29.12.16

“Qualcosa di me stesso”. L’ultima lezione di Cesare Luporini (25 maggio 1979)

È questo il testo — recuperato da una registrazione fortunosa e pubblicato da “Il Ponte” nel 2009 — dell’ultima lezione, tenuta dall’autore, nella Facoltà di Lettere di Firenze, al momento dell’andata fuori ruolo. (S.L.L.)
Cesare Luporini a un Congresso del PCI
Vi ringrazio d’essere venuti.
Vorrei parlarvi di alcune cose un po’ remote che mi sono occorse, e anche, anzi soprattutto, di un tempo remoto: gli anni trenta. La mia generazione intellettuale ha testimoniato poco, tranne i politici. Forse proprio perché hanno testimoniato molto i politici, noi ne siamo rimasti un po’ intimiditi. Un amico mi diceva l’altro giorno che la generazione immediatamente successiva alla mia, invece, ha testimoniato anche troppo (non so se sia vero).
Comunque, io ho avuto allora, negli anni trenta, rapporto diretto, per me non irrilevante, con alcuni uomini non irrilevanti nel campo della filosofia. Faccio quattro nomi: Gentile, Croce, Heidegger, Nicolai Hartmann. Però ho la sensazione che falserei tutto, se mi limitassi al campo della filosofia.
Naturalmente, non ho intenzione d’intrattenervi sulla mia infanzia. Dirò solo che ho avuto un’educazione cattolica, anche se molto libera. Dalle mie famiglie confluivano tradizioni cattoliche, d’un certo tipo, un po’ ereticali, tradizioni laiche e tradizioni socialiste; quindi contraddittorie fra di loro, e allora molto contraddittorie. A tredici anni, quando facevo il Ginnasio, ero diventato materialista, in senso biologico. Dio era un’ipotesi senza senso. E allora trovai un poeta – Leopardi – che anche nel seguito è poi rimasto sempre il mio poeta. Ricordo che all’esame di quinta ginnasio (che era stato introdotto dalla Riforma Gentile) portai proprio Leopardi. Al Liceo, invece, divenni idealista, anche per effetto d’un grande insegnante, Giacomo Vertova, che poi lasciò presto l’insegnamento. Così, in qualche modo arrivai all’università un po’ preformato, o “pregiudicato”. All’università, ho studiato e mi sono laureato in questa Facoltà, che, molti anni dopo, m’ha fatto l’onore di chiamarmi, e così vi ho insegnato questi ultimi vent’anni. Mi sono laureato con Lamanna, col quale già al primo anno, mi ricordo, avevo fatto un’esercitazione, per me non poco impegnativa, su Platone (ma ero già in rapporto con Giorgio Pasquali). E a Lamanna sono grato soprattutto della completa libertà che mi lasciò nel mio lavoro per la tesi di laurea.
Questa fu su Kant; ma mi laureai in Lettere, non in Filosofia, perché, venendo qui studente, nel 1927, m’ero diretto su altri studi che non quelli filosofici: piuttosto su studi storici e filologici; anche se pur per ragioni filosofiche, e cioè per l’idea crociana che facesse bene, prima di fare il filosofo, d’occuparsi di altre cose; ma anche – devo dirlo apertamente – per una certa non fiducia, propriamente, nella “Filosofia” di questa Facoltà. A differenza di Garin, mio coetaneo, ma che era un anno avanti – e che già allora consideravamo di gran lunga il più maturo di noi – io non avevo capito quanto si potesse imparare da Limentani. Lo capii solo il giorno della discussione della mia tesi di laurea. Mi pentii di non averlo frequentato, prima, se non molto poco; e da allora in poi presi ad andare a casa sua, mi ricordo, molto di frequente. Poi, avrei occupato quella che era stata la sua cattedra – «Filosofia morale» – allorché la Facoltà volle ricostituirla per me.
Durante gli anni universitari, dunque, i miei maestri furono altri. Soprattutto Pasquali, che per me non fu soltanto maestro di storia. A lui debbo molto. Se ho imparato, per esempio, a fare il “seminario”, lo devo prima di tutto a lui (e poi, devo aggiungere subito, a Heidegger). Professori non si nasce; almeno, non so se ci sia qualcuno che sia nato professore (può anche darsi; ma in generale credo di no). Io avrei potuto avere una vita diversa; mentre non riesco a immaginarla senza due cose: senza la filosofia e senza la politica; e non dico d’essere riuscito a mandarle insieme sempre bene, ma sono sue lati essenziali, determinanti, per me, e fortemente intrecciati.
D’essere diventato professore, in certo modo non ho finito di stupirmi, stupirmi d’essere da quest’altra parte della cattedra. E fare il professore è stata per me un’opzione forte, e non fatta una volta sola, perché ho avuto altre alternative. Anche in momenti un po’ difficili, per me, della cosiddetta carriera accademica, mi sono ostinato in questa scelta. Quanto al fascismo (nel 1922 – marcia su Roma – avevo tredici anni), se devo dire di un’impressione d’allora, soggettiva, parlerei d’una mutilazione della politica, dell’impossibilità cioè di parteciparvi decentemente, con tutte le conseguenze: separazione dal popolo, ecc.; e per questo, già allora, subito, accumulai un rancore, verso il fascismo. È questa impressione d’insieme che ancora serbo degli anni venti, più che non di un’oppressione intellettuale e culturale. C’era, cioè, la possibilità di svolgersi, di formarsi, ma su un lato solo.
