31.12.16

Que viva Mexico! l’epopea di un’avanguardia (Francesco Poli)

Murales, quadri, foto, documenti: al Grand Palais di Parigi fino al 23 gennaio i capolavori di un gruppo di artisti “rivoluzionari” che ha segnato il Novecento

Forse l’opera che sintetizza meglio tutti i principali ingredienti storici, ideologici, culturali, ed estetici di cui è impregnata questa grande rassegna sull’arte messicana della prima metà del XX secolo al Grand Palais di Parigi, è quella di un autore russo, e cioè il film incompiuto Que viva Mexico! di Sergei Eisenstein. Alla fine del 1930, dopo la rottura del contratto con la Paramount, il regista se ne va da Los Angeles e arriva in Messico. Qui nel 1931-32 lavora al progetto di un grandioso film-documentario sulla tragica ed esaltante epopea del popolo messicano, dove entrano in scena i miti delle civiltà native, le atrocità della colonizzazione spagnola, la nascita della nazione indipendente e infine il trionfo della rivoluzione zapatista, con spettacolari riprese di massa nell’ultima sezione. Anche se ci si deve accontentare di un collage postumo curato da uno dei suoi collaboratori, la forza scioccante ed evocativa del montaggio delle immagini da vita a straordinari frammenti di «murales in movimento» (per usare una definizione del regista stesso che era amico di Diego Rivera). E in effetti, dal punto di vista compositivo, si può ben dire che anche l’impianto iconico degli immensi affreschi in edifici pubblici realizzati a partire dagli Anni 20 dalla «trinità muralista» (Diego Rivera, José Clemente Orozco, David Alfaro Siqueiros), e da altri pittori, è basata su operazioni di montaggio. Un montaggio compositivo che si sviluppa attraverso la raffigurazione di personaggi e paesaggi, di scene di vita contadina, di enfatizzazioni allegoriche e immaginifiche, con accenti realistici, di epico populismo e retoricamente ideologiche. La fondamentale esperienza dell’arte pubblica monumentale muralista (che negli Anni 30 ha avuto un ruolo cruciale anche negli Usa) è naturalmente il tema su cui maggiormente si incentra l’esposizione. Gli artisti si sentono in prima linea nella costruzione della nuova identità culturale, e del nuovo immaginario collettivo che trae la sua linfa dalle radici mitiche per aprirsi a utopistici scenari sociali nella modernità. Grazie all’iniziativa del ministro Vasconcelos le pareti di palazzi istituzionali diventano il teatro di vaste narrazioni pittoriche.
In mostra ci sono vari esempi di bozzetti e quadri connessi con le grandi realizzazioni, ma viene documentata anche la specifica qualità della pittura dei vari protagonisti. Di grande rilievo è in particolare la ricerca di Rivera, a partire dalla sua notevole fase cubista, degli anni parigini. Interessante è anche, per esempio, la debordante energia espressiva e plastica delle figure di Siqueiros, tra cui spicca un mirabolante autoritratto in scorcio, con un enorme pugno che sembra uscire dal quadro e colpire lo spettatore.
Maria Izquierdo, Maternidad
Ma in mostra troviamo opere di molti altri artisti, circa sessanta in tutto, che documentano da un lato l’evoluzione in direzione moderna dei linguaggi con influenze cubiste, futuriste e astratte (tra cui vanno ricordati gli esponenti del movimento «stridentista», come Charlot, Alva de la Canal, Revueltas); e dall’altro lato, in particolare, quelle caratterizzate soprattutto delle forme più vitali e significative del tradizionale folklore autoctono. E sono proprio i lavori degli artisti che si ispirano all’iconografia popolare quelli più affascinanti e anche più sorprendenti. È il caso, per esempio, di Ramon Cano Manilla; di Antonio Ruiz «El Corcito» (bellissimo è la fantastica figura addormentata sono delle coperte che diventano un paesaggio fantastico); e una artista eccezionale come Maria Izquierdo, amica di Antonin Artaud che scrive cose di immaginifica intensità sulla sua creatività sorgiva e «primordiale». E c’è naturalmente anche la grande Frida Kahlo, legata visceralmente alle radici più profonde della «messicanità». Della Kahlo sono esposte solo due opere, tra cui una grande tela che è un enigmatico capolavoro. Si intitola Le due Frida (I939) e rappresenta l’artista sdoppiata in due figure sedute che appaiono come gemelle, e che indossano due eleganti abiti tradizionali. Anche se non è molto ampia, è altamente significativa la sezione dedicata alla fotografia, con immagini di Tina Modotti (e anche di Weston, del periodo del suo soggiorno messicano), di Rosa Rolanda, di Lola Àlvarez Bravo e del suo più famoso marito Manuel, che è uno dei grandi pionieri del realismo sociale impegnato, ma anche con valenze espressive cariche di tensione visionaria.


La Stampa 22.10.16

“Insegno Verdi per recuperarne l’essenza”. La «Traviata» secondo Riccardo Muti

La scrittura di Verdi è teatro, sempre: teatro scavato, ricercato, studiato alla perfezione. Tornito sui significati profondi della parola, sui silenzi. Fatto di grandi gesti melodici, ma anche di piccole dissonanze nascoste, rivelatrici. Di raffinati vapori sonori. Dove il dolore più estremo si esprime cantando pianissimo, come pochi interpreti si ricordano di restituire. E dove tutto è chiosato: in partiture fitte di indicazioni espressive, con parole, dinamiche e colori dettagliati con precisione meticolosa, come nelle Sinfonie di Mahler.
Peccato però che nella realtà pochi autori siano bistrattati al pari di lui: alle opere di Verdi si fanno tranquillamente tagli (come non si oserebbe mai con Beethoven o Schubert o Wagner) oppure aggiunte (e ci sono appassionati che attendono il cantante al varco solo per quelle note, nemmeno scritte dal compositore). Si storpiano le parole, gli accenti, le intenzioni: “amare” diventa “ammare”, che non c’entra con l’andare al mare. I pianissimi, chiesti con disperazione, con ben quattro “pppp” sotto la nota, vengono gridati. Il dramma diventa comico. Verdi non l’avrebbe tollerato. Il suo teatro è tagliato nel cristallo, come il teatro di Mozart. Basta volerlo e saperlo leggere.
Per questo ho deciso di insegnarlo ai giovani, nell’Accademia per l’opera italiana, fondata a Ravenna, e che ha già gettato ponti in Corea e in altre parti del mondo. Interamente sostenuta da privati, prevede due settimane di studio intensivo per quattro direttori, altrettanti maestri collaboratori e un gruppo di cantanti, selezionati su oltre quattrocento domande di ammissione pervenute da tutto il mondo. Gli allievi effettivi lavorano, sul palcoscenico del Teatro Alighieri, avendo a disposizione l’Orchestra Cherubini; gli uditori, più di un centinaio, seguono in sala.
L’opera di quest’anno è Traviata. La popolare Traviata, che però mancò dalla Scala per 26 anni (e l’ultimo a dirigerla fu Karajan, che dovette uscire dalla porta di via Verdi, per sfuggire a quanti lo aspettavano in via Filodrammatici, per ulteriormente contestarlo) infrangendo una doverosa continuità culturale. Vennero affissi cartelli listati a lutto, sui muri del teatro, quando osai riproporla, nel 1990: «per il funerale di Violetta». In tutto il primo atto non ci fu un applauso. Mi veniva voglia di girarmi e dire, come De Filippo: «Ma che, c’è freddezza?».
Un certo tipo di pubblico aspettava solo una nota. Una, l’unica non scritta da Verdi: il mi bemolle del soprano, alla fine di tutte le piroette ben più terribili della Cabaletta. Nel disco con Renata Scotto non l’avevamo eseguita. Ma con Tiziana Fabbricini avevamo concordato un cenno d’intesa, nel caso fosse stata necessaria per vincere la scommessa. Perché è più elegante, più filologica, più belcantistica la chiusura al centro. Ma in questo caso quell’acuto non è così un errore. Come invece il “do” del tenore, nel secondo atto (“Laveròòòò!”, tanto brutto anche sulla parola, e Verdi di drammaturgia si intendeva) oppure sempre l’altro “do”, nella Pira del Trovatore.
Come finì? Lei cantò il mi bemolle e venne giù il teatro. Ecco, io oggi mi batto per questo: perché Verdi non venga ascoltato per un acuto circense, bensì per il suo teatro. Che rispecchia noi italiani, nel senso più nobile e profondo. Costruito con una lente che scava in fondo all’animo umano. Musicalmente intrecciando il classicismo viennese di Haydn-Mozart-Beethoven con la grande scuola napoletana del suo maestro a Milano, Vincenzo Lavigna, compositore di Altamura.
Prendiamo ad esempio il terzo atto, dopo il Preludio, il più vero e toccante, genialmente collocato qui e non all’inizio dell’opera, col suo senso di morte e la sua tinta simile all’Ouverture del Lohengrin, andato in scena tre anni prima del 1853 di Traviata, ma che Verdi allora non poteva conoscere. Violetta sveglia Annina, la domestica, e il libretto prevede un dialogo senza orchestra, puro teatro di parola, che anticipa Otello. Sono poche battute, sospese tra pause piene di emozione, importantissime per definire il clima di morte che aleggia da subito. Difficili come tutti i Recitativi di Verdi, perché brevi. Da caratterizzare, perché spesso le due donne finiscono per cantare con la stessa espressione: ma Annina non è Violetta e il carattere del personaggio nella scrittura verdiana è consegnato più agli aggettivi che ai sostantivi: “il vero amico”, “per l’aride follie”, “bei sogni ridenti”, “l’anima stanca”.
Il testo svela raffinate qualità letterarie, quando le indicazioni ritmiche ed espressive vengano rispettate. E profondità di racconto, di significato, quando si eseguano le seconde strofe, nei Cantabili o nelle Cabalette: come nell’ “Addio del passato”, legato e dolce, con un’eco di cantilena da medio-oriente. Introdotto da un disegno, in orchestra, che riproduce quel cerchio chiuso, che compare sempre quando Verdi evoca il tema del destino, da cui non si può fuggire. Dove per l’unica volta usa la parola “traviata”. E Verdi lo fa dire proprio da Violetta. Spiegando furente nelle lettere, che «a Roma hanno fatto Traviata pura e innocente, ma una puttana deve essere sempre una puttana» in linguaggio schietto, contadino. Vero, senza maschere.
Perciò il Brindisi «Libiamo» del primo atto non va cantato con i personaggi sulla scena che dondolano felici e spensierati: perché dipinge un’atmosfera malata, di morte fisica e spirituale. E nel Finale del secondo atto non si deve allargare il tempo nelle tre grandi frasi di Violetta, che invoca pietà: perché sono indicate come un pensiero interno, mentre intorno si svolge il diabolico, frenetico gioco delle carte. E “col tempo”, le orrende due parole che papà Germont dice a Violetta, intimandole di lasciare il figlio Alfredo, andrebbe studiato per anni: come si studia in Shakespeare «to be or non to be».

