22.12.16

Monopoli digitali. Il capitalismo che odia la concorrenza (Pagina 99)

L'articolo che segue è stato pubblicato senza firma come “provocazione” in un box a piedi di una doppia pagina dedicata ai monopoli digitali. L'autore dovrebbe essere Enrico Pedemonte, curatore del servizio. (S.L.L.)
Peter Thiel e Donald Trumpo

Quella sui monopoli digitali non è solo una battaglia economica, ma soprattutto una battaglia culturale, e il crogiuolo dove questa cultura viene forgiata è la Silicon Valley, dove ideologie e tecnologie vengono prodotte con analogo fervore. Se Internet è il nuovo mondo, niente è come prima e persino le tradizionali regole dell’economia vengono messe in discussione.
Peter Thiel è un personaggio chiave per capire la scommessa in gioco. Il grande pubblico lo ha visto sul palco della Convention repubblicana a braccetto con Donald Trump. Ma gli addetti ai lavori lo conoscevano da anni come il miliardario fondatore di Paypal (la società che facilita i pagamenti sul web), investitore di Facebook, guru della Valley e ideologo libertarian autore (nel 2015) di Zero to One, pubblicato in Italia da Feltrinelli. Thiel è un difensore dei monopoli e un denigratore della concorrenza, sostiene che «la competizione è per i perdenti» e che il capitalismo odia la competizione perché questa impone costi altissimi e diminuisce il valore delle aziende. Al contrario, i veri imprenditori costruiscono qualcosa che prima non esisteva e creano un monopolio: «I monopoli guidano il progresso».
Ogni ideologia è figlia del suo tempo, e quella di Thiel è figlia dell’attuale ciclo tecnologico dominato dalle reti che creano le condizioni perché si sviluppino “monopoli naturali”.
Nel suo ultimo libro (The People’s Platform, Metropolitan Books) Astra Taylor spiega il successo (e il monopolio) dei colossi digitali come il trionfo delle piattaforme digitali, strumenti adatti a mettere in comunicazione gruppi di persone per scambiare beni, servizi e informazioni. Esempi? Ebay collega venditori e compratori, Uber fa incontrare persone in cerca di taxi e taxisti, Facebook facilita le reti degli amici. Una piattaforma crea un ecosistema che è anche un monopolio naturale perché il valore di una rete aumenta a dismisura con il crescere delle persone collegate. Ovvio che il migliore diventi monopolista. La mancanza di struttura rende Internet un mondo darwiniano dove prevale il più forte e il più debole soccombe.
Taylor si spinge più in là. Sostiene che l’Internet aperto che molti continuano a sognare è ormai un mito del passato: l’Internet di oggi è ormai dominato dalle piattaforme. Bastano pochi dati a dimostrarlo: Facebook è ormai responsabile di oltre il 25% di tutte le visite sul web e quando la piattaforma di Google subì un crash, il 16 agosto 2013, il 40% del traffico di Internet tracollò. Il traffico è concentrato in un numero limitato di piattaforme che controllano i dati degli utenti. Un tempo si diceva che erano i contenuti a dominare il web: content is king. Era un’illusione. I contenuti hanno perso valore essendo quasi tutti gratuiti, mentre i re della rete sono coloro che controllano le connessioni.

Ma siamo solo all’inizio del percorso. I “monopoli naturali” di Internet puntano alla personalizzazione di servizi sempre più raffinati che dilagheranno nelle case, nelle automobili, nei vestiti che indossiamo, anche grazie a nuove tecniche di realtà virtuale e chissà quali altre diavolerie. Ma anche il termine “monopoli naturali” è frutto dell’ideologia alimentata dalla Silicon Valley. Se sono “naturali”, che cosa ci possiamo fare? Ma forse qualcosa si può fare. All’inizio del Novecento ci vollero decenni per porre un argine ai monopoli nascenti. E oggi?

Pagina 99, 9 settembre 2016

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