25.11.16

Addio Volodia. Vita, morte e romanzo di Simone Signoret (Nello Ajello)

Avevo letto duecento pagine di Addio Volodia, il romanzo di Simone Signoret che in settimana uscirà da Mondadori (lire 22.000), quando mi è arrivata la notizia della sua morte. Pensavo di scrivere un articolo con calma, fra dieci giorni, a lettura ultimata (di pagine, il libro ne ha quasi cinquecento). Ma poi la "novità" mi ha indotto a cambiare ritmo, e sono arrivato in fondo al libro con una curiosa frenesia, sentendomi quasi il destinatario di una confidenza, di un messaggio "finale" da parte dell'autrice.
Non sembri una trovata di circostanza. L'uscita di Addio Volodia l'avevo aspettata con ansia, come raramente può capitare in tempi come questi, in cui le opere di narrativa inutili ci sommergono. Non solo. Desideravo ardentemente che il romanzo fosse bello. Per cedere a simili impulsi nei riguardi di un libro, occorre essere legati all'autore da vincoli magari occulti o "ufficiosi", ma strettissimi. È il mio caso.
Il tema scelto dalla Signoret - la tragedia ebraica vista dalla Francia fra gli anni Venti e Quaranta - mi interessava, certo, benché non potesse davvero dirsi inedito. Mi incuriosiva, naturalmente, il fatto che a cimentarsi con la letteratura fosse un'attrice, cioè l'esponente di una varietà umana cui di rado si attribuiscono le capacità di pensiero ritenute proprie di chi scrive. Ma il motivo vero di tanto entusiasmo era personale o, direbbe un sociologo, "interpersonale": si trattava dei rapporti antichi, intensi, fortemente venati di emotività, che esistevano fra me e quella scrittrice. Cioè, fra un uomo che era sui vent'anni nei primi anni Cinquanta e una donna che proprio allora, sulla scia di un film memorabile, si convenne di chiamare "Casco d' oro". Il fatto che la destinataria di questi stati d'animo li ignorasse era innegabile, ma di scarsa importanza. Poco o nulla contava che la Simone del 1985, malata, alcolizzata e scrittrice di romanzi, non somigliasse quasi per nulla alla splendida Simone del Casco d' oro (1951), e che anzi il contemplare qualche sua foto recente potesse essere, per gli antichi fans, motivo di disinganno.
Un libro è qualcosa di diverso da un'istantanea impietosa. Può far "vedere" una persona - la persona del suo autore - senza incrudelire sul dato fisico, riprodurne l'essenziale salvandola dalle vendette del tempo. È proprio ciò che io (ma forse faranno lo stesso altri miei coetanei) sono andato a cercare nel libro della Signoret. Dire che l'ansia sia stata soddisfatta in pieno sarebbe una bugia, e parlare di rivelazione di una "grande scrittrice", come si è fatto in Francia, suonerebbe come un incongruo elogio postumo.
Eppure, man mano che si procede nella lettura, ci si accorge che fra Casco d'oro e la scrittrice Signoret esistono legami evidenti. Per cominciare, una certa idea di Parigi: una metropoli popolare o piccolo-borghese suddivisa in borghi - l'indirizzo ufficiale della vicenda è: Rue de la Mare, XX Arrondissement - con la sua vita da villaggio, i ragazzini che giocano fra i materiali di palazzi in costruzione o fra i detriti di case appena demolite, mentre le madri si parlano sui ballatoi o si danno convegno in cucina. Dall'uscio di uno di questi appartamenti sdruciti potrebbe sbucare ad un tratto la Signoret dei bei tempi, l'eroina "positiva" di tanti film.
I ruoli adatti non le sarebbero mancati: avrebbe potuto essere, ad esempio, una delle due protagoniste femminili, Olga o Sonia, giovani ebree orientali che il terrore dei pogrom ha trapiantato a Parigi. Il fondale è appropriato, l'arco cronologico della storia - che abbraccia anni cruciali fra il primo dopoguerra, il nascente nazismo e la democrazia "entre deux guerres", con l'odio antiebraico e l'engagement a sinistra, la viltà ancestrale dei piccolo-borghesi di Francia e il rumoroso tripudio del Front Populaire, fino a un epilogo che disperde, per un incidente casuale, i personaggi, alla vigilia di quell'arrivo di Hiler a Parigi che ne avrebbe prodotto comunque la morte - sembra collocarsi a metà strada fra ciò che Simone rappresentava sullo schermo e ciò che era nella vita.
La trama del romanzo conta meno del sottofondo che la pervade. Ed è un sottofondo d'amarezza e di scetticismo ideologico, così somigliante agli umori recenti della Signoret. Su tutto, domina la cieca rivalsa che la Storia esercita ai danni delle sue vittime - per la precisione, di un gruppo di ebrei - incarnandosi prima nella "destra" di Hitler, poi nella "sinistra" di Stalin. In una saga così concepita il realismo trionfa, esattamente come nei film più belli interpretati da Simone.
Se dovessi trovargli una parentela italiana, accosterei Addio Volodia a talune opere di Pratolini venate di un populismo un po' naif, oppure - se penso alla tenerezza profusa dall'autrice nel descrivere i bambini, i loro giochi, i loro sogni - alla vena felice di un'Elsa Morante (con tanta professionalità in meno, com'è ovvio). A lettura terminata, si deve comunque riconoscere che il suo vero romanzo Simone l'ha scritto senza accorgersene, a puntate, sullo schermo e nella vita; ed è stato il pubblico, cioè noi suoi contemporanei, a collaborare coralmente alla stesura, come capita nelle saghe autentiche.