(conversazione raccolta da Carla Moreni)

“Il Sole 24 Ore domenica”, 31 luglio 2016

29.12.16

Genitori ministri e figli: i Poletti, i Fornero e i luoghi in cui iniziare a fare pulizia (Loris Campetti)

Due Poletti
In fondo in fondo, il tanto bistrattato ministro del lavoro Giuliano Poletti un pregio ce l’ha: nei suoi profili e curricula non si è mai spacciato per laureato, limitandosi a presentarsi come un onesto diplomato agrotecnico, a differenza della sua collega Valeria Fedeli, plenipotenzaria di istruzione e università che non ha neanche un diploma di maturità, ma si faceva chiamare dottoressa.
Poletti è uomo tutto d’un pezzo, sempre fedele (non Fedeli) alla causa: consigliere e assessore Pci e Pds dalla Romagna a Bologna, prima presidente Legacoop a Imola, poi in Emilia Romagna, quindi vicepresidente nazionale e infine presidente nazionale dell’Alleanza cooperative italiane. E non basta, il suo fiore all’occhiello è la vicepresidenza della Federazione italiana di pallamano, la sua vera passione. È di origine proletaria, anzi contadina, preferisce darsi alla pallamano che all’ippica.
Anche il giovane Manuel ha seguito la carriera del padre nei meandri delle consociate postcomuniste: corrispondente dell’Unità prima di andare a dirigere la mitica testata Sette sere, settimanale ravennate della Cooperativa Media di Romagna accreditata di una tiratura di cinquemila copie, sostenuto grazie a un contributo di appena cinquecentomila euro di fondi pubblici. A Ravenna, mica a Berlino, o a Londra, o a Barcellona e questa è la prova provata che i cervelli italiani non fuggono come codardi ma stringono denti e combattono nella provincia italiana.
Per di più, Manuel Poletti, splendido quarantenne, non smette di studiare e annuncia di vedere la laurea in fondo al tunnel. Siccome non è ancora laureato non può neanche temere di far parte dei cervelli in fuga (per un po’ ci ha provato, ma smascherato è stato costretto a tornare in Romagna), a differenza di quelli fuggiaschi paraculi imboscati a Berlino, Londra, Barcellona che se volessero restare a casa non avrebbero che da ingegnarsi e magari andare a dirigere un quindicinale dell’Arcicaccia a Crotone o un trimestrale dell’Unipol a Carbonia, lo Stato italiano non farebbe certo mancare il suo aiutino con un assegno da mezzo milione.
È che non vogliono, perché, come diceva giustamente l’ex ministro Padoa Schioppa, sono solo dei bamboccioni, e per chi sa l’inglese come la mai abbastanza compianta ex ministra delle ex pensioni Elsa Fornero, dei choosy. A differenza di sua figlia che aveva due posti fissi e una certa familiarità con le fondazioni bancarie.
Da dove bisognerebbe cominciare a far pulizia? Da chi si finge laureata per poi aggiungere, buttata la maschera, che la laurea non serve a una minchia se si vuole fare il ministro – pardon, la ministra – della pubblica istruzione e dell’università? Oppure da chi chiede scusa ma non si dimette, per aver detto che i cervelli in fuga è meglio perderli che trovarli, dunque restino dove sono fuggiti perché tanto l’Italia democratica dei Renziloni non chiederà l’estradizione? O da chi dice – ma è sempre quello di prima – che bisogna andare subito alle elezioni per evitare una seconda travata ai referendum contro il jobs act della Cgil? O forse dovremmo cominciare dal nuovo ministro renziano indagato per spionaggio di governo?
Che siano ministri ed ex ministri giovani o – absit iniuria verbis – anziani, fatto sta che odiano i giovani non ministri e si incazzano se gli si rivoltano contro, al punto da scendere in campo per difendere la Costituzione. Tutti i succitati ministri ed ex sono orgogliosi dei loro figli, chi perché lavora, chi perché guadagna, chi perché fa la recita. Lotti è stato costretto ad accelerare la partecipazione alla recita del suo rampollo, ci fa sapere, per occuparsi delle sue vicende giudiziarie. Non c’è più morale. I loro sono gli unici giovani che conoscono, degli altri se ne fottono, o al massimo si chiedono increduli: “Perché ci odiano tanto?”
Bisognerà pur domandarsi come sia potuto succedere, in poco più di trent’anni, che quella che si chiamava sinistra sia passata dalla questione morale al centro della politica all’immoralità della politica. Con o senza cervello, verrebbe voglia di fuggire all’estero. E invece restiamo qui a rompere i cabasisi, e dovranno ancora sopportarci anche se faremo di tutto perché siano loro ad andarsene. Magari a giocare a pallamano.


Dal sito “il manifesto di Bologna”, 24 dicembre 2016

“Qualcosa di me stesso”. L’ultima lezione di Cesare Luporini (25 maggio 1979)

