6.1.17

L'India nel lenzuolo. Italo Calvino racconta un grande libro di Salman Rushdie.

Ritratto dello scrittore da giovane
Gli odori sono l'involucro dell'India, la mite difesa che questo paese di tesori e di meraviglie innalza come per scoraggiare l'intrusione dei nasi occidentali. I cattivi odori, naturalmente: la greve fisiologicità che emana dalla civiltà più spirituale del mondo. Ogni discorso o racconto sull'India deve tenerne conto, anzi forse partire di lì, se non vuol dare un'immagine mistificatoria e edulcorata.
Ho detto nasi occidentali intendendo anche nasi indiani occidentalizzati. Come quello di V.S. Naipaul, che ha visitato il paese dei suoi avi solo in età matura (An Area of Darkness, 1964) e le cui ripugnanze hanno creato una distanza difficilmente colmabile tra l'India e quello che fino allora veniva considerato il più famoso scrittore indiano. Ma Naipaul viene da una famiglia indiana trapiantata da generazioni nelle West Indies cioè nelle Antille britanniche; Salman Rushdie è il caso opposto: nato in India da genitori indiani e cresciuto là fino ai quattordici anni, poi venuto a studiare in Inghilterra e diventato uno scrittore inglese (uno dei più fortunati della giovane generazione ora sui trentacinque anni), vive a Londra e racconta l'India come dal di dentro.
Nel romanzo che l'ha rivelato al pubblico inglese col Booker Prize del 1981 e che è stato tradotto in tutto il mondo e ora anche in Italia da Garzanti, I figli della mezzanotte, lo ha intervistato per Repubblica Irene Bignardi il 10 aprile scorso, n.d.r., egli si presenta come il rapsodo d'un'epopea dell'India moderna in chiave comica e grottesca, dove i cattivi odori e tutta la dimensione fisiologica della vita indiana vengono celebrati con lo sfarzo e i colori d'una festa rituale sul Gange. Il personaggio simbolo dell'eternità dell'India, il barcaiolo Taj, puzza terribilmente; la ninfa egeria del narratore, Padma, ha il nome della dea del loto che è considerata anche la dea dello sterco, materia quanto mai preziosa; e l'associazione del sublime con l'infimo dà a Rushdie lo spunto per una divagazione sulla sacralità dello sterco nella civiltà indiana.
Il protagonista-narratore è caratterizzato da un enorme naso, che non aspira soltanto ma anche cola, perché è perennemente raffreddato. I verbi della liquidità, della secrezione ed escrezione dominano in tutto il libro, talora prendendo sensi metaforici come l'infiltrarsi (leaking) d'una storia o d'un'immagine nel destino d'una vita. Non per nulla la sputacchiera, da raggiungersi con un colorato getto a distanza da parte dei masticatori di betel, è l'onnipresente testimone di queste vicende.
Questi aspetti sgradevoli figurano nel libro sempre in primo piano, e verrei meno al mio dovere d'informatore se non dessi loro il giusto rilievo; ma le sensazioni che Rushdie trasmette non sono tutte di questo genere. Anche la ghiottoneria per i sapori accesi della cucina indiana vi ha una parte importante: il narratore si dichiara cuoco di professione, e sapientissima gastronoma è sua nonna, custode delle antiche virtù; la preparazione di piatti prelibati ha nel libro sviluppi stimolanti.
I codici del sapere pratico indiano sono molti e I figli della mezzanotte tende a farsi enciclopedia. All'edizione italiana va dato il merito di spiegare al lettore i molti vocaboli indiani con note a piè di pagina e con un glossario in appendice; apparato che l'edizione inglese non possiede e che credo sarebbe molto utile anche per i lettori inglesi non particolarmente iniziati ai segreti del loro ex impero. Detto questo, bisogna subito aggiungere che il sapere ancestrale non sarebbe sufficiente a far levitare il romanzo se l'autore non fosse nutrito di letteratura moderna internazionale (Rushdie è anche uno dei saggisti e critici più brillanti della stampa letteraria inglese). I modelli che sono stati evocati più spesso per questo romanzo sono Cento anni di solitudine di Garca Mrquez e Il tamburo di latta di Gunter Grass: l'epopea eroicomica fantasiosa e grottesca è un genere che figurerà nelle future storie letterarie come caratteristico della narrativa della seconda metà del nostro secolo su scala mondiale.
