26.5.16

Umberto Eco in difesa del liceo classico

“La Stampa” ha pubblicato di recente ampi stralci di un inedito di Umberto Eco che qui riprendo. L'intellettuale scomparso qualche mese fa – pur non negando la necessità di qualche ammodernamento – considera la cultura classico-umanistica e la scuola che più delle altre la promuove fondamentale non solo per approfondire gli studi umanistici ma anche per quelli scientifici, per la difesa del pianeta e per non perdere le guerre. (S.L.L.)
Umberto Eco, funzionario RAI negli anni 50
Il liceo classico, così come l’ho seguito io, era nato dalla riforma Gentile e Gentile era un idealista che aveva poca fiducia nelle scienze e riteneva che una classe dirigente dovesse avere una cultura eminentemente umanistica. Perciò il liceo classico ha meno ore di materie scientifiche del liceo scientifico, riservato da Gentile a una classe non dirigente ma esecutiva. E il classico era talmente importante che con una maturità classica si poteva anche iscriversi a ingegneria, mentre con una maturità scientifica era impedito l’accesso a facoltà nobili come quella di filosofia, e per un lungo periodo a giurisprudenza, per non parlare della filologia greca. Non essendo dedicato a professionisti della pratica, il classico non aveva insegnamenti di lingue, salvo nei due anni di ginnasio. Infine, bizzarria apparentemente inspiegabile, il classico dedicava pochissimo tempo alla storia dell’arte, forse perché né Croce né Gentile, le due autorità nel campo dell’estetica, avevano dimestichezza con le arti visive. [...] E non parlo dell’attenzione, all’inizio nulla e comunque scarsa, dedicata alla musica e alla cultura musicale in genere.
Qualcosa che non va
Come si guadagnerebbero spazio e tempo per le scienze, le lingue e, se volete, l’arte, che oggi si può studiare su splendide riproduzioni disponibili on line? Riducendo per esempio alcune ore di latino. I maturandi dei miei tempi uscivano dal classico senza essere capaci, in genere, di leggere Orazio a prima vista, e talora neppure un’epigrafe su un monumento antico, per non dire una enciclica. C’è dunque qualcosa che non va nel modo in cui il latino viene insegnato. Per esempio si fanno esercizi certo indispensabili sui grandi autori della latinità, ma non si prova mai a dialogare in un latino elementare, come facevano i dotti europei sino a pochissimo tempo fa.
Il maturando classico non deve necessariamente diventare latinista (a questo ci pensa l’università), ma deve essere in grado di capire che cosa è stata la civiltà romana, identificare le etimologie, capire le radici latine (e greche) di molti termini scientifici; e questo lo si può ottenere evitando esercizi faticosi sui classici e magari abituandosi a leggere il latino ecclesiastico e medievale, molto più facile e familiare. E, introducendo insegnamenti di almeno una lingua straniera, si potrebbe mostrare - faccio due esempi - come e perché la lingua inglese ha, accanto ai termini anglosassoni, tanti termini di origine latina, o le differenze tra la sintassi del latino e la sintassi tedesca. [...]
Una volta riconosciute le mende dell’educazione classica (anche se uno studio delle varie riforme successive potrebbe ritenerle in parte attenuate), permettetemi ora di dimostrare come essa sia fondamentale non solo per chi all’università vorrà occuparsi di filologia greca o di filosofia, ma anche per chi si dedichi a studi scientifici.

Il generale latinista
Vorrei citare due episodi. Nel 1843 il generale inglese Sir Charles Napier fu mandato in India per reprimere una rivolta nella regione del Sind. Quando ebbe vinto, inviò al quartier generale di Londra un dispaccio che diceva «Peccavi ». Al quartier generale furono pronti a tradurlo come «I have sinned» – frase che pronunciata suonava come «I have Sind». Questo significa che gli ufficiali dell’esercito che aveva sconfitto Napoleone e aveva conquistato un immenso impero, evidentemente competenti in artiglieria, strategia e altre tecnicalità, avevano però una profonda cultura umanistica - ed è lecito chiederci se questa cultura non li avesse resi capaci, in parte, dei loro successi militari.
Altro esempio. Spostiamoci da Londra a Ivrea negli anni Cinquanta e Sessanta. Quando Adriano Olivetti, proprio mentre passava dalla produzione di macchine da scrivere a quella dei computer, assumeva ovviamente ingegneri e i primi geni dell’informatica. Questi ingegneri, dopo aver costruito il primo computer, l’Elea (e il nome, credo, era stato inventato da un poeta, Franco Fortini), avevano perso, racconta la leggenda, non so se settimane o mesi per far sì che l’Elea suonasse le note del Ponte sul fiume Kwai: segno che avevano una certa fantasia umanistica. Ma Olivetti faceva di più: assumeva anche brillanti laureati in materie umanistiche (che magari avevano fatto una tesi su Senofonte, ma da centodieci e lode), li mandava sei mesi a lavorare in fabbrica perché capissero che cos’era un’industria, e poi li immetteva in qualche attività aziendale.