È questo il testo — recuperato da una registrazione fortunosa e pubblicato da “Il Ponte” nel 2009 — dell’ultima lezione, tenuta dall’autore, nella Facoltà di Lettere di Firenze, al momento dell’andata fuori ruolo. (S.L.L.)
Cesare Luporini a un Congresso del PCI
Vi ringrazio d’essere venuti.
Vorrei parlarvi di alcune cose un po’ remote che mi sono occorse, e anche, anzi soprattutto, di un tempo remoto: gli anni trenta. La mia generazione intellettuale ha testimoniato poco, tranne i politici. Forse proprio perché hanno testimoniato molto i politici, noi ne siamo rimasti un po’ intimiditi. Un amico mi diceva l’altro giorno che la generazione immediatamente successiva alla mia, invece, ha testimoniato anche troppo (non so se sia vero).
Comunque, io ho avuto allora, negli anni trenta, rapporto diretto, per me non irrilevante, con alcuni uomini non irrilevanti nel campo della filosofia. Faccio quattro nomi: Gentile, Croce, Heidegger, Nicolai Hartmann. Però ho la sensazione che falserei tutto, se mi limitassi al campo della filosofia.
Naturalmente, non ho intenzione d’intrattenervi sulla mia infanzia. Dirò solo che ho avuto un’educazione cattolica, anche se molto libera. Dalle mie famiglie confluivano tradizioni cattoliche, d’un certo tipo, un po’ ereticali, tradizioni laiche e tradizioni socialiste; quindi contraddittorie fra di loro, e allora molto contraddittorie. A tredici anni, quando facevo il Ginnasio, ero diventato materialista, in senso biologico. Dio era un’ipotesi senza senso. E allora trovai un poeta – Leopardi – che anche nel seguito è poi rimasto sempre il mio poeta. Ricordo che all’esame di quinta ginnasio (che era stato introdotto dalla Riforma Gentile) portai proprio Leopardi. Al Liceo, invece, divenni idealista, anche per effetto d’un grande insegnante, Giacomo Vertova, che poi lasciò presto l’insegnamento. Così, in qualche modo arrivai all’università un po’ preformato, o “pregiudicato”. All’università, ho studiato e mi sono laureato in questa Facoltà, che, molti anni dopo, m’ha fatto l’onore di chiamarmi, e così vi ho insegnato questi ultimi vent’anni. Mi sono laureato con Lamanna, col quale già al primo anno, mi ricordo, avevo fatto un’esercitazione, per me non poco impegnativa, su Platone (ma ero già in rapporto con Giorgio Pasquali). E a Lamanna sono grato soprattutto della completa libertà che mi lasciò nel mio lavoro per la tesi di laurea.
Questa fu su Kant; ma mi laureai in Lettere, non in Filosofia, perché, venendo qui studente, nel 1927, m’ero diretto su altri studi che non quelli filosofici: piuttosto su studi storici e filologici; anche se pur per ragioni filosofiche, e cioè per l’idea crociana che facesse bene, prima di fare il filosofo, d’occuparsi di altre cose; ma anche – devo dirlo apertamente – per una certa non fiducia, propriamente, nella “Filosofia” di questa Facoltà. A differenza di Garin, mio coetaneo, ma che era un anno avanti – e che già allora consideravamo di gran lunga il più maturo di noi – io non avevo capito quanto si potesse imparare da Limentani. Lo capii solo il giorno della discussione della mia tesi di laurea. Mi pentii di non averlo frequentato, prima, se non molto poco; e da allora in poi presi ad andare a casa sua, mi ricordo, molto di frequente. Poi, avrei occupato quella che era stata la sua cattedra – «Filosofia morale» – allorché la Facoltà volle ricostituirla per me.
Durante gli anni universitari, dunque, i miei maestri furono altri. Soprattutto Pasquali, che per me non fu soltanto maestro di storia. A lui debbo molto. Se ho imparato, per esempio, a fare il “seminario”, lo devo prima di tutto a lui (e poi, devo aggiungere subito, a Heidegger). Professori non si nasce; almeno, non so se ci sia qualcuno che sia nato professore (può anche darsi; ma in generale credo di no). Io avrei potuto avere una vita diversa; mentre non riesco a immaginarla senza due cose: senza la filosofia e senza la politica; e non dico d’essere riuscito a mandarle insieme sempre bene, ma sono sue lati essenziali, determinanti, per me, e fortemente intrecciati.
D’essere diventato professore, in certo modo non ho finito di stupirmi, stupirmi d’essere da quest’altra parte della cattedra. E fare il professore è stata per me un’opzione forte, e non fatta una volta sola, perché ho avuto altre alternative. Anche in momenti un po’ difficili, per me, della cosiddetta carriera accademica, mi sono ostinato in questa scelta. Quanto al fascismo (nel 1922 – marcia su Roma – avevo tredici anni), se devo dire di un’impressione d’allora, soggettiva, parlerei d’una mutilazione della politica, dell’impossibilità cioè di parteciparvi decentemente, con tutte le conseguenze: separazione dal popolo, ecc.; e per questo, già allora, subito, accumulai un rancore, verso il fascismo. È questa impressione d’insieme che ancora serbo degli anni venti, più che non di un’oppressione intellettuale e culturale. C’era, cioè, la possibilità di svolgersi, di formarsi, ma su un lato solo.
Credo anche che a questa impressione corrispondano dei dati oggettivi. Sanno tutti che il fascismo, come regime, ha avuto fasi diverse, anche con un prevalere di personale diverso ai posti di comando; e a questo corrispondevano climi morali diversi. Ci fu chi – della generazione precedente alla mia, ma anche della mia – fu capace di reagire molto presto politicamente. Invece, il mio cammino fu più lento, allora. Vorrei evocare un attimo cos’era Firenze tra gli anni venti e trenta: una specie di salotto, pochissime automobili, molte biciclette, molto spazio per passeggiare, molti stranieri, intendo stranieri residenti qui, con i quali avveniva d’avere un rapporto. E anche ciò facilitava un atteggiamento, di distacco dal regime, un po’ snobistico, dopo le prime delusioni che poteva averne avuto uno della mia generazione. Io partecipai allora d’un tale atteggiamento.
Il cambiamento avvenne, per me, un giorno del maggio del 1930 – una giornata stupenda, trasparente, come quelle che abbiamo avuto anche in questa settimana – allorché ascoltai un discorso di Benito Mussolini. Aveva fatto un discorso (come venivano chiamati allora i comizi) a Livorno, un altro a Lucca, e poi venne a Firenze. E io andai a sentirlo (come privato cittadino, devo dire, e non in qualche organizzazione). Ero, in Piazza Signoria, in quell’angolo un cui c’è il caffè Rivoire, dove la folla era un po’ più rada; e mi ricordo benissimo la scena: dietro di me, un frataccio entusiasta, e poi una signora, che s’era sentita male, fu portata lì perché respirasse… Il discorso di Mussolini aveva un tono molto acceso, infiammato: parlava dell’avanzare dell’Italia come un siluro, un bolide, e così via, con tutto il resto immaginabile (ma, qui a Firenze, parlò anche, mi ricordo, del «profeta disarmato»). Ebbene, fu allora che io capii che bisognava uscire da quell’atteggiamento che ho detto snobistico. Di lì inizia il mio lungo – lungo – viaggio nell’antifascismo (il povero Zangrandi ha scritto Il lungo viaggio attraverso il fascismo; per me, parlerei appunto d’un lungo viaggio nell’antifascismo).
A metà degli anni trenta, ero già in una rete, non propriamente, ancora, cospirativa, ma che lo sarebbe diventata. Era il momento della guerra d’Etiopia; e mi ricordo, fra tutto il resto, della nostra preoccupazione che Benedetto Croce aderisse a essa (non al fascismo, ma alla guerra in corso). Si diceva che andava al porto di Napoli a vedere le truppe che partivano; e comunque un appoggio a quella guerra sarebbe rientrato abbastanza coerentemente in tutto il suo modo di vedere la storia d’Italia. Mi ricordo che si diceva: chi può, vada a Napoli a trattenerlo per la giacca. Un po’ dopo, questi gruppi, in cui ero già entrato, diventarono “liberalsocialisti”: Capitini, Calogero; a Firenze, Enzo Enriques, Tristano Codignola, Ramat; Bobbio, che allora era incaricato a Siena; e tanti altri. Nel 1942, confluiranno nel Partito d’Azione; ma Bianchi Bandinelli e io non vi entrammo: non eravamo d’accordo che quel movimento si trasformasse in Partito. Poi, nell’agosto del 1943 – quando ormai tutto precipitava – aderii al Partito comunista, con il quale ero entrato in rapporto da alcuni mesi. Ricordo che, come usava allora, per l’ammissione subii un esame, in una vecchia casa popolare di Pisa; ed ero molto emozionato.
Dopo quel giorno del maggio 1930 di cui ho parlato, il primo problema che mi si presentò fu come orientare il mio studio, in vista della tesi di laurea. Ma anche qui devo accennare al quadro complessivo. In Italia, non c’era solo la dittatura fascista. C’era anche il predominio dell’idealismo, che si distingueva nei due grandi nomi: Croce e Gentile; ed era estremamente avviluppante, intricante. “Croce e Gentile”, “Croce o Gentile”: questi erano i termini in cui si dibatteva. Il dissenso politico fra loro dopo il 1925 (il fascismo l’avevano appoggiato entrambi, ma poi Croce se n’era distaccato) era solo un lato della questione, non la ricopriva tutta. Per dire sinteticamente come sentivamo allora: dall’“atto puro” o dall’identità di teoria e prassi, sostenuti da Gentile, non si passava necessariamente allo “Stato etico”; sembrava che ci potessero essere altre scelte, e anche in senso rivoluzionario (questo, non soltanto per noi; era stato così, per esempio, per il Togliatti giovane, e lo sarebbe stato, poi, ancora per Lelio Basso, ai tempi di «Quarto Stato»). Dall’altra parte, dai “distinti” crociani non si passava necessariamente a un liberalismo antifascista. A molti sembrava poi che filosoficamente le due posizioni, di Gentile e di Croce, fossero da conciliare, così anche sorpassandole. Intanto, però, era Croce a dominare la cultura – soprattutto quella non strettamente filosofica, ma storica ed estetica – e, rispetto al fascismo, questo era un bel paradosso. In certi ambienti culturali c’era anche la convinzione che l’idealismo italiano, nel suo insieme, fosse comunque in grado di mettere in scacco qualunque altra posizione filosofica, passata, presente e futura; cioè la convinzione che eravamo alla testa del movimento mondiale – e, guardate, sarebbe venuto poi alla luce che anche Gramsci in fondo partecipava di quest’idea.
Mi ricordo d’averne discusso, più tardi, rispettosamente, ma vivacemente, con Luigi Russo. Gli dicevo che “essere in testa” significa avere qualcuno dietro; mentre invece il movimento mondiale era andato per altre strade. D’altro canto, sapevamo bene che in Italia l’idealismo s’era costituito, al principio del secolo, come superamento non solo del positivismo, ma anche del marxismo; in due versioni diverse, ma che i lori due autori, appunto Croce e Gentile, avevano considerato complementari.
Mi è stato chiesto, per esempio da La Penna, come io sarei passato – molto dopo, fra guerra e dopoguerra – dall’esistenzialismo al marxismo. Ma credo che a questa domanda non sia difficile rispondere. Qui vorrei dire piuttosto come ero passato, prima, all’esistenzialismo. Ebbene vi passai per effetto di un’esperienza, fallimentare, ma che in qualche modo può avere un certo significato per ricostruire quel periodo. Ritorno così ai miei anni universitari, nella prospettiva della tesi di laurea. Ne tentai infatti una in storia medievale, con Nicola Ottokar, che era un incaricato, ma di grande fascino come insegnante, con angolature diverse dalle nostre, italiane, tradizionali. Una tesi di laurea sopra le societates populi all’inizio del Trecento a Firenze, che avrebbe dovuto essere lo sviluppo di un’esercitazione a cui avevo dedicato molto impegno (m’ero anche messo a frugare negli archivi, dopo aver studiato le tecniche necessarie a leggere dei documenti medievali). Avevo un assunto incredibilmente ambizioso: di ritrovare in quell’ambito la lotta di classe, che il libro di Ottokar uscito nel 1926, Il Comune di Firenze, in qualche modo sembrava cancellare; cioè di ritrovare le tesi del Salvemini giovane nel suo Magnati e popolani (quando ero arrivato all’università, Salvemini non c’era più, ma c’era ancora una traccia di lui in studenti più anziani; ricordo, per esempio, le sorelle Nordio, una delle quali avrebbe poi sposato un illustre slavista).
Devo dire che quella mia ambizione non era determinata tanto dal libro di Ottokar, quanto dalla recensione che gli aveva fatto Croce, nella «Critica». Una recensione di grande esaltazione, ma dove si vedeva che a Croce poco importava la storia medievale, gli importava invece di mettere da parte la lotta di classe; e difatti tutta la sua polemica era verso la scuola economico-giuridica e verso il materialismo storico. A rileggerla oggi (l’ho riletta proprio in vista di questa lezione), dopo cinquant’anni, è veramente impressionante. La strada che allora avevo intrapreso non era dunque quella d’un qualche crocianesimo, magari pure “di sinistra”, come fu invece per tanti altri. Ma in quel mio proposito fallii completamente.