Opere come queste si caratterizzano per la ricchezza della loro inventiva ma anche perché il loro spirito si concentra in un' immagine in particolare. Qui si tratta del memorabile episodio del "lenzuolo perforato". Nel Kashmir, nel 1915, un giovane medico indiano appena tornato in patria dopo aver ultimato i suoi studi in Germania (a quell' epoca l'India sembra più sensibile all'egemonia culturale tedesca che a quella inglese), viene chiamato da un ricco proprietario per visitare sua figlia che ha mal di stomaco. Il dottore entra in una stanza in cui due robuste donne tengono sospeso un lenzuolo con un buco. Il Kashmir è un paese musulmano: una giovane donna non può lasciarsi vedere nemmeno dal medico. Le domestiche spostano il lenzuolo in modo da far coincidere il buco con la parte che il dottore deve visitare. Guarita del mal di stomaco, la figlia del proprietario accusò una storta alla caviglia destra, poi un'unghia incarnata all'alluce sinistro, poi un ginocchio indolenzito... Il dottore veniva chiamato continuamente e ogni volta il lenzuolo perforato incorniciava una diversa limitata porzione di quel corpo femminile invisibile nel suo complesso. Doveva essere un bravo medico, perché gli organi via via visitati guarivano immediatamente, ma una nuova visita si rendeva presto necessaria per un disturbo localizzato altrove. Così la ragazza riuscì a far vedere il suo corpo pezzo a pezzo al giovane medico, il quale, pezzo a pezzo, s'innamorò di lei fino a chiederla in sposa per poter finalmente vederla senza lo schermo del lenzuolo. Da questo matrimonio prende origine una genealogia che si ramifica in vari territori, compresi poi negli Stati indipendenti dell' India e del Pakistan; la saga familiare s'intreccia con la storia di queste nazioni.
Il "lenzuolo perforato" è un' immagine-chiave: il metodo del "pezzo a pezzo" riappare più volte e si rivela un motivo strutturale del libro: è dall'accumularsi di dettagli e frammenti e immagini che i personaggi ricavano i loro destini. Un altro motivo ricorrente è quello degli oggetti attraverso i quali si attuano i rapporti umani. Uno dei personaggi è un regista che per aggirare l'interdizione islamica di filmare coppie che si baciano ha l'idea di far baciare oggetti: una mela, o una tazza da tè, o una spada. "Pia baciava una mela, sensualmente, con tutta la ricca carnosità delle sua labbra dipinte; poi l'offriva a Nayyar, il quale conficcava nella faccia opposta del frutto una bocca virilmente appassionata. Era l'inizio di quello che sarebbe stato chiamato il bacio indiretto - una concezione infinitamente più raffinata di tutto ciò che vediamo nel cinema d'oggi; e realmente carica di desiderio e di erotismo!".
"Midnight Children", figli della mezzanotte, sono i bambini nati in India il 15 agosto 1947 allo scoccare della mezzanotte, momento in cui l'India ottiene la sua indipendenza. Il ticchettio degli orologi che scandiscono l'avvicinarsi della nascita e del momento scelto da Lord Mountbatten per cedere i poteri al nuovo Stato domina la prima parte del romanzo; e c'è chi ha rilevato in questa narrazione che s'attarda sui preliminari d' una nascita (e sul ruolo che vi ha l'orologio) un'eco e un omaggio a Tristram Shandy. Chi nasce in quel preciso secondo sarà dotato di poteri straordinari e s'identificherà con la neonata nazione: questa la credenza che non so se circolasse effettivamente allora o se sia stata inventata per l'occasione da Rushdie (il quale è anche lui coetaneo della nazione, sia pur con due mesi d'anticipo, essendo nato a Bombay nel giugno 1947). Il protagonista e io narrante del romanzo, Saleem Sinai, essendo nato a mezzanotte in punto di quella fatidica notte d'agosto, ha il dono soprannaturale di penetrare il pensiero del prossimo vicino e lontano, sopratutto quello degli altri "figli della mezzanotte", che formano come un'unica entità plurindividuale, sparsa in tutta l'India. Questi "figli della mezzanotte" comprendono due gemelle bruttissime di cui tutti s'innamorano, una bambina la cui bellezza è tale da accecare tutti quelli che la vedono, un bambino che entra e esce attraverso gli specchi, un'altra creatura che immergendosi nell'acqua può cambiare di sesso, una bambina le cui parole tagliano come coltelli, insomma una lunga serie di fenomeni viventi. I poteri di divinazione del pensiero di Saleem lo fanno partecipare non solo alla vita di costoro, ma di tutta l'India, dalle pescatrici di Capo Comorin ai montanari dell' Himalaya. Siamo in una affabulazione corale e plurima, in cui ogni episodio si dilata, si ramifica, prolifera, si moltiplica in un continuo processo di metamorfosi e teratomorfosi, come sulla facciata d' un tempio indù. Il meglio della sua capacità di trasfigurazione visionaria, Rushdie lo dà in pagine come quella sul quartiere degli intoccabili a Dehli. Ma sempre la sua immaginazione è gremita di figure contorte e aggrovigliate come il mondo visuale della mitologia bramanica.