Credo anche che a questa impressione corrispondano dei dati oggettivi. Sanno tutti che il fascismo, come regime, ha avuto fasi diverse, anche con un prevalere di personale diverso ai posti di comando; e a questo corrispondevano climi morali diversi. Ci fu chi – della generazione precedente alla mia, ma anche della mia – fu capace di reagire molto presto politicamente. Invece, il mio cammino fu più lento, allora. Vorrei evocare un attimo cos’era Firenze tra gli anni venti e trenta: una specie di salotto, pochissime automobili, molte biciclette, molto spazio per passeggiare, molti stranieri, intendo stranieri residenti qui, con i quali avveniva d’avere un rapporto. E anche ciò facilitava un atteggiamento, di distacco dal regime, un po’ snobistico, dopo le prime delusioni che poteva averne avuto uno della mia generazione. Io partecipai allora d’un tale atteggiamento.
Il cambiamento avvenne, per me, un giorno del maggio del 1930 – una giornata stupenda, trasparente, come quelle che abbiamo avuto anche in questa settimana – allorché ascoltai un discorso di Benito Mussolini. Aveva fatto un discorso (come venivano chiamati allora i comizi) a Livorno, un altro a Lucca, e poi venne a Firenze. E io andai a sentirlo (come privato cittadino, devo dire, e non in qualche organizzazione). Ero, in Piazza Signoria, in quell’angolo un cui c’è il caffè Rivoire, dove la folla era un po’ più rada; e mi ricordo benissimo la scena: dietro di me, un frataccio entusiasta, e poi una signora, che s’era sentita male, fu portata lì perché respirasse… Il discorso di Mussolini aveva un tono molto acceso, infiammato: parlava dell’avanzare dell’Italia come un siluro, un bolide, e così via, con tutto il resto immaginabile (ma, qui a Firenze, parlò anche, mi ricordo, del «profeta disarmato»). Ebbene, fu allora che io capii che bisognava uscire da quell’atteggiamento che ho detto snobistico. Di lì inizia il mio lungo – lungo – viaggio nell’antifascismo (il povero Zangrandi ha scritto Il lungo viaggio attraverso il fascismo; per me, parlerei appunto d’un lungo viaggio nell’antifascismo).
A metà degli anni trenta, ero già in una rete, non propriamente, ancora, cospirativa, ma che lo sarebbe diventata. Era il momento della guerra d’Etiopia; e mi ricordo, fra tutto il resto, della nostra preoccupazione che Benedetto Croce aderisse a essa (non al fascismo, ma alla guerra in corso). Si diceva che andava al porto di Napoli a vedere le truppe che partivano; e comunque un appoggio a quella guerra sarebbe rientrato abbastanza coerentemente in tutto il suo modo di vedere la storia d’Italia. Mi ricordo che si diceva: chi può, vada a Napoli a trattenerlo per la giacca. Un po’ dopo, questi gruppi, in cui ero già entrato, diventarono “liberalsocialisti”: Capitini, Calogero; a Firenze, Enzo Enriques, Tristano Codignola, Ramat; Bobbio, che allora era incaricato a Siena; e tanti altri. Nel 1942, confluiranno nel Partito d’Azione; ma Bianchi Bandinelli e io non vi entrammo: non eravamo d’accordo che quel movimento si trasformasse in Partito. Poi, nell’agosto del 1943 – quando ormai tutto precipitava – aderii al Partito comunista, con il quale ero entrato in rapporto da alcuni mesi. Ricordo che, come usava allora, per l’ammissione subii un esame, in una vecchia casa popolare di Pisa; ed ero molto emozionato.
Dopo quel giorno del maggio 1930 di cui ho parlato, il primo problema che mi si presentò fu come orientare il mio studio, in vista della tesi di laurea. Ma anche qui devo accennare al quadro complessivo. In Italia, non c’era solo la dittatura fascista. C’era anche il predominio dell’idealismo, che si distingueva nei due grandi nomi: Croce e Gentile; ed era estremamente avviluppante, intricante. “Croce e Gentile”, “Croce o Gentile”: questi erano i termini in cui si dibatteva. Il dissenso politico fra loro dopo il 1925 (il fascismo l’avevano appoggiato entrambi, ma poi Croce se n’era distaccato) era solo un lato della questione, non la ricopriva tutta. Per dire sinteticamente come sentivamo allora: dall’“atto puro” o dall’identità di teoria e prassi, sostenuti da Gentile, non si passava necessariamente allo “Stato etico”; sembrava che ci potessero essere altre scelte, e anche in senso rivoluzionario (questo, non soltanto per noi; era stato così, per esempio, per il Togliatti giovane, e lo sarebbe stato, poi, ancora per Lelio Basso, ai tempi di «Quarto Stato»). Dall’altra parte, dai “distinti” crociani non si passava necessariamente a un liberalismo antifascista. A molti sembrava poi che filosoficamente le due posizioni, di Gentile e di Croce, fossero da conciliare, così anche sorpassandole. Intanto, però, era Croce a dominare la cultura – soprattutto quella non strettamente filosofica, ma storica ed estetica – e, rispetto al fascismo, questo era un bel paradosso. In certi ambienti culturali c’era anche la convinzione che l’idealismo italiano, nel suo insieme, fosse comunque in grado di mettere in scacco qualunque altra posizione filosofica, passata, presente e futura; cioè la convinzione che eravamo alla testa del movimento mondiale – e, guardate, sarebbe venuto poi alla luce che anche Gramsci in fondo partecipava di quest’idea.