Non so dire oggi la debolezza di quello che poteva essere il mio marxismo d’allora (avevo sui vent’anni). Non avevo capito quasi nulla, devo riconoscere, di Antonio Labriola, che mi era rimasto sigillato. Fallii completamente, dunque; e abbandonai il campo. Però ne ebbi un trauma molto forte. La conclusione era che il marxismo era bello, ma non vero. L’altra conclusione, che il lavoro dello storico era inutile: si vanno a vedere i documenti, ma poi le cose non tornano. E così passai alla filosofia, non potevo più evitarla; ma sotto una sollecitazione per la quale il quadro dell’idealismo non bastava: se il marxismo non era vero, questo significava che, anche per capire la società, bisognava riconfermare l’individuo come centro d’iniziativa irriducibile; mentre proprio questa questione, dell’individuo, ci appariva il punto debole dell’idealismo. In questo, l’individuo scompariva: nello Stato etico di Gentile oppure nella “morale dell’opera” del Croce; ma comunque scompariva.
Quella mia d’allora era una spinta (che oggi potremmo anche dire libertaria) legata all’idea della finitezza umana, nella sua irriducibilità. Per questa esigenza – della finitezza umana, dell’iniziativa individuale, della libertà, e d’una ricostruzione su una tale base anche del rapporto sociale – mi rivolsi verso Heidegger. Nel ’30 andai in Germania, a Friburgo, dove insegnava; ma non riuscii a incontrarlo, avevo sbagliato i tempi. Invece, l’anno dopo (ma ero ancora studente) entrai nel suo seminario del semestre estivo. L’uomo era di grande fascino, un fascino, direi, enigmatico; ma anche di un’enigmatica affabilità – qualcuno diceva che affabile lo era soprattutto con gli studenti stranieri – e io riuscii a entrare in rapporto con lui molto rapidamente (venendo da Firenze, era più facile; perché anche a Firenze s’entrava in rapporto con i professori – con alcuni professori, ancora una volta, innanzitutto con Pasquali – senza sfacciataggine ma nemmeno timidezza). Se dovessi dire che cosa ho preso da Heidegger, direi, in sostanza, quello che invece lui avrebbe poi respinto, e cioè, precisamente, l’esistenzialismo; mentre mi sembra d’aver preso pochissimo del suo ontologismo, che già c’era nel suo libro Sein und Zeit. E devo dire che la ripugnanza verso l’ontologismo m’è ritornata proprio adesso, e non solo verso quello di Heidegger, ma in generale, verso tutto quell’ontologismo che oggi è in circolazione, mi pare, magari anche sotto vesti politiche (le tante parole con la maiuscola, come “il Sociale”, “il Politico”, ecc.). Mi ricordo che una volta dissi, a Heidegger: «Ma in alcune lingue il verbo essere non c’è. E perché allora costruire tutto intorno a esso?» – e lui si stupì di quest’osservazione.
Forte fu il trauma per l’adesione di Heidegger al nazismo. Nel semestre estivo del 1933 ero tornato a Friburgo, con una specie di borsa di studio – nel frattempo, m’ero laureato, e nella tesi, su Kant, avevo tenuto conto anche di Heidegger. E così sono fra i pochi stranieri ancora vivi (credo che ce ne sia un altro in Francia) presenti allora alla famosa prolusione Die Selstbehauptung der deutschen Universität. Fu un grosso colpo, per parecchi, particolarmente per gli stranieri, che erano poi soprattutto dell’Europa centrale. Quanto a me, dopo una settimana andai da Heidegger, a prendere congedo (il pretesto era facile, perché, con le sue mansioni di rettore, aveva sospeso il seminario).
Allora, mi spostai a Berlino. S’era nell’anno della presa del potere da parte dei nazisti; e la grande cultura di Weimar non era ancora del tutto spenta, ma era in agonia. Era, direi, il “crepuscolo degli dèi”. Molti professori erano già con la valigia pronta; molti che poi furono effettivamente costretti ad andare all’estero. Per esempio, Werner Jaeger, la cui casa allora frequentai. Poi, ricordo, per esempio, Romano Guardini, o Spranger. Ma il mio rapporto, a Berlino, fu soprattutto con Nicolai Hartmann, di cui presi a frequentare il seminario (non fu sempre un rapporto facile; ma su questo ora sorvolo). E attraverso Hartmann scoprii Scheler (cosa che naturalmente non entusiasmò Hartmann), che su di me ebbe molta influenza.
In quella specie di collegio in cui risiedevo a Berlino – si chiamava Hegel Haus, ed è poi andato distrutto con la guerra – c’era già Claudio Varese, qui presente oggi; e da lì iniziò la nostra amicizia. A un certo punto arrivò Cantimori, anche lui con la valigia, ma, lui, perché attraversava l’Europa in cerca di biblioteche. Anche con lui il primo approccio non fu tanto semplice; però poi (doveva rimanere solo pochi giorni, e invece rimase, mi pare, un mese) si strinse allora un legame profondo fra di noi. In seguito, Cantimori l’avrei ritrovato a Pisa, alla Scuola Normale, allorché nel 1939 vi fui chiamato da Giovanni Gentile. Con Gentile ero entrato in rapporto perché aveva letto la mia tesi di laurea, in occasione d’un concorso a cui l’avevo presentata. Poi – dopo che ero entrato nell’insegnamento – nel 1937 aveva appoggiato la mia richiesta di trasferimento dal Liceo Scientifico di Livorno a Firenze.
Sennonché questo trasferimento fu bloccato, all’ultimo momento, dal ministro, Bottai, in seguito a un ricorso, ma in realtà, come venni a sapere, per le cattive informazioni politiche su di me. Bottai rinfacciò a Gentile d’andare a raccomandare gente sospetta; e proprio così cominciò per me un rapporto, con Gentile, di grande franchezza politica. Non direi che fosse un uomo complicato. Era un uomo di potere, non c’è dubbio. Ma aveva anche una sua concezione – diciamo “dialettica” fra virgolette – per cui era bene che i giovani fossero ribelli, perché poi, dopo, sarebbero diventati uomini d’ordine più saldamente. E fu sulla base di questa concezione che diresse anche la Scuola Normale. Il trasferimento a Firenze, l’ebbi l’anno dopo. Ma qui, nella nuova scuola, trovai un’atmosfera, un clima, molto diversi, rispetto a Livorno. Qui, c’erano i microfoni, in classe, e gli scolari, ogni tanto, me li indicavano, perché, mentre parlavo, me ne dimenticavo. Sentivo come un cerchio che si stringeva; cercai allora il modo d’andare fuori d’Italia, e pensai d’andare a fare il lettore d’italiano a Friburgo. Gentile lo venne a sapere, e mi chiamò a un redde rationem. Io gli dissi – ormai, a quattr’occhi gli parlavo molto francamente – che le cose precipitavano (si era nella prima parte del 1939), e che in fondo Friburgo era solo a sessanta chilometri dalla Francia (non so se era esatto, credo anzi che geograficamente non lo fosse), e cioè che di lì sarebbe stato più facile passare dall’altra parte. Allora, Gentile mi diede del pazzo, accomunandomi ad altri che, egli sapeva, avevano avuto lo stesso pensiero. Poi, però, venne la guerra, e io mi ritrovai con l’impegno preso con il ministero degli Esteri, che ora insisteva perché andassi a Friburgo, mentre naturalmente non ne avevo più alcuna intenzione, proprio perché non sarebbe più stato possibile un passaggio, di lì, dall’altra parte. Sennonché, una notte, verso le due del mattino, ricevetti una telefonata, da Gentile, che mi disse che era disponibile un posto di lettore di tedesco alla Scuola Normale – evidentemente, non ci voleva mettere un nazista – ma che non c’era tempo per decidere: dovevo farlo entro poche ore. Io aspettai un momento, e poi gli risposi che accettavo. Dopo un silenzio, lui commentò: «Così si decide la vita d’un uomo!». E aveva ragione.
Non mi soffermerò sull’ultima fase di Gentile, tragica. Ricordo solo che, certo illusoriamente, cercai di persuaderlo a che si tirasse fuori dal fascismo, nel frattempo divenuto la Repubblica di Salò. Nel novembre del ’43, al Salviatino, dove abitava, ebbi con lui un incontro che non finiva mai, perché non riuscivo a rimanere solo con lui. Quando ce la feci, lo misi al corrente di quello che stava succedendo, dandogli delle notizie che evidentemente non gli davano le autorità fasciste – era stato anche ucciso uno del suo entourage – mentre io le avevo dalla rete clandestina in cui mi trovavo. Me ne uscii con la sensazione che forse qualcosa avevo ottenuto. Invece, non era così: due giorni dopo, venne fuori che il ministro Biggini s’era recato lì, al Salviatino, per offrirgli la presidenza dell’Accademia d’Italia, e che Gentile aveva accettato (ma, quand’ero stato da lui, non me l’aveva detto). E così s’avviò verso un destino di cui in qualche modo aveva consapevolezza.
Potrei dire qualcosa anche della cerchia di Benedetto Croce. Egli veniva ogni tanto a Firenze, nei suoi viaggi. Io ero fra quelli che si raccoglievano attorno a lui in casa di Luigi Russo; e si parlava delle cose più varie (avrei da raccontare alcuni aneddoti). Poi, la sera, almeno una parte di noi lo accompagnava, in corteo, all’Albergo Porta Rossa, dove alloggiava. Ricordo che una volta, tornando indietro – eravamo in via Tornabuoni – Raffaello Ramat, preso dall’entusiasmo, disse: «è il nostro Socrate»; e io mi ribellai vivacemente. Era un uomo di grande fascino culturale, Croce; ma no, io non l’ho mai sentito come il mio Socrate.
Ora vorrei passare a una questione più generale: che cultura avevamo, in Italia, negli anni trenta. Beninteso, parlo qui dell’élite a cui appartenevo, allevata per essere tale, secondo la tradizione della scuola italiana, come scuola di classe, caratteristica che era stata addirittura rafforzata dalla Riforma Gentile (chiamata, allora, la Riforma Croce-Gentile); e quindi persone destinate alle professioni liberali e all’insegnamento, tanto più allora che, per chi era antifascista, non era praticabile la politica istituzionale. Ora, la cultura fascista era, largamente, una fictio, se non per la parte politica, per la teoria dello Stato (dallo Stato “etico” s’era passati allo Stato “corporativo”, e alle diverse interpretazioni di quest’ultimo: di sinistra, come nel caso di Ugo Spirito, o non di sinistra). Ma per il resto la cosiddetta cultura fascista non era che un’etichetta. Ricordo d’essere stato solo due volte all’«Istituto di cultura fascista»: una volta, per sentire Ungaretti che parlava su Leopardi, e un’altra per sentire Corrado Pavolini (il fratello del famigerato Alessandro) che, non privo d’una qualche finezza, parlava di cultura tedesca. Un’etichetta, la pretesa cultura fascista; o una velleità di certi letterati, come Papini, o Soffici, che noi disprezzavamo. La cultura – pensavamo – era altrove; era nella «Critica» di Croce, oppure nella «Civiltà moderna» di Codignola, che cominciò proprio nei primi anni trenta, oppure nella «Cultura» di De Lollis, e così via (naturalmente, rispetto al fascismo, c’era una doppiezza, in questo sistema; il che a noi giovani cominciava a ripugnare).
Da un certo punto di vista, la vera dittatura era proprio quella idealistica, nei suoi due rami, crociano e gentiliano. Devo dire però che non mancava affatto la possibilità di informarsi più largamente. Devo dire anche che, in tutti gli anni trenta – e nei primi quaranta – fu molto importante la letteratura, sia quella italiana sia quella non italiana. Faccio solo dei nomi, di chi via via venivamo scoprendo: Svevo; e poi Vittorini, che su «Letteratura» pubblicò Conversazione in Sicilia; Gadda; poi (ma più tardi), Pavese; ecc. E i poeti. Nella nostra gioventù, c’era una triade: Ungaretti, Montale, Saba. Di quello che veniva da fuori, mi ricordo che cosa voleva dire, ogni mese, l’arrivo della «Nouvelle Revue Française». E Gide; Valéry; Proust. Non altrettanto potrei dire della filosofia, per quel che ci veniva dalla Francia (Les deux sources di Bergson non fece una grande impressione, almeno a quelli come me), prima di – molto più tardi – Kojève, e cioè della riscoperta, sotto nuova angolatura, di Hegel. Ancora, i bagliori, i grandi bagliori, provenienti dalla cultura di Weimar; Thomas Mann; poi, Kafka; poi, Rilke (ricordo le traduzioni da Rilke di Giaime Pintor per la Einaudi). E non solo la letteratura, ma anche il pensiero. Per esempio, si parlava di Freud, allora (qui, a Firenze, da parte di Enzo Bonaventura). O di Max Weber (il libro di Mario Manlio Rossi L’ascesi capitalistica di Max Weber risale al 1928). Da Milano ci arrivava in qualche modo una parte di Husserl. Dall’Inghilterra, la cultura del dopo-crisi. E sapete tutti quanto operò, poi, il romanzo americano, per iniziativa di Vittorini. Certo, molte di queste cose Croce le giudicava negativamente, quando ne parlava nella «Critica»; e io ero tra quelli che non l’accettavano. Comunque, tutto ciò tendeva a rompere quello che altrimenti sarebbe stato un isolamento.
