8.10.16

Dribbling e poesia. L’amletico Praest e il suo Omero (Massimo Raffaeli)

Massimo Raffaeli, collaboratore da molti anni del “manifesto” e di altri quotidiani, critico tra i più raffinati e acuti di poesia e di prosa, è autore per “alias” di questo articolo, dalla sezione riservata allo sport. In realtà non solo di sport si tratta. Si tratta di un grande calciatore e di uno scrittore che, per una sorta di identificazione, si ispira a lui per un romanzo, un romanzo bello e intenso che però si perde nel gorgo ove scompaiono i libri, talora anche quelli di valore. Il romanzo in questione fu pubblicato nel 1963 da Vallecchi e riedito nel 2003 da Castelvecchi, ma risulta introvabile in rete. Avrei voluto leggerlo prima di “postare” l'appassionato articolo che segue, ma spero di poter invertire l'ordine delle azioni nel caso in cui dalla rete mi arrivi qualche suggerimento per procurarmelo. (S.L.L.)
Karl Aage Praest
Il 20 novembre scorso è morto in un ospedale di Copenaghen» dove era nato il 26 febbraio di ottantanove anni fa, Karl Aage Praest, uno dei maggiori fuoriclasse che abbiano illustrato il calcio italiano. Alto, longilineo, ossuto, Praest assomiglia a un attore di Hollywood e rammenta nel profilo, come nella eleganza del portamento, Cary Grant. Ha peraltro i capelli corvini da meridionale lucidi di brillantina, lo sguardo profondo che talora si accende in un sorriso svagato e malizioso come esigono i trascorsi da studente borghese e amateur che ha al suo attivo una medaglia di bronzo conquistata con i dilettanti della Danimarca alle Olimpiadi londinesi del 1948. Gioca all'ala sinistra ma è un destro naturale che parte da lontano e si accentra, incrociando, per concludere a rete: il suo tocco è morbido senza essere lezioso, allo scatto preferisce l'affondo, irresistibile nelle progressioni che preludono al tiro, di solito da fuori o dal limite dell'area. Arriva alla Juventus nel '49, dopo il disastro di Superga, e vi rimane sette anni per complessive 232 presenze (cui vanno aggiunte, prima del ritiro, comparsate nella Lazio del '56-'57, quella di Lovati, Tozzi e Selmosson).
Praest è un'ala di estri così intermittenti da sembrare saturnini, egli si estranea dalla gara e ama rientrarvi con gesti tecnici inauditi e gol che passano alla storia, come quello (dei complessivi 51) che segna a Giorgio Ghezzi, il giorno dell'Epifania '52 dopo avere dribblato in contropiede mezza squadra dell'Inter. La Juve in cui gioca (e con quale vince gli scudetti del '50 e del '52) è nel ricordo di Gianni Brera la squadra più forte del decennio, una compagine di valore mondiale. Due registi ne organizzano il gioco: in difesa Carlo Parola, centromediano metodista di classico stile, l'uomo della rovesciata arcangelica poi immortalata nell'Album Panini, retrocesso con l'età a battitore libero di fianco ad un coriaceo cremonese, Giacomo Mari; in mezzo al campo, viceversa, sta un vero e proprio hombre orquestra, l'oriundo italo-argentino Rinaldo Fioravante Martino detto «zampa di velluto» sia per le stoccate sotto porta sia per i lanci al millimetro, fendenti liftati di decine di metri alla cui precisione cooperano specialissime scarpe di vacchetta presto divenute leggendarie: ricevono a memoria le giocate di Martino due incursori centrali (l'ancora imberbe centravanti Giampiero Boniperti e John Hansen, intemo danese dal fisico possente) come le due ali, il minuscolo Ermes Muccinelli, che torna volentieri in copertura, e l'amletico Praest.