Mi ricordo d’averne discusso, più tardi, rispettosamente, ma vivacemente, con Luigi Russo. Gli dicevo che “essere in testa” significa avere qualcuno dietro; mentre invece il movimento mondiale era andato per altre strade. D’altro canto, sapevamo bene che in Italia l’idealismo s’era costituito, al principio del secolo, come superamento non solo del positivismo, ma anche del marxismo; in due versioni diverse, ma che i lori due autori, appunto Croce e Gentile, avevano considerato complementari.
Mi è stato chiesto, per esempio da La Penna, come io sarei passato – molto dopo, fra guerra e dopoguerra – dall’esistenzialismo al marxismo. Ma credo che a questa domanda non sia difficile rispondere. Qui vorrei dire piuttosto come ero passato, prima, all’esistenzialismo. Ebbene vi passai per effetto di un’esperienza, fallimentare, ma che in qualche modo può avere un certo significato per ricostruire quel periodo. Ritorno così ai miei anni universitari, nella prospettiva della tesi di laurea. Ne tentai infatti una in storia medievale, con Nicola Ottokar, che era un incaricato, ma di grande fascino come insegnante, con angolature diverse dalle nostre, italiane, tradizionali. Una tesi di laurea sopra le societates populi all’inizio del Trecento a Firenze, che avrebbe dovuto essere lo sviluppo di un’esercitazione a cui avevo dedicato molto impegno (m’ero anche messo a frugare negli archivi, dopo aver studiato le tecniche necessarie a leggere dei documenti medievali). Avevo un assunto incredibilmente ambizioso: di ritrovare in quell’ambito la lotta di classe, che il libro di Ottokar uscito nel 1926, Il Comune di Firenze, in qualche modo sembrava cancellare; cioè di ritrovare le tesi del Salvemini giovane nel suo Magnati e popolani (quando ero arrivato all’università, Salvemini non c’era più, ma c’era ancora una traccia di lui in studenti più anziani; ricordo, per esempio, le sorelle Nordio, una delle quali avrebbe poi sposato un illustre slavista).
Devo dire che quella mia ambizione non era determinata tanto dal libro di Ottokar, quanto dalla recensione che gli aveva fatto Croce, nella «Critica». Una recensione di grande esaltazione, ma dove si vedeva che a Croce poco importava la storia medievale, gli importava invece di mettere da parte la lotta di classe; e difatti tutta la sua polemica era verso la scuola economico-giuridica e verso il materialismo storico. A rileggerla oggi (l’ho riletta proprio in vista di questa lezione), dopo cinquant’anni, è veramente impressionante. La strada che allora avevo intrapreso non era dunque quella d’un qualche crocianesimo, magari pure “di sinistra”, come fu invece per tanti altri. Ma in quel mio proposito fallii completamente.
Non so dire oggi la debolezza di quello che poteva essere il mio marxismo d’allora (avevo sui vent’anni). Non avevo capito quasi nulla, devo riconoscere, di Antonio Labriola, che mi era rimasto sigillato. Fallii completamente, dunque; e abbandonai il campo. Però ne ebbi un trauma molto forte. La conclusione era che il marxismo era bello, ma non vero. L’altra conclusione, che il lavoro dello storico era inutile: si vanno a vedere i documenti, ma poi le cose non tornano. E così passai alla filosofia, non potevo più evitarla; ma sotto una sollecitazione per la quale il quadro dell’idealismo non bastava: se il marxismo non era vero, questo significava che, anche per capire la società, bisognava riconfermare l’individuo come centro d’iniziativa irriducibile; mentre proprio questa questione, dell’individuo, ci appariva il punto debole dell’idealismo. In questo, l’individuo scompariva: nello Stato etico di Gentile oppure nella “morale dell’opera” del Croce; ma comunque scompariva.