E quando, alcuni anni fa, Arbasino s’è chiesto, degli intellettuali italiani di quegli anni: «Perché non attraversavano il ponte di Chiasso?», ha dato un quadro assolutamente falso, della cultura che vivevamo allora. Come si sarebbero mai formati degli Chabod, o dei Cantimori, per limitarsi agli studi storici, se il ponte di Chiasso non l’avessero traversato? Poi, ancora, ci fu la scoperta, o la riscoperta, della Russia; che, credo, fu molto condizionata, per opposizione, dall’avvento del regime nazista in Germania. Mi ricordo quello che fu il successo di Solochov, con Il placido Don, quando ne fu tradotto il primo volume (gli altri, successivamente). Era una società corale che in questo grande romanzo veniva come a rispecchiarsi; questa era l’immagine che veniva fuori. Mi ricordo anche che, alla fine del secondo anno che ero professore a Livorno, nel ’37, venne una delegazione di studenti a chiedermi delle lezioni supplementari. Credevo che volessero un aiuto per l’esame di Stato; e invece volevano delle lezioni sulla Russia. Per un attimo, pensai che fosse una provocazione; e invece non era così: era un effetto, in qualche modo, anche delle mie lezioni (pur non essendo io, allora, per niente comunista). A quegli studenti, dissi che non sapevo molto più di quello che già gliene avevo detto; ma ci mettemmo a far qualcosa, cominciando con lo studiare la Costituzione sovietica del 1936, che nel frattempo era stata pubblicata, in italiano, da un editore che si chiamava Grimaldi.
Mentre cresceva sempre più l’inquietudine, lentamente in noi si produceva un rivoluzionamento culturale – “molecolare”, avrebbe detto Gramsci. Gli elementi di rottura, erano molto precisi. Per esempio, col dannunzianesimo: forse nessuno è stato odiato più di Gabriele D’Annunzio, dalla mia generazione. Un rivoluzionamento, dunque; che tendeva anche a politicizzarsi, in modo del tutto indipendente dai partiti politici che erano nell’emigrazione. E nascevano anche nuove case editrici: basta vedere quello che fu il catalogo della casa Einaudi, per vedere quale immissione di fatti e di problemi nuovi – si andava da Trotzkij ai più recenti economisti inglesi, come Keynes. Noi, eravamo uno strato sottile, modesto, di studenti, giovani professori di liceo; e più o meno – parlo dell’Italia – ci si conosceva tutti. Si veniva costituendo, direi, un nuovo antifascismo, o almeno una nuova potenzialità di antifascismo, indipendente, ripeto, dai partiti antifascisti dell’emigrazione. E credo che questo sia molto importante, perché credo che senza questo passaggio non si spiegano tante cose, a cominciare dai quadri intellettuali della Resistenza, che i partiti organizzati non ebbero nemmeno il tempo di formare; col che si avrà poi anche il ricongiungersi con un movimento popolare. E neppure si spiega, direi, quell’esplosione di idee che ci sarà dopo la Liberazione, quella che Cesare Pavese, nel suo diario, uscito postumo, Il mestiere di vivere, ha chiamato la «pienezza» degli anni ’45 e ’46.
Un momento di svolta era stato la guerra di Spagna, con la scossa che produsse. Ricordo che allora circolò clandestinamente, perché naturalmente in Italia era proibito, il romanzo Les grands cimetières sous la lune d’un cattolico francese, Bernanos, che in Spagna c’era andato dalla parte di Franco, ma era passato in quella opposta. E, poi, il 1938; l’anno delle leggi razziali, in Italia. Un anno decisivo. Fra l’altro, anche quello in cui Croce ripubblicò Labriola, accompagnandolo col suo famoso saggio Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia. In un mio scritto, ho detto che, da parte di Croce, questo era un «rischio calcolato», perché sentiva che il marxismo tornava. Per noi, furono molti importanti allora, per esempio, i Morceaux choisis di Marx, curati da Guterman e Lefebvre; ma cominciavano a entrare anche altre opere, oltre che di Marx (queste, in fondo, era più facile trovarle), per esempio di Lenin. Proprio nel 1938 cominciò la crisi profonda del fascismo – una crisi morale – in un processo di decomposizione all’interno del Partito fascista stesso. Il clima cambiava. Si annunciava, in qualche modo, anche la tempesta alla quale si sarebbe andati incontro. Molti passarono allora dal fascismo all’antifascismo; e alcuni di loro sarebbero poi caduti eroicamente nella Resistenza: delle persone, quindi, con le quali era magari accaduto di discutere, anni prima, sul loro fascismo.
Poi, la guerra. Rispetto alla guerra, l’atteggiamento degli intellettuali antifascisti fu vario; ché taluni ritenevano che comunque dovessimo entrarci. In questa situazione, e nonostante tutto quello che si annunciava, noi giovani antifascisti, però, sentivamo d’avere una qualche forza. È il momento di certe riviste. Ricordo, per esempio, una rivistina, «Argomenti» (dalla quale sarebbero derivati, nel dopoguerra, i «Nuovi argomenti»), su cui pubblicai uno scritto in tre puntate. Poi, naturalmente, fu proibita, per il tono antifascista che vi circolava; ma intanto ne era uscito un certo numero di fascicoli. Oppure, il gioco che veniva facendo Bottai su «Primato»; ma su questo non mi soffermo, perché oggi se n’è scritto molto. Comparve allora, in una collezione diretta da Gentile, anche il mio libro Situazione e libertà nell’esistenza umana. Porta la data del 1942; ma era uscito alla fine del ’41, perché mi ricordo che per Natale l’avevo portato in omaggio a una ragazza che amavo, e che oggi è qui presente (ma, devo dire, lei non si fece né in qua né in là, perché era abituata a vivere tra gente che pubblicava dei libri). Non era scritto per ragioni accademiche; ed ebbe una certa risonanza anche fuori dalla cerchia dei filosofi, nonostante che fosse d’un giovane sconosciuto. Ricordo come ne parla Pavese in un capitolo del diario che già ho menzionato, Il mestiere di vivere (Pavese non me ne aveva mai detto niente, e io fui colpito, quando lo lessi, dopo la sua morte). Oppure, tempo fa, Claudio Varese m’ha passato una bellissima lettera di Dessì, sempre a proposito di quel libro. Lo lesse anche Mario Manlio Rossi, allora professore a Edinburgo. Lo incontrai qui, alla Sansoni, e mi disse: «Di qui, si va dritti al marxismo»; e io gli risposi: «No, assolutamente no; anzi, è vero il contrario: è proprio dal marxismo che io provengo» (un’incredibile, ancora, ingenuità, dire che provenivo dal marxismo).
Ricordo anche che, nelle nostre discussioni, i compagni liberalsocialisti mi dicevano sempre: «Ma, allora, tu sei comunista»; e io mi difendevo da questa taccia (era una taccia). Ma, in fondo, su di me, allora, avevano ragione loro. Così, quando, oggi, ho una discussione con Bobbio, ho l’impressione di continuare ancora, in condizioni mutate, quelle di allora. Per diventare, poi, comunista, decisiva fu per me la lettura di Stato e rivoluzione di Lenin, che mi passò Cantimori; ma su questo non voglio ora inoltrarmi. Vorrei dire solo che tutto quello che ho evocato finora ha un rapporto stretto con un’impresa alla quale partecipai, subito dopo la Liberazione: una rivista, che si chiamava «Società»; perché, almeno per la parte che mi riguardava, che era poi quella programmatica, l’idea era d’una saldatura fra quella cultura degli anni trenta di cui ho parlato – quella rottura con il passato che eravamo venuti preparando lentamente, modestamente, molecolarmente – e la cultura di quelli che venivano da fuori, soprattutto i dirigenti comunisti, e segnatamente Togliatti. Perciò, non ero d’accordo con Vittorini, con la sua idea, nel «Politecnico», d’una “nuova cultura”. I contenuti li avevamo in comune, più o meno; però io ero per un continuismo, non assoluto, naturalmente, ma rispetto a quel che ho detto; e scrissi anche un articolo, intitolato Rigore della cultura, che aveva una parte di polemica con Vittorini, e che ora ripubblico in un volume in cui, iniziando proprio con questo intervento, raccolgo trent’anni di Polemiche marxiste. Dopo i primi due anni, però, l’impresa di «Società» fallì; certo, per debolezze nostre, culturali e politiche, ma anche non solo per questo.
E qui mi fermo: non parlo di questi ultimi trent’anni. Non parlo, per esempio, di quello che è stata per me l’importanza, grande, della militanza in un partito operaio, come quello a cui appartengo, e di ciò che ciò ha significato anche per la ricerca e l’insegnamento: molto, anche se non vorrei indulgere a troppo facili armonizzazioni a posteriori. Per l’intellettuale – intendo per chi in qualche misura è un produttore di conoscenza – è sempre tutto abbastanza difficile, quando si sia anche impegnati direttamente nella vita politica. Semmai, mi consentirei di dare una specie di indicazione per chi s’incamminasse appunto per questa strada, peraltro affascinante, e che io ho sentito comunque come doverosa. Anzi, due indicazioni. La prima, di non diventare mai cortigiano, rispetto a chi ha il potere, nelle organizzazioni di cui si faccia parte. La seconda, ancora più importante, di non tenere troppo al proprio nome, quanto alle idee politiche che uno riesca, o creda di riuscire, a elaborare. Quel che importa è la loro socializzazione: che entrino, per esempio, nella testa dei dirigenti. Ma, perché possano socializzarsi, queste idee devono partire da esperienze reali, e in qualche modo avere un rapporto con le masse.
Ciò non significa sparire nell’anonimato, ma distinguere piani diversi: altra cosa è il piacere, credo legittimo, anche sacrosanto, di vedere il proprio nome sopra un libro o in fondo a un saggio critico, e altra è appunto quel tipo d’elaborazione a cui mi riferivo. Per finire, o quasi, prendo ancora qualche minuto, per esprimere la mia gratitudine verso chi mi ha aiutato nella cosiddetta carriera accademica: anche altri, ma, prima di tutto, Garin e Calogero. E per la Facoltà di Lettere di Pisa, che mi tenne per quindici anni, non facili. Erano i tempi della guerra fredda (e d’altronde allora non era tanto facile neppure essere comunisti). Ho avuto la fortuna d’avere degli scolari di grande valore e di averli in qualche modo aiutati a crescere. Alcuni sono presenti. Nomino solo il più antico, Nicola Badaloni, al quale sono molto grato che sia qui oggi. Poi, ci sono quelli che hanno preso altre strade che non quelle dello studio. E poi quelli scomparsi, che non posso non rammentare: Nicola Vaccaro, che tanto avrebbe lavorato per le Lezioni d’estetica di Hegel; e Carlo Ascheri, che ha lasciato una traccia indelebile negli studi feuerbachiani, cominciando da un’esercitazione di Filosofia morale, quand’era studente del secondo anno, a Pisa (ho ancora il volume su cui avevo appuntato il suo nome, per quell’esercitazione), e in seguito avrebbe avuto molto aiuto, in Germania, da Löwith.
Ho avuto la fortuna – ma credo anche qualche merito – d’avere questi scolari. Invece, non credo d’avere fatto una scuola. Io non l’ho cercata. Qualcuno me l’ha rimproverato, per esempio, una volta, ricordo, l’amico Vacatello. Può darsi che avesse ragione; ma questo attiene al modo in cui uno sente l’insegnamento, che può essere molto vario. Penso che, sul modo in cui lo sente, ogni professore, a un certo momento della sua vita, dovrebbe fare un po’ d’autoanalisi. Forse, ci sono come due poli estremi: un modo, che tende a una forma di potere – non intendo potere accademico, ma intellettuale – e un altro, per il quale non saprei parlare che d’una forma di eros. Quest’altro, era il modo di Giorgio Pasquali. Ora, io non mi sono trovato né sull’uno, propriamente, né sull’altro, dei due poli; ma, certo, più vicino al secondo, e anche per questo a Pasquali sono tanto grato.
Per concludere, ora, davvero, vorrei dire che, nell’insegnamento della filosofia, ho cercato sempre d’avere presenti due parametri. Uno, l’importanza delle circostanze storiche, cioè culturali – circolazione delle idee – e sociali. L’altro, la dimensione, per me irrinunciabile, dei grandi pensatori. Per me, i grandi filosofi ci sono, continuano a parlarci. Diceva Burckhardt (non a proposito specificamente di filosofi, ma in generale) che la grandezza è un mistero; ma, io credo, un mistero che poi si risolve, di volta in volta, abbastanza empiricamente. Per me, i grandi filosofi sono quelli che, avessero o no una grande cultura, sono riusciti a lavorare in presa diretta sulla realtà. E quindi un primo compito è quello di ricostruire – e, nell’insegnamento, aiutare gli studenti a ricostruire – l’immagine della realtà, naturale, sociale, politica, che essi hanno elaborato; perché di lì viene anche il loro retaggio teorico, quello che ci hanno lasciato, che permane o che riemerge in certi momenti della storia. Allora, in quest’ambito teorico, è possibile anche, in certa misura, farli dialogare tra di loro. Penso che questo sia importante di comunicare ai giovani. A me non piace, devo dire, l’espressione “trasmissione del sapere”, mi piace piuttosto “appropriazione”; e quindi: aiutare ad appropriarsi di qualcosa. Ma rimane la questione della grandezza, che poi tocca anche il senso della nostra misura, riportandoci a un’altra frase di Burckhardt: «grandezza è ciò che noi non siamo». Grazie.