Hitler bocciato in storia
Specie pensando alla nascente informatica Olivetti aveva capito che sono indispensabili gli ingegneri per concepire l’hardware, ma che per inventare il software occorreva una mente educata sulle avventure della creatività, esercitatasi su letteratura e filosofia.
Appena ho avuto in mano un personal computer (credo fosse l’M20, con il sistema operativo Picos, e solo dopo col Dos) mi sono divertito a programmare in basic, che ho imparato in pochi giorni, un sistema per produrre tutti i sillogismi classici (Barbara, Celarent, Darii, Ferio ecc.). E questo l’ho potuto fare perché, trovandomi davanti a istruzioni come «if... then», mi ricordavo della logica stoica («se... allora») e avevo studiato il sillogismo aristotelico. [...]
Ma non penso solo all’informatica. Come si può pensare alla difesa del pianeta senza avere alle spalle nozioni sulla storia della Terra, sulla vicenda di tante inondazioni storiche, sulla morte dei dinosauri, per non dire nozioni di etica? Quando Hitler ha deciso di invadere la Russia aveva presenti i risultati della storiografia sull’invasione napoleonica? Certamente no, altrimenti avrebbe saputo che, per quanto la guerra fosse lampo, prima di arrivare a Mosca avrebbe dovuto fare i conti con l’inverno. E quando Bush ha deciso di invadere l’Afghanistan aveva letto la letteratura storica sul Grande Gioco e sul modo in cui nell’Ottocento sia i russi che gli inglesi non avevano e non avrebbero mai potuto conquistare quel paese a causa della sua orografia e delle sue divisioni tribali?
Avere un’educazione classica significa anche saper fare i conti con la storia e con la memoria. La tecnologia sa vivere solo nel presente e dimentica sempre più la dimensione storica. Quello che ci racconta Tucidide sulla vicenda degli Ateniesi e dei Meli serve ancora a capire molte vicende della politica contemporanea.
D’altra parte i grandi scienziati - penso a Einstein o a Heisenberg - avevano una solida cultura filosofica alle spalle, e per sapere se si ha o no a che fare con un Dio che gioca a dadi, bisogna non solo conoscere la fisica ma anche, persino, la teologia, o almeno i grandi dibattiti che hanno affannato la cultura occidentale per più di duemila anni. E vorrei ricordare lo scomparso ex rettore di Bologna, Pier Ugo Calzolari, che per qualche anno avevamo invitato a tenere corsi di informatica per la laurea in scienze della comunicazione, e rendeva i suoi concetti accessibili con esempi tratti dalla poesia, collegando mirabilmente Dante alla flow chart.

Riformare ma conservare
Certamente un genio della fisica può farsi una cultura umanistica da solo, leggendo molti libri, ma questa sarebbe una soluzione aristocratica. Chi può dare le informazioni giuste non al grande genio ma al modesto manovale della fisica? Come accade oggi negli Stati Uniti e sta accadendo sempre più nel mondo, ne nascono sacche di iperspecializzazione, dove l’esperto di malattie rare non sa più curare un raffreddore e ha dimenticato la visione globale del corpo umano che ci aveva insegnato Vesalio. Pertanto una buona educazione classica è fondamentale per rendere inventivo e fecondo anche l’universo della ricerca scientifica e tecnologica.
Riformiamo dunque, ma conserviamo il liceo classico perché consente di immaginare quello che non è stato ancora immaginato; e questo distingue il grande architetto dal più modesto dei geometri. Al quale peraltro una riflessione su Euclide potrebbe rendere la sua attività più appassionante e creativa.

Penso a un liceo umanistico-scientifico dove bisognerà sì insegnare il teorema di Pitagora, ma anche le idee di Pitagora sulla teoria delle sfere e il suo terrore dell’infinito.

"La Stampa", 6 maggio 2016  

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