Quella mia d’allora era una spinta (che oggi potremmo anche dire libertaria) legata all’idea della finitezza umana, nella sua irriducibilità. Per questa esigenza – della finitezza umana, dell’iniziativa individuale, della libertà, e d’una ricostruzione su una tale base anche del rapporto sociale – mi rivolsi verso Heidegger. Nel ’30 andai in Germania, a Friburgo, dove insegnava; ma non riuscii a incontrarlo, avevo sbagliato i tempi. Invece, l’anno dopo (ma ero ancora studente) entrai nel suo seminario del semestre estivo. L’uomo era di grande fascino, un fascino, direi, enigmatico; ma anche di un’enigmatica affabilità – qualcuno diceva che affabile lo era soprattutto con gli studenti stranieri – e io riuscii a entrare in rapporto con lui molto rapidamente (venendo da Firenze, era più facile; perché anche a Firenze s’entrava in rapporto con i professori – con alcuni professori, ancora una volta, innanzitutto con Pasquali – senza sfacciataggine ma nemmeno timidezza). Se dovessi dire che cosa ho preso da Heidegger, direi, in sostanza, quello che invece lui avrebbe poi respinto, e cioè, precisamente, l’esistenzialismo; mentre mi sembra d’aver preso pochissimo del suo ontologismo, che già c’era nel suo libro Sein und Zeit. E devo dire che la ripugnanza verso l’ontologismo m’è ritornata proprio adesso, e non solo verso quello di Heidegger, ma in generale, verso tutto quell’ontologismo che oggi è in circolazione, mi pare, magari anche sotto vesti politiche (le tante parole con la maiuscola, come “il Sociale”, “il Politico”, ecc.). Mi ricordo che una volta dissi, a Heidegger: «Ma in alcune lingue il verbo essere non c’è. E perché allora costruire tutto intorno a esso?» – e lui si stupì di quest’osservazione.
Forte fu il trauma per l’adesione di Heidegger al nazismo. Nel semestre estivo del 1933 ero tornato a Friburgo, con una specie di borsa di studio – nel frattempo, m’ero laureato, e nella tesi, su Kant, avevo tenuto conto anche di Heidegger. E così sono fra i pochi stranieri ancora vivi (credo che ce ne sia un altro in Francia) presenti allora alla famosa prolusione Die Selstbehauptung der deutschen Universität. Fu un grosso colpo, per parecchi, particolarmente per gli stranieri, che erano poi soprattutto dell’Europa centrale. Quanto a me, dopo una settimana andai da Heidegger, a prendere congedo (il pretesto era facile, perché, con le sue mansioni di rettore, aveva sospeso il seminario).
Allora, mi spostai a Berlino. S’era nell’anno della presa del potere da parte dei nazisti; e la grande cultura di Weimar non era ancora del tutto spenta, ma era in agonia. Era, direi, il “crepuscolo degli dèi”. Molti professori erano già con la valigia pronta; molti che poi furono effettivamente costretti ad andare all’estero. Per esempio, Werner Jaeger, la cui casa allora frequentai. Poi, ricordo, per esempio, Romano Guardini, o Spranger. Ma il mio rapporto, a Berlino, fu soprattutto con Nicolai Hartmann, di cui presi a frequentare il seminario (non fu sempre un rapporto facile; ma su questo ora sorvolo). E attraverso Hartmann scoprii Scheler (cosa che naturalmente non entusiasmò Hartmann), che su di me ebbe molta influenza.
In quella specie di collegio in cui risiedevo a Berlino – si chiamava Hegel Haus, ed è poi andato distrutto con la guerra – c’era già Claudio Varese, qui presente oggi; e da lì iniziò la nostra amicizia. A un certo punto arrivò Cantimori, anche lui con la valigia, ma, lui, perché attraversava l’Europa in cerca di biblioteche. Anche con lui il primo approccio non fu tanto semplice; però poi (doveva rimanere solo pochi giorni, e invece rimase, mi pare, un mese) si strinse allora un legame profondo fra di noi. In seguito, Cantimori l’avrei ritrovato a Pisa, alla Scuola Normale, allorché nel 1939 vi fui chiamato da Giovanni Gentile. Con Gentile ero entrato in rapporto perché aveva letto la mia tesi di laurea, in occasione d’un concorso a cui l’avevo presentata. Poi – dopo che ero entrato nell’insegnamento – nel 1937 aveva appoggiato la mia richiesta di trasferimento dal Liceo Scientifico di Livorno a Firenze.
Sennonché questo trasferimento fu bloccato, all’ultimo momento, dal ministro, Bottai, in seguito a un ricorso, ma in realtà, come venni a sapere, per le cattive informazioni politiche su di me. Bottai rinfacciò a Gentile d’andare a raccomandare gente sospetta; e proprio così cominciò per me un rapporto, con Gentile, di grande franchezza politica. Non direi che fosse un uomo complicato. Era un uomo di potere, non c’è dubbio. Ma aveva anche una sua concezione – diciamo “dialettica” fra virgolette – per cui era bene che i giovani fossero ribelli, perché poi, dopo, sarebbero diventati uomini d’ordine più saldamente. E fu sulla base di questa concezione che diresse anche la Scuola Normale. Il trasferimento a Firenze, l’ebbi l’anno dopo. Ma qui, nella nuova scuola, trovai un’atmosfera, un clima, molto diversi, rispetto a Livorno. Qui, c’erano i microfoni, in classe, e gli scolari, ogni tanto, me li indicavano, perché, mentre parlavo, me ne dimenticavo. Sentivo come un cerchio che si stringeva; cercai allora il modo d’andare fuori d’Italia, e pensai d’andare a fare il lettore d’italiano a Friburgo. Gentile lo venne a sapere, e mi chiamò a un redde rationem. Io gli dissi – ormai, a quattr’occhi gli parlavo molto francamente – che le cose precipitavano (si era nella prima parte del 1939), e che in fondo Friburgo era solo a sessanta chilometri dalla Francia (non so se era esatto, credo anzi che geograficamente non lo fosse), e cioè che di lì sarebbe stato più facile passare dall’altra parte. Allora, Gentile mi diede del pazzo, accomunandomi ad altri che, egli sapeva, avevano avuto lo stesso pensiero. Poi, però, venne la guerra, e io mi ritrovai con l’impegno preso con il ministero degli Esteri, che ora insisteva perché andassi a Friburgo, mentre naturalmente non ne avevo più alcuna intenzione, proprio perché non sarebbe più stato possibile un passaggio, di lì, dall’altra parte. Sennonché, una notte, verso le due del mattino, ricevetti una telefonata, da Gentile, che mi disse che era disponibile un posto di lettore di tedesco alla Scuola Normale – evidentemente, non ci voleva mettere un nazista – ma che non c’era tempo per decidere: dovevo farlo entro poche ore. Io aspettai un momento, e poi gli risposi che accettavo. Dopo un silenzio, lui commentò: «Così si decide la vita d’un uomo!». E aveva ragione.