da “Il Ponte”, Cesare Luporini, 1909-1993, numero monografico dedicato a Cesare Luporini, anno LXV, n.11, novembre 2009

Ho queste ossa per le pene... Una poesia di Miguel Hernandez (1910-1942)

Miguel Hernandez
Ho queste ossa per le pene
e per cavillare queste tempie,
pena che va e cavillo che viene
come il mare dalla riva alle arene.

Come il mare dalla riva alle arene
io nel naufragio degli andirivieni
vago per notte oscura di padelle
rotonde, poverelle, tristi e brune.

Niente mi salverà da quel naufragio
tranne il tuo amore, zattera che appresto,
tranne la  voce tua, nord a cui tendo.

Così eludendo il cattivo presagio
da cui neanche in te starei al sicuro,
tra pena e pena vado sorridendo.

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Tengo estos huesos hechos a las penas…

Tengo estos huesos hechos a las penas
y a las cavilaciones estas sienes:
pena que vas, cavilación que vienes
como el mar de la playa a las arenas.

Como el mar de la playa a las arenas,
voy en este naufragio de vaivenes,
por una noche oscura de sartenes
redondas, pobres, tristes y morenas.

Nadie me salvará de este naufragio
si no es tu amor, la tabla que procuro,
si no es tu voz, el norte que pretendo.

Eludiendo por eso el mal presagio
de que ni en ti siquiera habré seguro,
voy entre pena y pena sonriendo.


Nota
Miguel Hernandez, nato nel 1910, fu da ragazzo pastore di capre, ma già a 24 anni, 
nel 1934, a Madrid è in contatto con i poeti più importanti del tempo da Jiménez 
ad Alberti e in grande amicizia con Pablo Neruda. 
Durante la guerra civile combatte da volontario nel V Reggimento. 
Finita la guerra, nel 1942, morirà di stenti e di tisi ad Alicante, 
nelle carceri di Franco, nonostante la mobilitazione internazionale. 
Ho tratto la poesia dalla rete, la traduzione è mia. (S.L.L.)

28.12.16

Preghiera affinché non muoia un uccello. Una poesia di Luis Pimentel (Lugo, Spagna 1895-1958)

Signore, perché da vicino un uccello può essere un mostro?
Lo tengo nelle mie mani, e tremo di paura.
È come se fosse il mio stesso cuore.
Tremo, perché posso uccidere
questo fiore vivo e caldo,
far sì che escano dalla sua bocca
tutte le terse mattine
Perché un uccello è cosa sempre nuova per noi?
Signore, perché nelle nostre mani palpita il crimine?

Billy Wilder, ballerino a pagamento, demolisce il Principe di Galles (Mariuccia Ciotta)

Billy Wilder
Vietato scrivere in un copione hollywoodiano “Figlio di un cane”? Billy Wilder non si arrende e aggira così la censura: “Se tu avessi un padre, abbaierebbe”. Con umorismo caustico il regista viennese di A qualcuno piace caldo incanta, ipnotizza e coniuga la più sfrenata frivolezza, che qualcuno riterrà volgare, con la spietata autopsia dell'umanità, scambiata per cinismo, come in L'asso nella manica, il film che indignò pubblico e critica. Troppo implacabile nel disegnare la geografia della crudeltà fatta di media e spettatori sanguinari.
Nella memoria del re della commedia (6 Oscar) non c'erano solo i filari di palme a Beverly Hills, dove morì nel 2002 all'età di 95 anni, ma i ricordi di madre, nonna e patrigno bruciati nei forni di Auschwitz, e la fuga prima a Parigi e poi in America. Billie, che adottò la “y” per sbarcare a Hollywood nel 1933, a chi gli chiedeva se era stata una sua scelta abbandonare l'Europa rispondeva “No, è stata di Hitler”.
C'è un interregno, però, che spiega tutto di Billie e Billy, il dolce e l'amaro, la sua vita a Berlino quando tra il '27 e il 30 esercitò il mestiere di giornalista per diversi quotidiani popolari, e si allenò ad osservare caratteri e fisionomie e a spiare le conversazioni per le strade della Repubblica di Weimar.
Il regista di Quando la moglie è in vacanza, Stalag 17, Irma la dolce, La fiamma del peccato, prese appunti per i suoi capolavori nelle vesti di “city editor”, un flaneur molto speciale, autore di articoli di “vita autentica”, antesignani del neorealismo, raccolti in un volumetto imprescindibile Il principe di Galles va in vacanza (edizioni Lindau, pag. 220, 18 euro, 2016). Nel racconto che dà il titolo al libro, Wilder scortica vivo il principe pavone, viveur d'alto rango sempre in prima pagina per gli scandali di letto, l'Edoardo VIII che abdicherà sia per amore di Wallis Simpson, l'americana pluridivorziata, sia per quello del Fuhrer.
Il principe annoiato dalla vita di corte non sa più dove andare, conosce India e Indocina, Giamaica e Guyana, Ceylon e le isole Fiji, l'Australia poi gli dà su i nervi, in quanto all'Egitto, “i coccodrilli stanno già fischiettando il suo nome dalle piramidi”, e quindi decide per un “simple” ranch in Canada, fornito di “sei bagni, due sale da biliardo, una da bridge, una da ballo, tre bar e così via”. Meglio di una pagina di storia sul futuro “re per una notte” indeciso se indossare il frac rosso, l'abito da cow-boy o un completo lilla per la cavalcata mattutina.
Gli scritti del giornalista Billie scorrazzano soprattutto per le vie berlinesi, protagoniste della sua prima sceneggiatura, Gente di domenica (Menschen am Sonntag, 1930), diretto da futuri icone del cinema, Robert Siodmak, Edgar G. Ulmer, Fred Zinnemann. Un film dove Wilder mette a frutto le cronache cittadine per trascendere la realtà e renderla superlativa. Articoli che vanno dall'uomo-portafortuna, “grasso, calvo e con dei bei denti”, assunto da un imprenditore perché sorrida sempre seduto davanti alla sua scrivania (Perfetto ottimista cercasi), alla donna ingaggiata da pigri ricconi perché desideri, per conto loro, ammazzare gli avversari in affari (Intervista con una strega).
Sembra di stare tra le pagine di Tre uomini a zonzo (1900), diario turistico di Jerome K. Jerome, esilarante e cupo nel descrivere il tedesco che ubbidisce agli ordini più aberranti, un racconto premonitore del nazismo. Anche Billy Wilder immagina negli anni Venti, dopo la catastrofe della Grande guerra, le macerie di Berlino. La svendita dell'anima tedesca sarà esposta in Scandalo internazionale ('48), altro folgorante esempio di Billy il “doppio”, che sa cucire insieme lo strazio di Black Market, cantato da Marlene Dietrich, ammaliante spia tedesca, con la risata provocata da Jean Arthur, deputata in missione venuta dall'Iowa, goffa e puritana.
I reportage berlinesi, intrisi di spirito yiddish, sono fulminanti sonetti che dicono molto del lessico cinematografico di Wilder, non solo per le battute celebri, “Nessuno è perfetto”, inciso sulla sua lapide nel cimitero di Westwood (I'm a writer. But then nobody's perfect), Los Angeles, accanto all'amata e temuta Marilyn Monroe (“ottanta ciak per dire Dov'è il mio bourbon?”). Ma soprattutto per il lavoro linguistico, le ellissi e le iperboli, l'incoerenza sintattica che gli fa scrivere “il viso del signor Isin sorride, giallo e lontano” oppure “un signore in raglan e con una gamba rigida”. Come nota la traduttrice (ottima) di Il principe di Galles va in vacanza, Silvia Verdiani, il ritmo delle parole lo ritroveremo nei copioni e le regie, da Viale del tramonto a Sabrina, giochi di parole in versi, che ci fanno scoprire, sotterrato sotto una coltre di gelido distacco, Billy il poeta. E Billy il “ballerino a pagamento”. Lo fece davvero quando aveva i buchi nella giacca e il colletto liso. Fu un gran successo, il racconto autobiografico, Cameriere, un ballerino per favore!, storia di un ventenne disoccupato, improvvisato danzatore per anziane signore in un locale di Berlino. Usava così, e lui ballava “con le più snelle e con quelle che bevono tisane dimagranti”.


sabato 24 settembre 2016, pubblicato su Alfabeta 2

Cronache giubilari. Un passo avanti, due indietro (S.L.L.- micropolis novembre 2016)

