28.8.16

Conversazioni con Thomas Mann. Un incontro a Roma (Ranuccio Bianchi Bandinelli)

Thomas Mann nel 1947
Con vera gioia ho letto un libro comprato tanti anni fa, sfogliato superficialmente e poi rimasto lì, in attesa: Thomas Mann, Conversazioni 1909-1955, Editori Riuniti 1986. L'intitolazione del volume potrebbe però trarre in inganno. Non si tratta di un libro ideato e costruito da Thomas Mann e solo in piccola parte esso è composto da suoi scritti: è una raccolta soprattutto di interviste allo scrittore tedesco (non sempre nella forma della domanda e risposta, ma più spesso in quella libera del “colloquio”), cui si aggiungono alcune cronache giornalistiche, dichiarazioni alla stampa, stralci di conferenze o discorsi, scelti da due studiosi tedeschi, Volkmar Hansen e Gert Heine, con l'aggiunta nell'edizione italiana curata da Saverio Vertone delle interviste (o di altre forme di “conversazione”) pubblicate in Italia e non comprese nell'edizione originale. L'immagine dello scrittore, trascinato talora in terreni che non gli sono abituali e neanche congeniali (le mode letterarie, artistiche e culturali, per esempio, o la politica politicante), non risulta affatto rimpicciolita dalle ingenuità o da certe ottimistiche previsioni (illusioni) come quella sulla breve durata del successo hitleriano e nazista o da alcune infondate manifestazioni di fiducia (verso Hindemburg e la borghesia tedesca, per esempio). Risalta invece il suo radicale umanesimo, conservatore forse, ma coerente, tollerante e problematico.
Il brano che ho ripreso è la cronaca, redatta da Ranuccio Bianchi Bandinelli, di un incontro romano in occasione della consegna a Mann di uno speciale premio dell'Accademia dei Lincei. Vi si legge la distanza dello scrittore, francamente avverso al sistema comunista ma mai settario, dalle polemiche della piccola politica e dalle conventicole intellettuali italiane ed europee. Vi si legge anche l'intelligenza e l'apertura del “barone rosso” Ranuccio Bianchi Bandinelli, il grande archeologo di origine aristocratica, che al tempo era comunista e piuttosto stalinista come erano i comunisti di quel tempo. L'impressione è che - nonostante le durezze della guerra fredda (in Usa non era finito il “maccartismo” e in URSS s'era appena avviato il “disgelo”) e tutte le meschinità di singoli, gruppi e gruppetti – reggesse, almeno nei migliori, il senso di una comunità intellettuale cosmopolita, dialogante e pluralista. (S.L.L.)
Ranuccio Bianchi Bandinelli nel 1947
Quando venne il turno che l'Accademia doveva conferire, per la prima volta, un premio internazionale di Letteratura, Luigi Russo ed io, all'insaputa uno dell'altro, proponemmo il nome di Thomas Mann. La commissione nominata per il conferimento del premio, scegliendo fra le varie proposte, si fermò sulla nostra e Francesco Flora fu incaricato di stendere la relazione, che risultò un elevato omaggio di gratitudine al genio dello scrittore, alla feconda invenzione delle sue creazioni e a quel suo essersi saputo porre al di sopra delle ideologie per cercare di dire a tutti la parola di libertà interiore e di responsabilità dell'essere uomo, nel che risiede il più profondo ufficio del grande intellettuale. (Mancò forse soltanto, e sembra strano, un apprezzamento delle straordinarie sue qualità di stilista.)
Thomas Mann senti altamente il valore e il significato di quell'omaggio; lasciamo pure tutto il suo onore a Stoccolma, mi scrisse alludendo al suo premio Nobel; ma ricevere un premio da Roma, sede di cosi alte tradizioni, commuove ben diversamente. E quando poi venne a Roma per ringraziare i Lincei, mentre lo accompagnavo alla Farnesina, vi era in lui quasi una trepidazione e un'attesa di una solennità particolare.
Tutto si risolse, invece, in un rinfresco. Le uniche parole solenni furon pronunciate fuori programma e su richiesta della televisione svizzera. Per una esigenza tecnica furon ripetute due volte. (Difficoltà, nell'Italia ufficiale, di esser solenni senza retorica, per cui, rifuggendo finalmente dalla retorica, si rinunzia alla solennità.)
Attorno a Thomas Mann si eran messe in moto tutte le rivalità del cosiddetto mondo intellettuale romano: attriti fra editori, urti di tendenze politiche e ambizioni di salottini letterari. Le accoglienze liete che erano state fatte al grande scrittore dalla stampa di sinistra turbarono il sonno a certi ambienti. Un giovane prelato americano sconosciuto andò a far visita a Mann e si mostrò, nei suoi discorsi con lui, straordinariamente inclinato a sinistra, molto più in là di quanto fosse disposto ad andare lo scrittore stesso. Il quale aveva chiesta una udienza al papa.
Per fortuna, Thomas Mann restava, con la sua felicità di nordico di trovarsi a Roma, e con la sua purezza intellettuale, tanto al disopra di questi giuochi, da non restarne turbato. Ma, per quanto personalmente mi riguarda, essi mi avvelenarono completamente quei giorni e, per non esserne né sembrarne partecipe, mi inibirono ogni conversazione impegnativa. Meno male che c'era l'archeologia. E le pitture del giardino della villa di Livia, da poco trasferite alle terme di Diocleziano, così diverse dal solito repertorio decorativo pompeiano, ci dettero modo di avviare un goethiano discorso sull'elemento romantico nell'arte antica, dove il meschino Eckermann ch'io mi sentivo ebbe ancora una volta modo di porsi interiormente il problema del perché il meglio dello spirito germanico debba sempre trovarsi in quei tedeschi che son riusciti a vedere la propria cultura nazionale non più dal didentro ma dal difuori.
Erano queste, o di questa natura, le cose che io avrei voluto discutere, se ogni parola non avesse potuto, in quelle circostanze, prender aspetto di agguato. Mann dovette sentire questo mio riserbo. «Non abbiamo poi avuto modo di parlare delle cose che ci stanno più a cuore, e sulle quali ci saremmo trovati, per molta parte, d'accordo», furono le sue parole di saluto.

Postilla
Il brano fu originariamente pubblicato da “Il Contemporaneo”, il 4 giugno 1955. Thomas Mann era stato a Roma per ricevere il premio dei Lincei dal 20 alla fine di aprile del 1953. 

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