Non mi soffermerò sull’ultima fase di Gentile, tragica. Ricordo solo che, certo illusoriamente, cercai di persuaderlo a che si tirasse fuori dal fascismo, nel frattempo divenuto la Repubblica di Salò. Nel novembre del ’43, al Salviatino, dove abitava, ebbi con lui un incontro che non finiva mai, perché non riuscivo a rimanere solo con lui. Quando ce la feci, lo misi al corrente di quello che stava succedendo, dandogli delle notizie che evidentemente non gli davano le autorità fasciste – era stato anche ucciso uno del suo entourage – mentre io le avevo dalla rete clandestina in cui mi trovavo. Me ne uscii con la sensazione che forse qualcosa avevo ottenuto. Invece, non era così: due giorni dopo, venne fuori che il ministro Biggini s’era recato lì, al Salviatino, per offrirgli la presidenza dell’Accademia d’Italia, e che Gentile aveva accettato (ma, quand’ero stato da lui, non me l’aveva detto). E così s’avviò verso un destino di cui in qualche modo aveva consapevolezza.
Potrei dire qualcosa anche della cerchia di Benedetto Croce. Egli veniva ogni tanto a Firenze, nei suoi viaggi. Io ero fra quelli che si raccoglievano attorno a lui in casa di Luigi Russo; e si parlava delle cose più varie (avrei da raccontare alcuni aneddoti). Poi, la sera, almeno una parte di noi lo accompagnava, in corteo, all’Albergo Porta Rossa, dove alloggiava. Ricordo che una volta, tornando indietro – eravamo in via Tornabuoni – Raffaello Ramat, preso dall’entusiasmo, disse: «è il nostro Socrate»; e io mi ribellai vivacemente. Era un uomo di grande fascino culturale, Croce; ma no, io non l’ho mai sentito come il mio Socrate.
Ora vorrei passare a una questione più generale: che cultura avevamo, in Italia, negli anni trenta. Beninteso, parlo qui dell’élite a cui appartenevo, allevata per essere tale, secondo la tradizione della scuola italiana, come scuola di classe, caratteristica che era stata addirittura rafforzata dalla Riforma Gentile (chiamata, allora, la Riforma Croce-Gentile); e quindi persone destinate alle professioni liberali e all’insegnamento, tanto più allora che, per chi era antifascista, non era praticabile la politica istituzionale. Ora, la cultura fascista era, largamente, una fictio, se non per la parte politica, per la teoria dello Stato (dallo Stato “etico” s’era passati allo Stato “corporativo”, e alle diverse interpretazioni di quest’ultimo: di sinistra, come nel caso di Ugo Spirito, o non di sinistra). Ma per il resto la cosiddetta cultura fascista non era che un’etichetta. Ricordo d’essere stato solo due volte all’«Istituto di cultura fascista»: una volta, per sentire Ungaretti che parlava su Leopardi, e un’altra per sentire Corrado Pavolini (il fratello del famigerato Alessandro) che, non privo d’una qualche finezza, parlava di cultura tedesca. Un’etichetta, la pretesa cultura fascista; o una velleità di certi letterati, come Papini, o Soffici, che noi disprezzavamo. La cultura – pensavamo – era altrove; era nella «Critica» di Croce, oppure nella «Civiltà moderna» di Codignola, che cominciò proprio nei primi anni trenta, oppure nella «Cultura» di De Lollis, e così via (naturalmente, rispetto al fascismo, c’era una doppiezza, in questo sistema; il che a noi giovani cominciava a ripugnare).