Praest ovviamente non sa che in gradinata, al Comunale di Torino, tra cumuli di neve secca e il flato di nebbie residue, è seduto Salvatore Bruno, un giornalista del “Nuovo Corriere” (il quotidiano fiorentino di orientamento comunista diretto da Romano Bilenchi), tanto meno sospetta che costui dieci anni dopo, nel suo unico romanzo L'allenatore (Vallecchi 1963, poi Baldini & Castoldi 2003), narrerà di quel gol nei termini dell'epica. Bruno è quasi un doppio mediterraneo del campione danese: nato a Presicce (Lecce) nel 1923, ha studiato lettere a Firenze con Giuseppe De Robertis senza mai laurearsi, è entrato nella Resistenza e nel dopoguerra ha lavorato al “Nuovo Corriere”, un foglio che per più di un motivo anticipa stile e tematiche del “manifesto”. Chiuso il giornale manu militari dal Pci, nel '56 dopo i fatti di Poznan e un duro editoriale antistalinista di Bilenchi, Bruno si trasferisce a Roma e vive di collaborazioni saltuarie a “l'Espresso”, “Il Campione”, “Settimo Giorno”, al periodico Eni “Il Gatto selvatico” e al “Giornale Radio” (testate per le quali redige, spesso sotto pseudonimo, articoli sportivi e cronache calcistiche di recente rinvenute, a decine, da Daniele Greco, un giovane ricercatore che sta allestendo la sua biografia).
Scuro di incarnato e capelli, Bruno è un uomo indocile e insofferente di qualunque cosa attenti alla sua libertà intellettuale e ai suoi privatissimi loisir. Le donne lo adorano, ne sono attratte, sedotte e insieme infastidite, infine respinte dai suoi perpetui moti di fuga e sottrazione. Intorno a lui impazza la cosiddetta Dolce Vita, di cui però non sembra accorgersi mentre scruta viceversa, nel mutismo che ne acuisce la facoltà di osservazione, mode e rituali del neonato Miracolo economico. La sua esistenza si riduce ai pochi metri che congiungono il Bar Rosati a Piazza del Popolo, una mansarda in cima a via Frattina e il tavolo ad angolo di «Cesaretto», in via della Croce, dove gli spetta il famoso tovagliolo degli avventori quotidiani, appannaggio di pochissimi. Tra le rare foto che gli sopravvivono, per lo più scattate dall'amico Mario Dondero, lo si vede appunto a tavola da «Cesaretto» dove riceve i suoi amici, artisti e scrittori che gli riconoscono il grande talento come l'assoluta, straordinaria in un simile ambiente, mancanza di invidia: costoro si chiamano, fra gli altri, Elio Pagliarani, Enzo Siciliano, Ennio Flaiano, Sandro De Feo, Giovanni Russo, Manlio Cancogni e Cesare Garboli.
Tutti sanno che Bruno sta scrivendo un romanzo, anzi il suo romanzo, in clandestinità ma non sanno davvero di che cosa si tratti. Fatto sta che quasi glielo strappano di mano e il libro, mentore il maestro Bilenchi, esce immediatamente da Vallecchi in una collana diretta da Geno Pampaioni e dal giovanissimo Garboli che ne scrive lo splendido risvolto di copertina dove parla di «un insolito gioco, storia e insieme interpretazione analitica di uno strano adulterio non consumato». L'allenatore non allude infatti a un tecnico di calcio ma a un individuo chiuso, intransitivo, che sembra aprirsi all'universo femminile solo nelle pause della passione ben altrimenti declinata e consacrata ad un'unica donna (signora padrona per etimologia), nientemeno la Juventus. Di segno deliberatamente autobiografico, scritto in prima persona e scandito in monologhi che lo stesso Bruno definisce esteriori (per distinguerli dalla moda joyciana), L'allenatore è il romanzo di un apprendistato che va a vuoto, è la storia apertamente bovaristica, virata al maschile, di qualcuno che ambisce alla totalità dell'esperienza ma accede solamente a una parzialità delusiva, e cioè surrogatoria, fantasmatica: il protagonista non attinge la pienezza del senso (vale a dire la storia d'amore) ma ricade, a cadenza coatta, nella passione infera del tifo.
