18.12.16

In morte di Franco Fortini. Un poeta contro (Cesare Garboli)


Franco Fortini (in camicia bianca) alla Olivetti
Oggi, 28 novembre, è un giorno di dolore.
È morto Franco Fortini, uno che ho sempre pensato e immaginato giovane.
Tempo fa, quando morì Cesare Luporini, non avrei mai creduto che quella morte mi avrebbe tanto turbato. Luporini era un comunista istituzionale (senatore, figurarsi), proveniente dall'esistenzialismo anni Quaranta e dalla filosofia di Gentile (infinite sono le vie del Signore). Il motivo del mio turbamento era egoistico, un rimorso; passavano i giorni e mai trovavo il tempo per ringraziarlo del suo ultimo libro, su Leopardi. Negli ultimi anni non pensava ad altro. Era diventato un signore elegante, sempre più elegante, un gran signore dal volto aguzzo alla Casanova e con la fissazione di Leopardi.
Ma che c'entra Leopardi, adesso? Se si tratta di rimorsi, nei confronti di Fortini i miei rimorsi non si contano: si ammucchiano, si sorpassano, in gara a chi arriva primo. Perché non affronto la verità e non dico chiaramente a me stesso che Franco Fortini non c'è più? Ho così paura del mondo di oggi e della mia vecchiaia? I comunisti muoiono. Era tutta gente poco più grande di me. Avevano vent'anni al tempo della Resistenza e della Liberazione. Ma Fortini non è mai stato un vero comunista, anche se una delle sue poesie dice: "Sempre io sono stato comunista", o qualcosa del genere. È una bella poesia, bello anche canticchiarsela oggi che tutti dicono che il comunismo è morto. Povero Fortini! Era sempre in lite con il mondo, sempre in prima linea. Sempre a raddrizzare il mondo, sempre pedagogo. Aveva la rettitudine di Catone e tutte le virtù di Bruto. Ma era solo, il più solo di tutti. Che viaggio è stato il suo! Non è mai stato comunista perché era solo. Non era come Luporini, tutt'altro; non era un politico, non era uomo né di parte né di potere. Era un perdente, un eterno perdente; di quelli che provocano, che abbaiano, che non si sporcano, che hanno sempre la coscienza lavata, più bianca del bianco. È stato ascoltato soprattutto tra il Sessanta e il Settanta, un po' prima e un po' dopo il Sessantotto. Molti giovani sarebbero morti per lui, come si può morire per Catone o per Bruto. Ha cominciato a diventare poeta, secondo me, col tempo, invecchiando. Le poesie che ha scritto negli ultimi anni sono bellissime. Per esempio: Se volessi un'altra volta queste minime parole/sulla carta allineare (sulla carta che non duole),/il dolore che le ossa già comportano/si farebbe troppo acuto, troppo simile all'acuto/degli uccelli che al mattino tutto chiuso tutto muto/sull'altissima magnolia si contendono./Ecco scrivo, cari piccoli. Non ho tendine né osso/che non dica in nota acuta: ' più non posso' ./Grande fosforo imperiale, fanne cenere. Gran poesia (i comunisti muoiono).
La verità è che Fortini era un grande letterato, un letterato che, ogni tanto, come Giuseppe Parini, Alessandro Manzoni o Vincenzo Monti, scriveva delle poesie bellissime e insuperabili. Solo che questo letterato incallito, con tutti i vizi, le qualità, le vanità dei letterati, è stato visitato un giorno dalla politica così come Cristo si è fatto visitare dal demonio. Negli anni in cui Fortini era giovane, era impossibile non farsi tentare. Marx, Lenin, Brecht, Togliatti, Vittorini, Pasolini, la Olivetti, il Sessantotto, che pasticcio! Sempre qualche metro più a sinistra della sinistra, e sempre a un palmo da terra. Fortini incarnava la sinistra a oltranza, la sinistra come eterno richiamo utopico, la sinistra come eterna funzione della "poesia" (se potesse leggermi mi scannerebbe). La politica è stata la sua selva oscura, la grande boscaglia dove si è perso. È stata il suo vanto, il suo onore, ma anche il suo "errore". Fortini lo sapeva, in quei momenti di chiarezza che lo afferravano in mezzo alle onde della confusione e della complicazione. Ho sotto gli occhi Attraverso Pasolini, uno dei suoi ultimi libri, uno di quei brutti coriandoli o gettoni einaudiani che imitano l'editoria bulgara o rumena, l'editoria oltre cortina quando la cortina non c'è più. Ma bisogna leggerlo. Quello che sembrava oscuro, arduo, difficile, il tempo lo ha reso chiaro. È un libro bellissimo. Per tutta la vita, Pasolini è stato il vero, grande interlocutore e antagonista di Fortini: il rivale per antonomasia, nel senso di un famoso titolo di Cassola. L'antagonista è colui che ci supera e ci assomiglia, il nostro gemello, il nostro infausto signore di Ballantrae: colui che è come noi, uguale a noi, e che, inferiore alla nostra intelligenza, ma a nostro eterno scorno, arriva sempre prima di noi, un centimetro prima di noi, e va in giro portandosi e palpandosi in tasca la pietra filosofale che a noi manca. Quel che faceva Pasolini, Fortini lo vedeva un istante prima di lui; ma lo vedeva e basta. Ci tornava su dopo, a ragionarci intorno passato il momento, quando il mondo aveva già cambiato pagina e direzione. Pasolini arrivava da A a Q o a Z in un lampo, per la strada più diretta; Fortini andava a zig zag e impiegava ore. Era un dodecafonico della letteratura: per suonare la sua musica doveva passare per tutte le lettere dell'alfabeto e suonarle tutte, nessuna esclusa. Ogni poeta ha il suo stile. Quel che c'è di buono in Pasolini lo si vede subito, e lo capiscono tutti. La musica di Fortini è più nascosta, più segreta, più difficile. Strano, la sua è veramente una musica "per soli uomini", per addetti ai lavori. Era il suo paradosso. Parlava solo a se stesso, mentre la politica avrebbe dovuto insegnargli la semplicità, e a comunicare con tutti. Ma il tempo lo aiuterà. Tra qualche giorno, il 4 dicembre, a Fortini sarà assegnato il premio Pozzale Luigi Russo per il suo ultimo libro, Composita solvantur. È un titolo che dice tutto, è quasi una preghiera. Il tempo, che tutto scioglie, sicuramente la esaudirà.


“la Repubblica”, 29 novembre 1994

Nessun commento:

statistiche