Questa fantasia grottesca sembra sfrenata ma risponde a un disegno: l'epopea comica dei Figli della mezzanotte è in realtà una dolente meditazione su un trentennio di storia indiana, dal punto di vista - sconfitto in partenza - dei sostenitori dell' unità dell'India al di là delle divisioni religiose, secondo l'insegnamento di Gandhi. La secessione del Pakistan, l'intolleranza da una parte e dall'altra che obbliga prima o poi tutti i musulmani a trasferirsi nello Stato islamico, anche quelli che erano decisi a continuare a vivere nelle loro città, le guerre fratricide tra i due Stati, sono la ferita che questo romanzo non cessa di lamentare, pur attraverso il suo rituale di gags, sberleffi, capriole. E non è questa la sola spinta disgregatrice che Rushdie rappresenta: le lotte tra i vari gruppi linguistici per l'affermazione della propria lingua sono anche oggetto della sua esacerbata caricatura. Se pensiamo che i conflitti più implacabili che insanguinano oggi il mondo si richiamano a regressive contrapposizioni religiose o linguistiche, possiamo dire che il tema dei Figli della mezzanotte non è solo il seguito di delusioni dell'indipendenza indiana, ma il fallimento universale del secolo ventesimo.
Il nonno capostipite della famiglia (quello del lenzuolo) è un musulmano liberale e laico, aderente a una tendenza minoritaria messa subito fuori gioco: la "Free Islam Convocation" che si batte contro la spartizione sostenuta dalla Lega Musulmana. Questa sfortunata aspirazione politica assume nell'affabulazione di Rushdie la figura d'un profeta grasso e timido che s'esprime canticchiando melodie sconnesse e inintelliggibili: un ronzio vibrante sempre più acuto, per cui viene chiamato Humming Bird, uccello ronzante ossia colibrì. Gli ultrasuoni emessi dall'inerme profeta della tolleranza islamica hanno poteri magici tali da provocare in chi li ascolta reazioni fisiologiche variabili tra il mal di denti e l'erezione sessuale; risultano comunque insopportabili ai fanatici della Lega, e il profeta Colibrì finisce accoltellato. L'unica difesa che la vittima sa opporre ai suoi carnefici è il magico ronzio; tutti i cani nel raggio di molti chilometri lo sentono e accorrono a sbranare gli assassini. Non è il solo episodio in cui Rushsie fa intervenire spettacolarmente il mondo degli animali nella storia umana: vediamo anche le scimmie che popolano le rovine d'un'antica fortezza mongola disperdere al vento le banconote estorte ai commercianti musulmani da una banda di fanatici induisti che minacciava d'incendiare i loro beni. Le invenzioni narrative sono molte, forse troppe, ognuna preannunciata in anticipo, ricordata e commentata in seguito; questa eccessiva abbondanza è il difetto del libro; ne risulta un'impressione di sovraccarico, di verboso, di congestionato, accentuata dal fatto che la stilizzazione grottesca tende a fissare il laido e il repellente come qualità stabili e uniformi dell' universo umano. Si sente il bisogno d'un'orchestrazione che inglobi anche movimenti come l'andante, l'adagio, il largo, momenti di respiro, spazi di scrittura e d'immaginazione meno densa, più rarefatta.
Anche questi ci sono, sia pur in proporzione ridotta rispetto alla lunghezza del testo, e sono le pagine dedicate alle descrizioni di città: Dehli, Bombay, Karachi. Le città dell'India, la loro immagine e la caratterizzazione del loro spirito, sono ciò che io preferisco nei Figli di mezzanotte, i veri personaggi di questo libro brulicante di figure umane. Vediamo per esempio Karachi (p. 341): "Era, a quei tempi, una città di miraggi; intagliata nel deserto, non era ancora riuscita a distruggere completamente i poteri del deserto. Oasi luccicavano nel macadam di Elphinston Street, caravanserragli brillavano tra i tuguri intorno al Ponte nero, al Kala Pul. In questa città senza pioggia, il deserto nascosto conserva gli antichi poteri di suscitare apparizioni, e il risultato era che i karachiti avevano un rapporto molto incerto con la realtà, ed erano quindi pronti a rivolgersi ai loro capi per sapere che cosa era reale e cosa no. Circondati da illusorie dune di sabbia e dagli spettri di antichi re, nonché dalla consapevolezza che il nome della fede su cui poggiava la città significava "sottomissione", i miei nuovi concittadini emanavano gli scialbi odori di bollito dell' acquiescenza, assai deprimenti per un naso che aveva fiutato lo stuzzicante nonconformismo di Bombay".


“la Repubblica”, 8 maggio 1984

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