I flash che costellano il romanzo (la Juve del quinquennio anni trenta vista da bambino allo stadio di Bari, le serpentine di Praest, le impennate di Omar Sivori, cui il romanzo è addirittura dedicato) sono perciò necessarie compensazioni o superstizioni di un'inesistenza che va in folle, svuotata e del tutto reificata nel mare di merci che viene intanto accumulando il Boom economico. Tra i romanzi più intensi e compiuti del decennio, il significato de L’allenatore viene colto nel profondo da una lettera che Ennio Flaiano scrive a Bruno il 15 dicembre del '63 (ora in Soltanto le parole: lettere di e a Ennio Flaiano, a cura di Anna Longoni e Diana Ruesch, Bompiani 1995): «Il tuo libro ha questa bellezza, che pur essendo il frutto di un'intelligenza felice, mortificata dalle circostanze, dal carattere, da un certo bisogno di auto-distruzione, è un'ultima ricerca di verità. E l'unica verità che in fondo ti interessa è la verità di te stesso, il bisogno di conoscere la trappola in cui sei caduto (parlo di trappola esistenziale) che cosa significhi». In fondo ad ogni trappola che il protagonista prepara a se stesso c'è soltanto disamore, fuga, autismo psicologico ma nello stesso tempo lì resiste un filo di fedeltà infantile, un incanto che può sembrare simile alla poesia.
«Ma lasciatemi in pace stasera non esisto sono solo con il sol di Praest il sol dei sol c’è l’infinito Praest che avanza palla al piede verso la porta dell’Inter»
Ed è la poesia che si sorprende infatti ad invocare o impunemente a reclamare nel delirio insonne, mentre sta rammemorando il gol di Praest all'Inter nel '52: «... ma lasciatemi in pace stasera non esisto sono solo con il gol di Praest il gol dei gol c'è l'infinito Praest che avanza palla al piede verso la porta dell'Inter lui solo contro mezza squadra quattro cinque avversari distrutti annullati tutti ai suoi piedi cancellati cinquanta metri percorsi da solo il pallone dolcemente teneramente guidato dal suo magico piede l'inarrestabile Praest da metà campo fino alla porta dell'Inter mediani terzini portiere gli vanno incontro a turno e non lo ferma nessuno chi può fermarlo? è Praest della Juventus mia per favore ditemi che è poesia».
Per entrambi i fuoriclasse, narratore e narratario, questo è poco più di un lampo, un fuoco fatuo che già annuncia il principio della fine. All'uscita del romanzo, da tempo Praest è a Copenaghen dove lo attendono decenni di paradiso socialdemocratico, un'esistenza borghese e lontana dal clamore. Al contrario, il silenzio ulteriore di Bruno ha qualcosa di sinistro, tellurico, autodistruttivo, come Flaiano ha perfettamente intuito. Bruno si sposa, si separa, poi fugge da Roma e toma pressoché in incognito a Presicce, murandosi in una reclusione accidiosamente autopunitiva. Dopo L'allenatore non ha scritto un rigo e a chi gliene chiede qualcosa magari proponendo una ristampa risponde, sorpreso e persino seccato, che il romanzo ormai sta bene nel suo loculo. Confessa agli amici che passa tutto il tempo a leggere e rileggere Dostoevskij e Celine. Lo si vede soltanto di prima mattina al bar del paese mentre sfoglia indifferente “Tuttosport”. Muore a settantotto anni, in solitudine, all'ospedale «Petrucciani» di Lecce il 18 marzo del 2001.
All'indomani, i giornali riferiscono della scomparsa di Salvatore Bruno in tre righe d'agenzia, lo stesso trattamento che è stato riservato, dieci anni dopo, a Karl Aage Praest. Del resto, c'è uno stalinismo che non è mai morto, oggi di senso comune, lo stesso che in letteratura ha sempre prediletto gli «ingegneri delle anime» e nel calcio gli atleti formattati, se possibile clonati. Da tempo i fuoriclasse non sono più di moda.

"alias - il manifesto", 28 gennaio 2012 

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