12.8.16

Una pensione (Adele Cambria)

Riprendo dal sito della Biblioteca Gino Bianco una pagina curiosa, un articolo di una eccellente giornalista (sarebbe poi diventata voce importante del nuovo femminismo) che è insieme intervista, denuncia, cronaca: intervista a una donna, una poetessa, testimone del proprio tempo tra le più importanti; denuncia della condizione d'indigenza in cui costei vive; cronaca di una iniziativa parlamentare. Un pezzo da leggere, anche per meglio afferrare certe sgradevoli continuità nella storia italiana. (S.L.L.)

La prima volta che l’ho vista beveva uova, mi sembra, su un palcoscenico romano: il pianista Federico Rezweski s’abbatteva, con i gomiti ossuti, le nude braccia pallide, sulla tastiera di un pianoforte: questo movimento, nella musica gestaltica, si chiama closter, non è una novità, l’hanno inventato nel 1912. Una ragazza americana - fibre sintetiche i suoi capelli ed il compatto deterso tessuto della carnagione - emetteva, ed era una sorpresa, brevi suoni cristallini, come sfaccettature di paradisiache vetrate, a suggerire chiese medioevali, il blu degli affreschi, l’oro di angeli trafitti dal primo sole. Un’altra volta, questa ragazza l’avevo sentita cantare musica sacra all’oratorio del Gonfalone. Ora l’avevano legata su una branda di metallo e la scagliavano, dal palcoscenico, in platea. Ed Amelia Rosselli continuava a bere uova, mi sembra. Nemmeno lei se lo ricorda bene. Sa che ha partecipato, con i musicisti Daniele Paris, Silvano Bussotti ed altri, allo spettacolo che io avevo visto, inserito nella Settimana della Musica d’avanguardia.
Amelia Rosselli scrive poesie: un suo libro, Variazioni belliche, è stato già stampato, ed un altro uscirà, che avrà forse per titolo Serie Ospedaliera, ed un altro ancora a New York: Sleep. Amelia aveva sette anni quando le hanno ucciso il padre, Carlo, a Bagnole-sur-I’Orne. L’impressione, conoscendola di più, leggendo le parole che scrive, è di una che dilapidi, con il pudore delle persone civilmente educate, la sua giovinezza: altri, i fascisti del servizio segreto del Sim, le hanno frantumato gli anni di bambina.
«Mi ricordo di mio padre - dice - come di un uomo pieno di salute e di calore. Non ho idea di come ce la facevamo, a Parigi, a tirare avanti con i soldi: mio padre dirigeva un giornale antifascista, scriveva, ma, a proposito, soltanto ora un editore italiano ha deciso di pubblicare un suo libro "Socialismo liberale e scritti di politica generale”. Ricordo che a Parigi mia madre era già malata. Era incinta di me quando dovettero fuggire in Francia».
Ora anche Amelia è malata, ha avuto una meningite da virus, ha speso tutti i soldi che le erano rimasti della famiglia - la grande casa fiorentina governata dalla nonna Amelia, dove si riunivano gli antifascisti - per curarsi: per non guarire. «Cerco la durata delle sicurezze, ma l’orologio, il numero - ha asfissiato la mia bellezza... Lavarsi mangiare vestirsi senza fiducia. Grossolana platea... Attivismo delle fanciulle in fiore». Le domando perché non abita in Inghilterra, con i due fratelli; la madre, Marion, è morta di cuore in un ospedale di Londra. («Madre dagli occhi sconvolti – il blu papale delle tue gote, tende di Dio...»). «Io sono venuta a Roma - dice Amelia - nel ‘50. Quel poco di radici che ho, ormai le ho qui. Non posso andarmene». Ha scritto, in un’altra poesia: «Le rondinelle giocavano molto dolcemente al disopra - dei tetti di Trastevere ma io non vedevo altro che il Paradiso. Sopra del Paradiso stavano le Sette Sante. Oltre il Paradiso - custodiva le sue pecore una vecchia comare che non portava - altro attorno al collo che le sue povere fibre...». Il diritto alle radici. Il primo viaggio fatto per mare, da Le Havre a New York: «...Le pallide ombre - di un meriggio lontano dove il sole caschi non quieto - ma non turbato...». Andavano per mare con la nonna Amelia che guidava la truppa di nuore, nipoti. La nonna d’origine austriaca, ebrea, nata a Venezia: scriveva commedie in dialetto, Topino garzon di bottega, Anima, El refolo, che furono per anni - gli anni antichi di prima della guerra mondiale - nel repertorio delle compagnie di giro. Le era morto un figlio, in guerra: e il marito, musicista.