La fine dell'Anno Santo ha conquistato lo status di prima notizia nei tg del 20 novembre, ma non mi pare che questo rimedi al flop del “Giubileo della misericordia” o, come dicono, “di papa Francesco”.
La chiusura delle “porte sante”, come l'anno scorso l'apertura, si è svolta in due tempi. Una settimana prima del rito conclusivo a Roma, in piazza San Pietro, domenica 13 sono state serrate quelle “particolari”, sparse in tutto il mondo (almeno una per diocesi), che con il loro attraversamento consentivano di mondarsi “in loco” dalle colpe, senza essere obbligati a un costoso e faticoso pellegrinaggio a Roma. Ho assistito al rito perugino, nelle intenzioni solenne, in realtà piuttosto di routine. Il cardinale Bassetti, citando il profeta Malachia, ha promesso il sorgere di “un sole di giustizia” e di “un mondo nuovo”, in cui “i superbi che hanno spadroneggiato in questo mondo, svaniranno come la paglia sul fuoco” e ha parlato delle tragedie dell'anno trascorso, tra cui, particolarmente presente, il terremoto, valorizzando i segni di solidarietà e d'amore che si sono manifestati. Ha abbozzato infine un giudizio sul Giubileo, “un tempo formidabile sul piano della grazia, i cui esiti sono noti soltanto a Dio e, in qualche misura, ai confessori”. Ha dato i numeri solo per il recente pellegrinaggio regionale in Vaticano concluso da un incontro con il Papa e svoltosi il 22 ottobre: 7500 partecipanti. Ha annunciato, come segno di grazia, l'imminente ordinazione di 4 nuovi diaconi, un giovane ingegnere che aspira al sacerdozio e tre più maturi signori impegnati in attività ecclesiastiche e nella distribuzione ai malati di ostie consacrate, di cui due sposati con prole. La parola d'ordine della predica di Bassetti, come di altre, consimili omelie riferite dalla stampa e dalla rete, è che si conclude il Giubileo della Misericordia ma è sempre operante la misericordia del Padre cui il credente, fragile e peccatore, può sempre rivolgersi con la certezza del perdono. Sulla stessa linea l'editoriale su “la Voce” del vescovo di Città di Castello, Domenico Cancian, per il quale “la Misericordia non si chiude mai”.
Nello stesso numero del settimanale dei vescovi dell'Umbria (venerdì 11 novembre) si può leggere, a firma Laura Lana, un articolo di bilancio complessivo sul Giubileo in Umbria. È centrato su tre santuari, quello dell'Amore Misericordioso a Colvalenza, quello di Santa Maria degli Angeli in Assisi e quello di Santa Rita a Cascia. Il rettore di Colvalenza parla di un forte aumento di pellegrini e cita come esempio l'arrivo in massa di 3000 penitenti da Albano, ma spiega come più che l'affluenza conti il clima di fede e di fiducia: “Confessionali sempre pieni”. Il rettore della Porziuncola preferisce non dare numeri e ricorda piuttosto le tre visite in Assisi di Bergoglio, “pellegrino fra i pellegrini”. Chi, ad Assisi, dà i numeri è la Statio peregrinorum, una sorta di ufficio di statistica in capo ai frati della Basilica di San Francesco, inaugurato nel 2015 in collaborazione con la Regione e Sviluppumbria: registra i flussi dei pellegrini, distinguendo secondo la modalità dell'arrivo (a piedi, in bicicletta, a cavallo o in bandbike), e secondo le esigenze di accoglienza (ospitalità, ascolto, assistenza spirituale, partecipazione alla liturgia). Dal 2015 al 2016 i pellegrini registrati sono passati da 1600 a 3200. Considerato l'anno giubilare e le presenze papali difficilmente può considerarsi un successo. In relazione al santuario di Cascia, infine, si parla soprattutto degli effetti del terremoto, con il trasferimento delle monache: le più anziane in un convento fuori regione, le altre in città nel monastero dei padri Agostiniani per continuare ad assicurare conforto nelle zone colpite dal sisma. Tra le buone notizie c'è la messa in sicurezza delle reliquie di Santa Rita, la celebre santa dei miracoli “impossibili”.
La sottolineatura dell'elemento spirituale rispetto al dato quantitativo si legge anche nei comunicati ufficiali vaticani. Il raddoppio delle presenze in un anno giubilare neanche a Roma può ritenersi un successo, ma probabilmente non era a questo tipo di successo che Bergoglio mirava, indicendo un Anno Santo decentrato, con porte sante in ogni diocesi.
L'idea era quella di ripetere a livello locale quanto a livello centrale era avvenuto nel 2000: alle celebrazioni giubilari avrebbero dovuto infatti partecipare intere comunità guidate dalle autorità laiche e categorie organizzate (operai, contadini, artigiani, infermieri, insegnanti, giudici), di credenti non necessariamente praticanti. Tutto ciò allo scopo di favorire un nuovo, più forte radicamento nel territorio dell'istituzione ecclesiastica. A giudicare dall'Umbria questo progetto è abortito: il Giubileo ha coinvolto solo gente di chiesa. Qualche successo il papa ha forse registrato nel tentativo di spingere, con l'insistita predicazione della misericordia e attraverso l'istituzione dei cosiddetti “missionari della misericordia”, le strutture ecclesiastiche a un più forte impegno assistenziale verso categorie che vivono ai margini della società: prostitute, barboni, senzatetto, carcerati, migranti. Non è un caso che il “Giubileo dei senza fissa dimora” sia stato l'ultimo ad essere celebrato, e con particolare solennità.
La chiusura della Porta Santa nella Basilica Vaticana si è svolta nella mattinata del 20 novembre. Nella piazza San Pietro, provvidenzialmente risparmiata dalla pioggia nelle ore chiave della cerimonia, c'era una moltitudine di grandi dignitari della Chiesa vestiti in pompa magna: vescovi con la mitra, cardinali con lo zucchetto rosso, guardie svizzere, Cavalieri del santo sepolcro e membri di tante confraternite. E c'era, immancabile, Matteo Renzi non lontano dal presidente Mattarella.
Bergoglio ha chiuso la porta, ha ringraziato e pregato e si è prodotto in una omelia piuttosto rituale, affidando la riflessione conclusiva sull'Anno Santo ad una intervista – già registrata, ma messa in onda solo nella serata dalla rete televisiva della Cei, TV2000 - e ad una lettera apostolica alla sua Chiesa, che sarebbe stata pubblicata e illustrata alla stampa da monsignor Fisichella, il ruiniano destrorso che Bergoglio ha messo a capo del Giubileo.
L'intervista è particolarmente dedicata alle esperienze di confessore di Bergoglio, che rammenta sofferenze indicibili in una con i pentimenti di prostitute e delinquenti comuni. (Chissà perché non si pentono e non si confessano mai governanti guerrafondai, generali macellai, finanzieri affamatori e industriali inquinatori!). Quando gli chiedono del rapporto della Chiesa con gli Stati e i governi in questo tempo di “guerra a pezzi” Bergoglio è particolarmente evasivo, incolpa di tutto quella che chiama “cardiosclerosi”, accusa soprattutto i mercanti d'armi. C'è un evidente arretramento rispetto all'enciclica Laudato si', in cui il papa argentino aveva avanzato una critica radicale ai valori fondanti del mondo d'oggi, unificato da un modo di vivere e produrre che aumenta le ingiustizie sociali e offende l'ambiente e in cui prospettava per la cristianità il ruolo di soggetto di riforma. Oggi ripiega sulla “rivoluzione della tenerezza”, sull'idea che compito della Chiesa sia di ammansire i cuori dei potenti per limitare i danni, riservandole un ruolo (possibilmente protetto e finanziato) di assistenza e di conforto per le vittime innocenti del sistema. Insiste, anche per questo, su una “chiesa povera”, cioè sulla sobrietà degli stili di vita degli ecclesiastici, ricorrendo alla ricca aneddotica sui nipoti che si contendono le sostanziose eredità dei preti. Ma anche su questo l'impressione è che sia voce chiamante nel deserto.
Un piccolo passo avanti si può forse leggere nella Lettera apostolica Misericordia et misera, una sorta di bilancio dell'Anno Santo straordinario che ne rilancia i temi, diretta “a quanti la leggeranno”. È documento complesso, che probabilmente vale una riflessione più approfondita. Qui voglio riprendere solo la trionfalistica valutazione del Giubileo, forse involontariamente comica in un anno di guerre, terremoti e disastri: “Abbiamo celebrato un Anno intenso, durante il quale ci è stata donata con abbondanza la grazia della misericordia. Come un vento impetuoso e salutare, la bontà e la misericordia del Signore si sono riversate sul mondo intero”.
I primi commenti insistono sulla istituzione di una giornata mondiale della povertà, sulla conferma della scelta inclusiva verso i divorziati risposati che accettano l'impegno della castità e dell'assoluzione da concedere alle donne che hanno abortito e ai medici che le hanno aiutato se intenzionati a non più commettere l'esecrabile infanticidio. Un'apertura, certo, ma timida, troppo timida.


“micropolis” novembre 2016

27.12.16

Praticare l’obiettivo. Welfare, politica e cittadinanza ai tempi della crisi (Pino Ferraris)

Quello che segue, e che risale a quasi cinque anni fa, è uno degli ultimi scritti di Pino Ferraris, studioso e dirigente del movimento operaio, una lezione di metodo per oggi e per domani. (S.L.L.)

Alcune riflessioni a caldo, prendendo spunto da due interventi all’interno del dibattito che si è sviluppato, all’inizio di dicembre, dai gruppi che si sono incontrati al Mammut di Napoli per discutere del “sociale”, della sua condizione, degli sviluppi che probabilmente prenderà e di quelli che sarebbe bene tentare di imprimergli.
Il primo è offerto dal racconto di Marina Galati della Comunità Progetto Sud di Lamezia Terme che ha confrontato due episodi di mobilitazione sociale (l’occupazione dell’Azienda sanitaria per ottenere diritti negati ai disabili) concentrati nella stessa località ma in epoche diverse. In esso si sottolineano con forza i mutamenti nella configurazione della questione sociale che sono venuti avanti in questi ultimi tempi e che richiedono nuovi modi del fare società.
L’esperienza riportata parla della transizione da una mobilitazione sociale di strati marginali e minoritari della società (i venti disabili che occuparono l’azienda trent’anni fa) a una recente iniziativa che ha coinvolto più ampie fasce sociali (comprese le famiglie, gli operatori sanitari stessi e addirittura una parte della polizia municipale che hanno occupato l’azienda alla fine dello scorso anno), frutto di nuove alleanze tra aree storiche di marginalità sociale e nuove figure sociali “vulnerate” dalla crisi in atto.
Per tentare di indicare il senso generale del mutamento riprendo metafore approssimative utilizzate dalla sociologia. Nei decenni passati si parlava della “società dei due terzi”, cioè di una società che vede la vasta maggioranza della popolazione integrata verso l’alto in una condizione di sicuro benessere. Solo una fascia residuale di rischio e di disagio sociali rimane nel basso. Il problema si riduce alla gestione verso l’integrazione delle aree della marginalità. Oggi si parla invece della “società dei quattro quinti”: una fascia molto ristretta della società (un quinto) si colloca in alto con reddito elevato e sicuro, mentre il resto (i quattro quinti) appare come una platea di popolazione vulnerabile e vulnerata che circola tra occupazione a rischio, lavoro precario, disoccupazione e redditi decrescenti e incerti. La novità dirompente dei processi sociali che la crisi ha accelerato e radicalizzato è la destabilizzazione del “centro” della società, di quelli che si consideravano “ceti medi” (classe operaia garantita, piccola borghesia, aree di terziario autonomo e dipendente…).
La metafora del 99% degli occupanti di Wall Street coglie in termini militanti e in una prospettiva unificante questo passaggio, mentre il “tea party” esprime una reazione chiusa e populista alla minaccia della mobilità discendente. Infatti dopo generazioni e generazioni che hanno considerato come naturale e irreversibile il movimento verso una mobilità sociale ascendente ora il futuro spaventa: non solo l’ascensore della mobilità sociale verso l’alto si è fermato, ma scende precipitosamente. Questo è lo shock della crisi che viviamo: la destabilizzazione degli stabilizzati.
In questa situazione una parte di coloro che si consideravano i “secondi dentro la società dei primi” oggi si ribellano al declassamento attraverso la loro aggressiva distinzione dagli “ultimi”. L’Europa della crisi è percorsa dalla protesta degli “indignati”, ma anche dalle proiezioni xenofobe delle destre populiste.

