione di avere il Tirolo e forse Trieste! Dio ci perdoni e ce lo perdonino i posteri». Verrebbe davvero da chiedersi come sarebbe stata la storia italiana con Trento e Trieste conquistate nel 1866, senza la necessità di entrare in guerra nel 1915 e con una nazione che una vittoria avrebbe reso meno frustrata e lacerata, più sicura dei propri mezzi.


“La lettura – Corriere della Sera”, 22 maggio 2016

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