A trent'anni (tanti ne aveva nel 1951, quando uscì Le casque d'or) Simone era una donna straordinariamente bella, ma non era soltanto questo. Aveva tutti i requisiti anche letterari adatti a suggestionare un pubblico di gusti ancora "eurocentrici", reduce appunto, di fresco, dalla tragedia dell'Europa. Prima di tutto la sua pariginità un po' ruspante e sottoproletaria. Poi, la naturalezza con la quale sapeva diventare una robusta gigolette suburbana e l'autorevolezza con la quale arbitrava i duelli al coltello fra gli uomini che la desideravano. E ancora: la sua umanità scontrosa e intensa: chi non ricorda l'ultima scena di Casco d'oro - e mi scuso di citare sempre quel film, ma non a caso è diventato un simbolo - mentre Simone assiste da una finestra alla decapitazione di Serge Reggiani, il giovane falegname che per amor suo ha ucciso un uomo, non ha mai visto la tenerezza e la disperazione sul volto di una donna.
L'ambiente del film era quello del feuilleton francese di "mala". C'erano gli apaches di periferia, le osterie ombreggiate da pergolati, i valzer danzati nei cortili al suono dell'accordèon. E le "partite di coltello" fra i maschi, e le gigolettes che assistono attonite alla tragedia immancabile. Un genere che nei suoi momenti più alti evoca la penna di un Maupassant e il pennello di un Renoir.
Di questo impasto "primo Novecento" Simone era il lievito. Vi si muoveva come nel proprio elemento. I suoi ruoli migliori, e più proverbiali, oscillavano fra la ragazza "à la suite" della malavita e la prostituta di strada. Nella Ronde di Max Ophuls, è lei che inizia e conclude la serie degli incontri galanti, saldando il cerchio della storia: dal soldatino interpretato da Serge Reggiani al conte, che è Gèrard Philipe. Dall'osè al patetico, questi copioni le sembrano cuciti addosso. Le scivolate nel Guignol non alterano la sua recitazione: mai agitata, affidata all' immobile intensità degli occhi, al loro fuoco interno. Col passare degli anni l'avremmo vista incarnarsi in figure meno luminose ma sempre memorabili: nelle vesti, ancora, di una prostituta (ma stavolta in disarmo) nel film italiano Adua e le compagne; in quelle di un'anziana donna di piacere che protegge un bimbo arabo, nel film algerino La vie devant soi (non sono un critico di cinema nè un cineasta minuzioso: cito a memoria).
Sempre più gonfia sia per gli anni che per il bere, ma sempre così impastata di letteratura "alla francese" da conservare quasi intatto, ai nostri occhi, il fascino originario. E poco importava che i suoi menu fossero ormai prevedibili, e che uno strutturalista non avrebbe faticato a individuarne gli ingredienti canonici: gli apaches, i bas-fonds, la Legione straniera come rifugio finale per i reietti; e sullo sfondo un decennio di "cinèma noir" con i riverberi del Fronte popolare di cui Simone è un'adepta après-la-lettre, e sul taccuino del suggeritore le battute di dialogo inventate da Jacques Prèvert o da un suo epigono... Un miscuglio non sempre di serie A, ma per un mostro sacro del livello di Simone faceva lo stesso. A sollevare le vicende dai bas-fonds anche letterari, bastava lei. E poi, fuori dal set, c'era la vita del personaggio Signoret, trascorsa accanto a quell' altro pezzo di Francia che è Yves Montand. In combutta con lui, la solida gigolette diventava una donna politicamente engagèe. Insieme hanno simboleggiato, lungo quindici anni del recente costume europeo, la "coppia militante", il "mènage di sinistra".
A quel tempo, Parigi esportava un' immagine di sé in cui tutto sembrava miracolosamente conciliarsi senza stridori o pericoli di banalità: le note delle Feuilles mortes (fu la canzone che lanciò Montand nel film Quando Parigi dorme) e le campagne per la Pace, Stalin e i manifesti libertari, la frenesia per un esistenzialismo da locale notturno e la lettura diligente dell' “Humanitè”, Juliette Grèco e Maurice Thorez. Alle feste organizzate dal quotidiano del Pcf, l'arrivo di Yves e Simone, la coppia rossa, coincideva con l'acme dell'entusiasmo. In versione "impegnata" Casco d'oro non perdeva tuttavia ai nostri occhi il diritto di rappresentare l'Eterno femminino francese. Anzi.
Tutto ciò che trovavamo insopportabilmente retorico nel comunismo italiano - infinitamente meno convenzionale e polveroso, a dire il vero, del suo omologo francese - se portava la firma di Simone ci sembrava suggestivo: perfino l' epilogo, che ha trasformato la coppia rossa in un simbolo della "marcia indietro", dall'idolatria per il paese-guida alla denuncia dell'autocrazia che lo governa e vorrebbe opprimere il resto del mondo. Sbagliavamo? Forse si trattava soltanto di due commedianti furbi, specializzati in ruoli ideologici? Può darsi. Ma per quanto riguarda Simone, il Casco d'oro dei film, la Tigre rossa della cronaca francese, non mi piacerebbe ritirarle la mia postuma ammirazione. Se proprio pentirsi è obbligatorio, ci sono peccati più grossi di questo.


“la Repubblica”, 2 ottobre 1985  

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