11.5.16

Non celebriamo Pavese (Claudio Gorlier)

Cesare Pavese al mare
Vorrei immodestamente aggiungere un sintetico codice alla sintetica frase lasciata da Cesare Pavese al momento di scomparire («Non fate troppi pettegolezzi»): non fate troppe commemorazioni. A un secolo dalla nascita, a cinquantotto anni dalla morte, la vitalità della figura, dell'opera di Pavese sono intatte, e penso che lo dimostreranno le iniziative del Grinzane Cavour, tutt'altro che commemorative nella loro operatività.
Pavese aveva ventotto anni nel 1936, con la dolorosa esperienza del confino, quando apparvero le poesie di Lavorare stanca. Un autore sconosciuto, situato nella periferia piemontese, di colpo appariva in scena con un libro che proponeva un tematica imperiosamente anche se misuratamente nuova, e soprattutto un linguaggio nuovo nel contesto letterario italiano. Non se ne avvidero in molti, al momento. Già con Lavorare stanca metteva a frutto, senza lasciarsene condizionare, liberamente, le sue frequentazioni letterarie, emerse nella sua tesi di laurea su un poeta americano vigorosamente sperimentale, Walt Whitman. Il canonico, timoroso professor Federico Olivero si era rifiutato di discuterla, affidando l'incarico al collega, prestigioso francesista e comparatista, Ferdinando Neri. Ma Pavese aveva saputo mettere a frutto la sua esperienza universitaria, facendo tesoro dell'insegnamento di alcuni maestri, come Santorre Debenedetti, il grande filologo romanzo - zio di Cesare Segre - di cui frequentai io stesso le lezioni e che Pavese un giorno, ricordandolo con me, definì «un gentiluomo del Settecento». Nel segno, ma non nella passiva dipendenza, dei modelli americani Pavese esordì in narrativa, con Paesi tuoi. Siamo nel 1941, anni feroci della guerra, che arriva fino a Torino con i bombardamenti aerei, e il romanzo di Pavese rompe con una tradizione narrativa a suo modo cifrata, autoreferenziale, per misurarsi con un realismo intriso del senso del luogo e della condizione umana.
La originale misura narrativa di Pavese lieviterà in modo decisivo subito a ridosso della guerra, periodo vissuto da lui dolorosamente, non senza un introiettato rimpianto per una sorta di mancata militanza, a differenza di vecchi amici. Feria d'agosto, del 1946, rivela pienamente la statura del narratore, tra quotidianità, mito, senso del luogo, rivelato e insieme trasceso. Nel 1950, La luna e i falò arricchira' sin dal titolo - i titoli di Pavese sono di per se' memorabili - questa dimensione. Sempre alla fine del decennio, ecco due capolavori assoluti come Prima che il gallo canti e La bella estate.
Dobbiamo rammentare, a questo punto, due esperienze cruciali. Una è quella dell'attività editoriale (l'espressione risulta inadeguata) presso la casa editrice Einaudi; l'altra il tormentato impegno politico. Promuove iniziative, suggerisce titoli da pubblicare, avvia collane di assoluta novità, come nel campo scientifico, per così dire abitato con profonda curiosità e viva competenza. Del resto, emerge la personalità del saggista, rigoroso non meno che creativo, come in I dialoghi con Leucò. L'adesione, ma direi meglio la vicinanza, con il Partito Comunista ignora ogni dogmatismo partecipatorio. Non era davvero uomo di partito. Una volta, durante l'intervallo di un incontro culturale presso la sezione «Gramsci» di Torino del Partito Comunista, mi confessò che lo frequentava il meno possibile. «Temo», mi disse sorridendo, «che mi chiedano di andare ad attaccare i manifesti». Del resto, sussisteva in lui un senso che definirei di trascendenza, rispetto a un mero concetto di realtà diretta; di qui la vicinanza a «Cultura e realtà».
Va da se' la frequentazione con la cultura americana. Ecco, naturalmente, la centralità del Pavese traduttore degli americani, anch'essa strettamente radicata nella creatività, pur se in una agguerrita dimensione filologica. Al vertice si colloca, naturalmente, Moby Dick di Herman Melville, in cui Pavese si rispecchia, direi si ripercorre. Non voglio indugiare in un elenco, ma vorrei sottolineare, su un altro versante, The Hamlet, Il Borgo, di William Faulkner, romanzo che davvero ci consegna una sorta di Langa americana, padroneggiata dal langarolo Pavese. Ricordo le telefonate in cui mi parlava delle sue scoperte e con discrezione ne disapprovava qualcuna mia. La raccolta impareggiabile di saggi sulla letteratura americana, apparsa postuma nel 1951 (La letteratura americana e altri saggi) approfondisce l'illuminante immagine pavesiana dell'America come palcoscenico ove si recita la commedia di tutti. Pavese si convinse poi che la grande stagione americana fosse ormai all'epilogo, e qui devo dire che si trattava in larga misura di un rispecchiamento esistenziale, quello che incontriamo nelle pagine diaristiche di Il mestiere di vivere o nelle poesie di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. I tardivi riconoscimenti, come il premio Strega, impallidivano. Ma attenzione: la scelta di morire non fu né romantica, né melodrammatica, né disperata. Si trattò autenticamente di un congedo. Per questo parliamo di lui, con lui, e non lo celebriamo.


“La Stampa”, 31 agosto 2008  

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