9.11.16

Manganelli e i libri mangiati (Pietro Citati)

Giorgio Manganelli
Nessuno dei miei amici ha amato i libri come Giorgio Manganelli. Qualcuno ne aveva letti più di lui: nessuno li ha mai desiderati e posseduti con la stessa passione. Il suo era una specie di drammatico e demoniaco cannibalismo amoroso. Quando comprava un libro, si guardava intorno, con sguardi obliqui e un poco torvi, come se qualcuno potesse invidiargliene e contendergliene il possesso; e lo nascondeva in una grossa borsa. Se restava in città, al ristorante o al cinema covava con inquietudine il suo nuovo tesoro. Poi tornava a casa, dove nel segreto, in silenzio, avveniva il rito dell' identificazione. Come il profeta Ezechiele, come il veggente dell' Apocalisse, Manganelli ingoiava i libri: ingoiava i volumi che contenevano ogni dolcezza, ogni amarezza; e li trasformava nella carne della sua carne. Ora il Fedro, ora una delle Bucoliche, ora una canzone di Petrarca, ora un racconto di Poe, ora le Operette morali, ora Pinocchio.
Chi entrava nella sua casa, aspettando di vedere al suolo costole di libri sbranati, trovava un ordine impeccabile, che lo meravigliava. I libri stavano lì, serrati, in file, disposti negli scaffali, come i soldati dell' esercito immaginario dell' imperatore cinese, che vennero sepolti insieme a lui. Non era giusto meravigliarsi. Solo nei libri Manganelli esprimeva il suo immenso bisogno di ordine e di armonia che mancava in ogni altra parte della sua vita e della sua opera. Il mondo dei libri era l'ordine, anzi conteneva moltissimi ordini, tra i quali era difficile scegliere. Doveva preferire l'ordine alfabetico? O l'ordine storico? O l'ordine delle collezioni? O quello delle parentele e delle affinità? O quello delle inimicizie? In una vita anteriore era stato un bibliotecario e anche adesso aveva le cautele, le attenzioni, lo scrupolo, le pruderies che il vero bibliotecario ha per il libro.
Amava i commenti. Pensava che nessuna attività intellettuale potesse paragonarsi a quella di un sapiente commentatore, che annota le fonti e le allusioni del suo testo, e ne spiega tutti i sensi possibili.
Non so se egli credesse nel Paradiso, sebbene molte credenze cattoliche gli sembrassero, col passare degli anni, piene di echi simbolici. Doveva trovarlo troppo affollato e promiscuo. Qualche volta, nei momenti in cui la sua immaginazione si abbandonava capricciosamente a sé stessa, fantasticò di trovarsi, anche lui, di là. Il Paradiso era una immensa città di diaspro, come la Gerusalemme celeste nell'Apocalisse. Le mura cristalline emanavano una luce leggera, mite e finissima, che non si offuscava nemmeno durante la notte. Non c'era Dio. Non c'era nessuno. E, insieme a lui, c'erano i libri. Tutte le mura della città erano gremite di volumi, che anch'essi gettavano una luce sottile e radiosa. Suppongo che Manganelli immaginasse che lassù non abitavano i nostri libri, che appartengono soltanto alla terra. C'erano i grandi libri che gli uomini hanno cercato di scrivere, senza riuscirvi, e che ora avevano finalmente tutte le sillabe e le lettere e le pagine compiute. C'erano i libri eventuali, i libri possibili, i libri sognati, i libri impossibili...
Come tutti gli uomini coltissimi, Manganelli sapeva che i libri non bastano. Oltre il radioso Paradiso dei libri, in qualche luogo dell'universo si estendeva uno spazio desolato, come può essere desolata la parola infinito. Era il mondo della mente, dove non ci sono più volumi. Là non vi è più né tempo né spazio: né momento né luogo né eco né strada né crocicchio. Questo era il luogo al quale Manganelli sentiva di restare incatenato per sempre. Lui non doveva far altro che registrare cosa vi accade: battiti, fruscii, apparizioni, sparizioni, metamorfosi, morti incessanti, fecondazioni, disastri, rinascite, reincarnazioni, estenuazioni, vertigini... Quando prendete in mano uno dei libri che Manganelli ha donato alla Biblioteca di Pavia, ricordate, vi prego, che in fondo all'animo egli era uno dei rarissimi cittadini di questo mondo inabitabile.

la Repubblica, 2 maggio, 1992

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