Da un certo punto di vista, la vera dittatura era proprio quella idealistica, nei suoi due rami, crociano e gentiliano. Devo dire però che non mancava affatto la possibilità di informarsi più largamente. Devo dire anche che, in tutti gli anni trenta – e nei primi quaranta – fu molto importante la letteratura, sia quella italiana sia quella non italiana. Faccio solo dei nomi, di chi via via venivamo scoprendo: Svevo; e poi Vittorini, che su «Letteratura» pubblicò Conversazione in Sicilia; Gadda; poi (ma più tardi), Pavese; ecc. E i poeti. Nella nostra gioventù, c’era una triade: Ungaretti, Montale, Saba. Di quello che veniva da fuori, mi ricordo che cosa voleva dire, ogni mese, l’arrivo della «Nouvelle Revue Française». E Gide; Valéry; Proust. Non altrettanto potrei dire della filosofia, per quel che ci veniva dalla Francia (Les deux sources di Bergson non fece una grande impressione, almeno a quelli come me), prima di – molto più tardi – Kojève, e cioè della riscoperta, sotto nuova angolatura, di Hegel. Ancora, i bagliori, i grandi bagliori, provenienti dalla cultura di Weimar; Thomas Mann; poi, Kafka; poi, Rilke (ricordo le traduzioni da Rilke di Giaime Pintor per la Einaudi). E non solo la letteratura, ma anche il pensiero. Per esempio, si parlava di Freud, allora (qui, a Firenze, da parte di Enzo Bonaventura). O di Max Weber (il libro di Mario Manlio Rossi L’ascesi capitalistica di Max Weber risale al 1928). Da Milano ci arrivava in qualche modo una parte di Husserl. Dall’Inghilterra, la cultura del dopo-crisi. E sapete tutti quanto operò, poi, il romanzo americano, per iniziativa di Vittorini. Certo, molte di queste cose Croce le giudicava negativamente, quando ne parlava nella «Critica»; e io ero tra quelli che non l’accettavano. Comunque, tutto ciò tendeva a rompere quello che altrimenti sarebbe stato un isolamento.
E quando, alcuni anni fa, Arbasino s’è chiesto, degli intellettuali italiani di quegli anni: «Perché non attraversavano il ponte di Chiasso?», ha dato un quadro assolutamente falso, della cultura che vivevamo allora. Come si sarebbero mai formati degli Chabod, o dei Cantimori, per limitarsi agli studi storici, se il ponte di Chiasso non l’avessero traversato? Poi, ancora, ci fu la scoperta, o la riscoperta, della Russia; che, credo, fu molto condizionata, per opposizione, dall’avvento del regime nazista in Germania. Mi ricordo quello che fu il successo di Solochov, con Il placido Don, quando ne fu tradotto il primo volume (gli altri, successivamente). Era una società corale che in questo grande romanzo veniva come a rispecchiarsi; questa era l’immagine che veniva fuori. Mi ricordo anche che, alla fine del secondo anno che ero professore a Livorno, nel ’37, venne una delegazione di studenti a chiedermi delle lezioni supplementari. Credevo che volessero un aiuto per l’esame di Stato; e invece volevano delle lezioni sulla Russia. Per un attimo, pensai che fosse una provocazione; e invece non era così: era un effetto, in qualche modo, anche delle mie lezioni (pur non essendo io, allora, per niente comunista). A quegli studenti, dissi che non sapevo molto più di quello che già gliene avevo detto; ma ci mettemmo a far qualcosa, cominciando con lo studiare la Costituzione sovietica del 1936, che nel frattempo era stata pubblicata, in italiano, da un editore che si chiamava Grimaldi.
Mentre cresceva sempre più l’inquietudine, lentamente in noi si produceva un rivoluzionamento culturale – “molecolare”, avrebbe detto Gramsci. Gli elementi di rottura, erano molto precisi. Per esempio, col dannunzianesimo: forse nessuno è stato odiato più di Gabriele D’Annunzio, dalla mia generazione. Un rivoluzionamento, dunque; che tendeva anche a politicizzarsi, in modo del tutto indipendente dai partiti politici che erano nell’emigrazione. E nascevano anche nuove case editrici: basta vedere quello che fu il catalogo della casa Einaudi, per vedere quale immissione di fatti e di problemi nuovi – si andava da Trotzkij ai più recenti economisti inglesi, come Keynes. Noi, eravamo uno strato sottile, modesto, di studenti, giovani professori di liceo; e più o meno – parlo dell’Italia – ci si conosceva tutti. Si veniva costituendo, direi, un nuovo antifascismo, o almeno una nuova potenzialità di antifascismo, indipendente, ripeto, dai partiti antifascisti dell’emigrazione. E credo che questo sia molto importante, perché credo che senza questo passaggio non si spiegano tante cose, a cominciare dai quadri intellettuali della Resistenza, che i partiti organizzati non ebbero nemmeno il tempo di formare; col che si avrà poi anche il ricongiungersi con un movimento popolare. E neppure si spiega, direi, quell’esplosione di idee che ci sarà dopo la Liberazione, quella che Cesare Pavese, nel suo diario, uscito postumo, Il mestiere di vivere, ha chiamato la «pienezza» degli anni ’45 e ’46.