Nel giugno del ‘37, l’assassinio di Carlo e di Nello. «La cosa più importante che aveva - dice Amelia Rosselli - era una gran dignità delicata negli occhi molto chiari... Celesti. Io ho i suoi occhi, il colore voglio dire...». Amelia si rattrappisce, come difendendosi dal confronto con la nonna: «bellissima da giovane, bellissima da vecchia».
È vestita a righe, con una maglia leggera per la stagione, gli occhi nuvolosi acquatici nella faccia gonfiata, sgonfiata dalla malattia. Ora c’è questo fatto, hanno proposto una pensione per lei, in Senato: Ferruccio Parri, Eugenio Artom, Carlo Levi, Emilio Lussu, Fernando Schiavetti, Giuliana Nenni, Umberto Terracini. Amelia ha il ritaglio del giornale nella borsa. Chiedono seicentomila lire all’anno. «...Carlo Rosselli profuse nella lotta antifascista tutta la sua sostanza, la Repubblica italiana non farà che assolvere, in forma assai modesta, il debito di riconoscenza che ha verso una delle figure più luminose del nostro secondo Risorgimento...». «Ma ora come vive?». «Affitto una stanza, ho una rendita di cinquantamila lire al mese, quando stavo bene davo lezioni di lingue». Amelia parla di sé come di un’altra persona che non abbia soldi e, in più, malata. Dal patetismo della notizia di cronaca - povertà, malattia - esce monda. Perché si chiama Rosselli, e per il suo coraggio di perdersi–non perdersi in un angolo di palcoscenico a bere uova, e la lealtà di scrivere «Combiniamo menzogne - e fragili riviste d’avanguardia costose - come le ambizioni che esse proteggono...»: e di nuovo il coraggio contabile, contare le ore utili che ruba alla malattia, «una, due al giorno, prima dell’emicrania», per scrivere.
La mattina, in ospedale: «Un sole celeste una irrorazione di grumi di cristallo - mattino presto, la luce non s’è spenta: quartieri traboccanti - di senilità, la lavandaia con il cesto ma le sue spalle - tremano... Rosso il malore, se la tua testa sonnecchia». E il coraggio finale di strappare in quattro pezzi il foglio della fatica, quando la poesia è brutta.
L’infanzia americana, Max Ascoli che aiutava tutti i Rosselli, e il ritorno a Firenze nel 1946: «Perché era logico tornare... No, non credo che abbiano avuto delusioni, i grandi. Io avevo sedici anni. Non credo che abbiano avuto delusioni subito. Ricominciarono i té di nonna Amelia nella casa di Via Giusti... Mia madre, inglese, era naturale che tornasse in Inghilterra. Per ragioni anche pratiche, la scuola per noi, per esempio. Non avevamo soldi. Mio fratello Andrea di giorno faceva il meccanico, la sera studiava ingegneria, ora è un ingegnere bravissimo, ed un laburista arrabbiato. John aveva vinto una borsa di studio a Cambridge, ha fatto il giornalista nel Manchester Guardian, ora è professore di storia a Brighton. Una scuola nuova, con un insegnamento di tipo sperimentale. Una volta John mi ha detto: "Non tornerò mai in Italia” ed una delle ragioni, credo, è che non potrebbe sopportare di chiamarsi Rosselli in Italia, nemmeno di avere idee politiche in Italia. Ne abbiamo parlato una volta sola... Io in vece ho provato. Sono stata iscritta due anni al Pci, poi basta. Ma non vuol dire niente... ».
In Inghilterra, Amelia ha studiato musica: è diplomata in violino e composizione, teoria della composizione. «Nessuno degli strumenti tradizionali può dare il suono puro. Il suono incorruttibile dall’uomo. Si deve inventare altro: e la base è lo strumento elettronico. Io ho cominciato a fare una cosa, uno strumento...». Dopo l’endovenosa del mattino, prima dell’emicrania.


“Il Mondo”, 14 dicembre 1965

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