È in questo contesto che l’esperienza calabrese che ci è stata raccontata (nella Calabria della “caccia al nero” di Rosarno) assume un carattere esemplare di costruzione di alleanza tra “marginali” e “vulnerati” che a mio avviso deve essere il cuore di ogni intervento sociale nel presente.
Non basta più essere i portavoce degli emarginati ma occorre dare direttamente la voce a queste nuove convergenze. La logica associativa dell’alleanza tra i diversi mi sembra che debba essere ispirata al principio federativo che ripudia l’inquadramento burocratico dall’alto e ogni astratta pretesa omologante.
L’altro stimolo alla riflessione viene dall’esperienza degli operatori sanitari dell’associazione Jerry Masslo, sulla via Domiziana. Il racconto che abbiamo ascoltato intreccia l’illustrazione di pratiche mediche orientate al soggetto sofferente, fortemente centrate sulla gestione di un rapporto attivo tra medico e paziente, con una esplicita critica di quella che possiamo chiamare la “medicina normale”.
La medicina contemporanea vive una paradossale contraddizione: il massimo successo dei risultati tecnologici (farmacologia, diagnostica, chirurgia) coincide con un momento altamente critico del rapporto medico-paziente, che non solo è parte integrante del processo terapeutico ma che rappresenta anche l’identità professionale del medico. La convergenza tra superbia tecnologica e aziendalismo sanitario mettono in crisi una professione dai forti contenuti etici e relazionali che non riesce più a incontrare i pazienti come “soggetti”, i quali non sono solo portatori di problemi ma anche di risorse per la loro soluzione.
La criticità della professione medica diventa esemplare della crisi più ampia delle attività orientate all’intervento sociale, l’azione educativa come quella assistenziale o della pubblica amministrazione. Gran parte delle attività di welfare vedono il predominio dell’offerta delle prestazioni: il destinatario è considerato come un contenitore vuoto nel quale, con crescente parsimonia, “si buttano” servizi.
Credo che nella medicina come nell’educazione, come in tutti gli interventi di welfare occorra coniugare una innovazione delle pratiche con una critica e autocritica delle culture professionali oggi prevalenti. Ogni intervento sociale, a mio avviso, dovrebbe essere volto a trasformare gli “utenti” passivi di prestazioni esterne in soggetti capaci di esprimere le proprie energie latenti, di riprendere l’iniziativa, di trovare sempre possibili spazi di autonomia.
Mi pare che problemi di efficacia, di risparmio di risorse e di espansione della cittadinanza democratica convergano nella capacità di dare rilevanza al lato attivo, competente e propositivo della domanda sociale facendo sì che l’“oggetto” delle pratiche di tutela politico-amministrativa entri sulla scena come “soggetto” portatore di risorse proprie e dei suoi taciti saperi.
Direi che ciò che più manca nelle condotte sociali è l’arte dell’ascolto, l’accompagnamento al “far da sé” e il rispetto dei diritti della persona.
La gestione della crisi del welfare che vediamo in atto non aiuta ad andare in questa direzione. Anzi tende ad aggravare le stesse carenze e distorsioni di ciò che abbiamo alle spalle. Da un lato il sociale diventa sempre più materia prima di attività di impresa: si tratti di business privato, di aziendalismo della sfera pubblica o della imprenditorialità del sedicente no profit.
Il nome “terzo settore” è ormai pura copertura ideologica della lobby di un sistema di “imprese” che ha i suoi attori principali nella Lega delle cooperative e nella Compagnia delle Opere. Il diritto sociale in questi casi si deforma in capacità di accesso del “cliente” al mercato sociale.
Nei vuoti crescenti lasciati dal “mercato sociale” prende spazio l’assistenza selettiva, l’attività oblativa, l’intervento caritatevole del “capitalismo compassionevole”. In questo caso i diritti sociali tendono a subire una regressione ottocentesca verso il favore concesso al bisognoso postulante.
In ambedue i casi non si perde solo la dimensione del “diritto” ma la dimensione della socialità. Ciascuno, abbandonato a se stesso, deve cavarsela, deve imparare ad arrangiarsi.
Prima dell’affermazione dello Stato assistenziale si confrontarono due culture e pratiche del self-help: quella del “far da sé individualistico” di Samuel Smiles fondato sulla laboriosità, il risparmio, il carattere del singolo e quella del “far da sé solidaristico” come fondamento di una ascesa sociale cooperativa dei lavoratori nella trasformazione degli assetti sociali esistenti. Ambedue, senza negare un ruolo sociale dello stato, si opponevano allo statalismo: lo Stato “padre” facilmente diventa lo Stato “padrone”.
Colui che elaborò e mise in pratica in Italia il “far da sé solidaristico” fu Osvaldo Gnocchi-Viani, fondatore delle Camere del lavoro e della Società Umanitaria di Milano, nei cui Statuti si affermava che “lo scopo dell’istituzione è quello di mettere i diseredati in condizione di rilevarsi da sé medesimi”. È chiaro l’intento di rompere il nesso assistenza- dipendenza e di affermare il valore irrinunciabile dell’autonomia dei soggetti.
Contro il degrado verso l’arrangiarsi solitario del “cliente” o del “postulante” vi è oggi solo la risposta di una cittadinanza attiva capace di associare, di fare società, capace di praticare l’obiettivo, di incominciare a costruire con le proprie forze ciò che rivendica, di anticipare nel presente ciò che vuole per il futuro.
Solo se costruisco ho diritto ad avere un sostegno a costruire, solo un operare sociale che realizza una valenza pubblica può richiamarsi al principio di sussidiarietà. Se si vuole affermare questa forma di socialità antistatalista occorre opporsi in modo netto all’uso strumentale, improprio e abusivo del concetto di sussidiarietà come copertura di operazioni di esternalizzazione dall’alto di funzioni pubbliche, di appalti, sovente opachi, di sfere di intervento pubblico al cosiddetto privato sociale.
Non è un caso se accade che le iniziative di cittadinanza attiva solidale oggi si richiamino sovente all’esperienza storica del mutualismo. Il mutualismo riprende alcuni principi di fondo di grande attualità: il valore dell’autogestione, la capacità positiva di realizzare in basso e non solo rivendicare verso l’alto, il legame tra problemi degli ambiti di vita e l’esperienza di lavoro, infine l’affermazione del principio di solidarietà che si distingue sia dalle pratiche di oblazione dall’alto sia dalla pur lodevole virtù personale dell’altruismo.
C’è una contemporaneità genetica tra l’insorgere dell’idea di solidarietà e la nascita del moderno movimento operaio e socialista. Nel 1848 parigino i giornali operai modificarono la triade “libertà, uguaglianza, fraternità” sostituendo quest’ultima con la parola “solidarietà”.
Nell’Enciclopedia di Diderot il termine “solidarietà” è illustrato in poche righe che rinviano al concetto di “obbligatio in solidum” del diritto romano. Molte pagine dell’Enciclopedia sono invece dedicate alla parola “fraternità” con una ricostruzione storica che la riconduce a due tradizioni: quella dell’unità di sangue tra “fratelli d’arme” e quella della fratellanza cristiana che unisce intorno al Padre divino: fratelli in quanto figli della patria, fratelli in quanto figli di Dio. Di fronte all’insorgere della questione sociale, “fratellanza” diventa la parola della carità cristiana e della filantropia massonica.
Nella storia della maturazione politica e associativa delle società di mutuo soccorso, la sostituzione del termine “fraternità” con quello di “solidarietà” intende affermare e realizzare un’autonoma relazione orizzontale tra uguali, rifiutando rapporti verticali di dipendenza dall’oblazione paternalistica.
Non c’è conflittualità tra diritti sociali e mutualismo. L’apporto del mutuo soccorso nella fase aurorale dell’affermazione di diritti sociali è indubbio. All’intero della cerchia dell’associazione il vincolo di reciprocità statutariamente affermato faceva sì che il singolo lavoratore di fronte alle sventure della vita per la prima volta cessasse di cadere nella condizione del bisognoso che implora benevolenza verso l’alto, diventando invece un soggetto portatore del diritto al sostegno solidale dell’associazione.
Forme di nuovo mutualismo non possono quindi essere viste come interventi di supplenza di diritti negati dalla crisi e dal restringimento del welfare, ma come azione diretta positiva volta a rendere esigibili diritti elusi, a promuovere nuovi diritti e, soprattutto, tesa ad affermare un rapporto radicalmente mutato tra pubblica amministrazione e società, che veda emergere il protagonismo dei soggetti, il loro potere di partecipazione solidale alle scelte e alle decisioni che riguardano le loro esistenze.
La società contemporanea spezza legami sociali e costruisce di fatto e ideologicamente le derive individualistiche. Vengono oscurate e impedite le insopprimibili esigenze umane di sociabilità. Dentro il terremoto economico e la crisi dei sistemi politici irrompono oggi movimenti sociali di grande ampiezza, imprevisti e innovativi: le rivolte arabe e le agitazioni sociali all’interno di Israele, gli indignati spagnoli e gli occupanti di Wall Street.
L’esperienza americana mi sembra di grandissimo interesse per la qualità politica e sociale di questo movimento. Tra i molti aspetti originali che si possono cogliere (il linguaggio, la composizione sociale, i contenuti politici) vorrei, a conclusione del mio intervento, sottolineare quello che ritengo più significativo ed esemplare. Una generazione di giovani cresciuti nell’universo virtuale e immateriale dei videogame e di internet, rovesciando criticamente l’uso delle nuove tecnologie, passa all’incontro reale, materiale.
Si parla degli occupanti di Wall Street come di un movimento “corporeo”. Di gente che è trascorsa dalla connessione a distanza alla prossimità fisica: lo stare insieme sotto le tende, le lunghe conversazioni faccia a faccia, lo scaldarsi reciprocamente e il mangiare insieme…
Questo transitare dal contatto immateriale alla solidarietà corporea indica, a mio avviso, una possibilità tutta nuova che apre al futuro: dentro la società della rete si utilizza la “connessione” per produrre “associazione”.


Gennaio 2012, dal sito in ricordo di Pino Ferraris ( http://www.pinoferraris.it/ )

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