Un momento di svolta era stato la guerra di Spagna, con la scossa che produsse. Ricordo che allora circolò clandestinamente, perché naturalmente in Italia era proibito, il romanzo Les grands cimetières sous la lune d’un cattolico francese, Bernanos, che in Spagna c’era andato dalla parte di Franco, ma era passato in quella opposta. E, poi, il 1938; l’anno delle leggi razziali, in Italia. Un anno decisivo. Fra l’altro, anche quello in cui Croce ripubblicò Labriola, accompagnandolo col suo famoso saggio Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia. In un mio scritto, ho detto che, da parte di Croce, questo era un «rischio calcolato», perché sentiva che il marxismo tornava. Per noi, furono molti importanti allora, per esempio, i Morceaux choisis di Marx, curati da Guterman e Lefebvre; ma cominciavano a entrare anche altre opere, oltre che di Marx (queste, in fondo, era più facile trovarle), per esempio di Lenin. Proprio nel 1938 cominciò la crisi profonda del fascismo – una crisi morale – in un processo di decomposizione all’interno del Partito fascista stesso. Il clima cambiava. Si annunciava, in qualche modo, anche la tempesta alla quale si sarebbe andati incontro. Molti passarono allora dal fascismo all’antifascismo; e alcuni di loro sarebbero poi caduti eroicamente nella Resistenza: delle persone, quindi, con le quali era magari accaduto di discutere, anni prima, sul loro fascismo.
Poi, la guerra. Rispetto alla guerra, l’atteggiamento degli intellettuali antifascisti fu vario; ché taluni ritenevano che comunque dovessimo entrarci. In questa situazione, e nonostante tutto quello che si annunciava, noi giovani antifascisti, però, sentivamo d’avere una qualche forza. È il momento di certe riviste. Ricordo, per esempio, una rivistina, «Argomenti» (dalla quale sarebbero derivati, nel dopoguerra, i «Nuovi argomenti»), su cui pubblicai uno scritto in tre puntate. Poi, naturalmente, fu proibita, per il tono antifascista che vi circolava; ma intanto ne era uscito un certo numero di fascicoli. Oppure, il gioco che veniva facendo Bottai su «Primato»; ma su questo non mi soffermo, perché oggi se n’è scritto molto. Comparve allora, in una collezione diretta da Gentile, anche il mio libro Situazione e libertà nell’esistenza umana. Porta la data del 1942; ma era uscito alla fine del ’41, perché mi ricordo che per Natale l’avevo portato in omaggio a una ragazza che amavo, e che oggi è qui presente (ma, devo dire, lei non si fece né in qua né in là, perché era abituata a vivere tra gente che pubblicava dei libri). Non era scritto per ragioni accademiche; ed ebbe una certa risonanza anche fuori dalla cerchia dei filosofi, nonostante che fosse d’un giovane sconosciuto. Ricordo come ne parla Pavese in un capitolo del diario che già ho menzionato, Il mestiere di vivere (Pavese non me ne aveva mai detto niente, e io fui colpito, quando lo lessi, dopo la sua morte). Oppure, tempo fa, Claudio Varese m’ha passato una bellissima lettera di Dessì, sempre a proposito di quel libro. Lo lesse anche Mario Manlio Rossi, allora professore a Edinburgo. Lo incontrai qui, alla Sansoni, e mi disse: «Di qui, si va dritti al marxismo»; e io gli risposi: «No, assolutamente no; anzi, è vero il contrario: è proprio dal marxismo che io provengo» (un’incredibile, ancora, ingenuità, dire che provenivo dal marxismo).
Ricordo anche che, nelle nostre discussioni, i compagni liberalsocialisti mi dicevano sempre: «Ma, allora, tu sei comunista»; e io mi difendevo da questa taccia (era una taccia). Ma, in fondo, su di me, allora, avevano ragione loro. Così, quando, oggi, ho una discussione con Bobbio, ho l’impressione di continuare ancora, in condizioni mutate, quelle di allora. Per diventare, poi, comunista, decisiva fu per me la lettura di Stato e rivoluzione di Lenin, che mi passò Cantimori; ma su questo non voglio ora inoltrarmi. Vorrei dire solo che tutto quello che ho evocato finora ha un rapporto stretto con un’impresa alla quale partecipai, subito dopo la Liberazione: una rivista, che si chiamava «Società»; perché, almeno per la parte che mi riguardava, che era poi quella programmatica, l’idea era d’una saldatura fra quella cultura degli anni trenta di cui ho parlato – quella rottura con il passato che eravamo venuti preparando lentamente, modestamente, molecolarmente – e la cultura di quelli che venivano da fuori, soprattutto i dirigenti comunisti, e segnatamente Togliatti. Perciò, non ero d’accordo con Vittorini, con la sua idea, nel «Politecnico», d’una “nuova cultura”. I contenuti li avevamo in comune, più o meno; però io ero per un continuismo, non assoluto, naturalmente, ma rispetto a quel che ho detto; e scrissi anche un articolo, intitolato Rigore della cultura, che aveva una parte di polemica con Vittorini, e che ora ripubblico in un volume in cui, iniziando proprio con questo intervento, raccolgo trent’anni di Polemiche marxiste. Dopo i primi due anni, però, l’impresa di «Società» fallì; certo, per debolezze nostre, culturali e politiche, ma anche non solo per questo.
