8.1.17

Il fumo, motore letterario (Massimo Raffaeli)

Le boccate di Sereni lunghe e meditate come i suoi versi, il fumo enigmatico di Vittorini, l'endecasillabo di Pintor, le Macedonia di Bilenchi, le dita gialle di Eugenio Montale...
“Scrivo fumando senza tregua” è un endecasillabo bellissimo e l'ha scritto una volta sul “manifesto” Luigi Pintor. Oggi ritenuto politicamente scorretto e indifendibile, il fumo rimane tuttavia nella letteratura italiana un'insegna del secolo che ci sta alle spalle. Fumava Giovanni Papini, da matti, e affumicava insieme con le lenti a culo di bicchiere tante pagine del proprio magistero reazionario, come fumavano, e sapevano di fumo e nebbia i loro personaggi, gli scrittori anni Trenta della fronda antifascista, ad esempio Pavese, che nel fumo incubava enigmi esistenziali, anzi li ruminava in un silenzio spasmodico, e poi l'Elio Vittorini di Uomini e no, le cui nazionali sapevano in sogno d'arancia e limone, e infine Romano Bilenchi, un nostro compagno che dietro al fumo delle Nazionali strizzava gli occhi per pensare meglio, per alleviare ulteriormente la pagina, per indovinare un interlocutore più fraterno.
Fumo e cenere, in allegoria, stanno dentro i testi della grande tradizione poetica, da Eugenio Montale che ne aveva le dita gialle e corrose, a Vittorio Sereni le cui boccate prima che smettesse somigliavano ai suoi versi lunghi e meditati, quasi sospirati.
Umberto Saba fumava la pipa, volentieri morsicandola e peraltro inebriandosi di fumo altrui nelle vecchie osterie, Giorgio Caproni tirò a lungo dalle vecchie Macedonia ma nessuno forse ha fumato tante sigarette quante ne ha fumate Edoardo Sanguineti nel tempo che passa tra i suoi libri apicali, Laborintus ('56) e Postkarten ('78).
Due sono, comunque, e antipodi, gli emblemi novecenteschi del fumo: da un lato quello iscritto nel celeberrimo capitolo terzo della Coscienza di Zeno ('23) di Italo Svevo, sinonimo di coazione a ripetere e inettitudine, mite schiavismo accettato alla stregua di una fatale irresolutezza (perchè Zeno proclama di liberarsene nel momento in cui più disarmatamene vi soccombe).
Dall'altro le sigarette povere, carta e foglie le quali arrotolano tabacco grezzo, che fumano i partigiani di Beppe Fenoglio, prima durante e dopo ogni loro azione, vale a dire i Milton, i Nord, i Johnny: non c'è foto superstite di Beppe Fenoglio in cui manchi la sigaretta al lato della bocca, simbolo stesso del meditare e intarsiare la prosa (e lui proprio di tale doppio accanimento morirà quarantenne) così come non c'è sequenza del suo grande ciclo epico che non preveda il fumare alla maniera di una cadenza esistenziale, e di una necessaria introversione.
Nemmeno questo può essere un caso, in definitiva: pochi rammentano infatti che il secolo da noi si era aperto con un libro all'insegna del buffo, Il codice di Perelà (1911), a firma Aldo Palazzeschi, dove appunto folleggiava un nipote degenere di Zarathustra, l'omino fatto tutto quanto di fumo. Perelà amava le domande dei semplici e odiava le risposte dei filistei, era la leggerezza anarchica di contro alla pesantezza dei poteri costituiti. Dunque rappresentava la mitezza antipode della brutalità. Nel suo niente era tutto, ovvero (e sia detto dopo il ben altro fumo di Auschwitz e Hiroshima) avrebbe potuto esserlo sul serio.

il manifesto, 7 Luglio 2004

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