E qui mi fermo: non parlo di questi ultimi trent’anni. Non parlo, per esempio, di quello che è stata per me l’importanza, grande, della militanza in un partito operaio, come quello a cui appartengo, e di ciò che ciò ha significato anche per la ricerca e l’insegnamento: molto, anche se non vorrei indulgere a troppo facili armonizzazioni a posteriori. Per l’intellettuale – intendo per chi in qualche misura è un produttore di conoscenza – è sempre tutto abbastanza difficile, quando si sia anche impegnati direttamente nella vita politica. Semmai, mi consentirei di dare una specie di indicazione per chi s’incamminasse appunto per questa strada, peraltro affascinante, e che io ho sentito comunque come doverosa. Anzi, due indicazioni. La prima, di non diventare mai cortigiano, rispetto a chi ha il potere, nelle organizzazioni di cui si faccia parte. La seconda, ancora più importante, di non tenere troppo al proprio nome, quanto alle idee politiche che uno riesca, o creda di riuscire, a elaborare. Quel che importa è la loro socializzazione: che entrino, per esempio, nella testa dei dirigenti. Ma, perché possano socializzarsi, queste idee devono partire da esperienze reali, e in qualche modo avere un rapporto con le masse.
Ciò non significa sparire nell’anonimato, ma distinguere piani diversi: altra cosa è il piacere, credo legittimo, anche sacrosanto, di vedere il proprio nome sopra un libro o in fondo a un saggio critico, e altra è appunto quel tipo d’elaborazione a cui mi riferivo. Per finire, o quasi, prendo ancora qualche minuto, per esprimere la mia gratitudine verso chi mi ha aiutato nella cosiddetta carriera accademica: anche altri, ma, prima di tutto, Garin e Calogero. E per la Facoltà di Lettere di Pisa, che mi tenne per quindici anni, non facili. Erano i tempi della guerra fredda (e d’altronde allora non era tanto facile neppure essere comunisti). Ho avuto la fortuna d’avere degli scolari di grande valore e di averli in qualche modo aiutati a crescere. Alcuni sono presenti. Nomino solo il più antico, Nicola Badaloni, al quale sono molto grato che sia qui oggi. Poi, ci sono quelli che hanno preso altre strade che non quelle dello studio. E poi quelli scomparsi, che non posso non rammentare: Nicola Vaccaro, che tanto avrebbe lavorato per le Lezioni d’estetica di Hegel; e Carlo Ascheri, che ha lasciato una traccia indelebile negli studi feuerbachiani, cominciando da un’esercitazione di Filosofia morale, quand’era studente del secondo anno, a Pisa (ho ancora il volume su cui avevo appuntato il suo nome, per quell’esercitazione), e in seguito avrebbe avuto molto aiuto, in Germania, da Löwith.
Ho avuto la fortuna – ma credo anche qualche merito – d’avere questi scolari. Invece, non credo d’avere fatto una scuola. Io non l’ho cercata. Qualcuno me l’ha rimproverato, per esempio, una volta, ricordo, l’amico Vacatello. Può darsi che avesse ragione; ma questo attiene al modo in cui uno sente l’insegnamento, che può essere molto vario. Penso che, sul modo in cui lo sente, ogni professore, a un certo momento della sua vita, dovrebbe fare un po’ d’autoanalisi. Forse, ci sono come due poli estremi: un modo, che tende a una forma di potere – non intendo potere accademico, ma intellettuale – e un altro, per il quale non saprei parlare che d’una forma di eros. Quest’altro, era il modo di Giorgio Pasquali. Ora, io non mi sono trovato né sull’uno, propriamente, né sull’altro, dei due poli; ma, certo, più vicino al secondo, e anche per questo a Pasquali sono tanto grato.
Per concludere, ora, davvero, vorrei dire che, nell’insegnamento della filosofia, ho cercato sempre d’avere presenti due parametri. Uno, l’importanza delle circostanze storiche, cioè culturali – circolazione delle idee – e sociali. L’altro, la dimensione, per me irrinunciabile, dei grandi pensatori. Per me, i grandi filosofi ci sono, continuano a parlarci. Diceva Burckhardt (non a proposito specificamente di filosofi, ma in generale) che la grandezza è un mistero; ma, io credo, un mistero che poi si risolve, di volta in volta, abbastanza empiricamente. Per me, i grandi filosofi sono quelli che, avessero o no una grande cultura, sono riusciti a lavorare in presa diretta sulla realtà. E quindi un primo compito è quello di ricostruire – e, nell’insegnamento, aiutare gli studenti a ricostruire – l’immagine della realtà, naturale, sociale, politica, che essi hanno elaborato; perché di lì viene anche il loro retaggio teorico, quello che ci hanno lasciato, che permane o che riemerge in certi momenti della storia. Allora, in quest’ambito teorico, è possibile anche, in certa misura, farli dialogare tra di loro. Penso che questo sia importante di comunicare ai giovani. A me non piace, devo dire, l’espressione “trasmissione del sapere”, mi piace piuttosto “appropriazione”; e quindi: aiutare ad appropriarsi di qualcosa. Ma rimane la questione della grandezza, che poi tocca anche il senso della nostra misura, riportandoci a un’altra frase di Burckhardt: «grandezza è ciò che noi non siamo». Grazie.


da “Il Ponte”, Cesare Luporini, 1909-1993, numero monografico dedicato a Cesare Luporini, anno LXV, n.11, novembre 2009

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