11.5.16

Bolzano e la trama molteplice del calcolo (Franco Voltaggio)

Bernard Nepomuk Bolzano (Praga 1781-1848)
Nella primavera del 2001 mi trovavo a Praga. La città, gelida e bellissima, sembrava esser stata sottoposta, in previsione dell'arrivo di tanti turisti, soprattutto italiani, a una sorta di maquillage che la rendeva, se possibile, ancora più splendente. In pieno centro era stata allestita una piccola galleria dedicata a una delle glorie di Praga - ove era nato nel 1781 - Bernard Nepomuk Bolzano, sacerdote, matematico e filosofo che durante la «guerra fredda» era stato clamorosamente ignorato. Nonostante fosse, con Keplero, uno dei suoi cittadini eminenti, era considerato, in quegli anni, una personalità incompatibile con il regime vigente. Sue colpe «oggettive» l'origine italiana e, soprattutto, l'aver scritto sempre in tedesco. Ricordo ancora di aver trovato non poche difficoltà nel reperire, nel 1974, all'Ambasciata cecoslovacca di Roma una qualche immagine del personaggio (mi occorreva per la pubblicazione, per i tipi di Comunità, del mio libro, Bernard Bolzano e la dottrina della scienza, 1974). Da un funzionario dell'ambasciata mi era stato negato qualsiasi aiuto sulla scorta della considerazione che «Bolzano non è importante».
Oggi nella Repubblica Ceca è tutto cambiato e, dopo decenni di strategia della disattenzione, l'importanza di Bolzano nella cultura matematica e filosofica moderna è nuovamente riconosciuta. Naturalmente non credo sia il caso di unirsi al coro di quanti osannano la fine del socialismo reale in Boemia solo perché i Cechi hanno tratto dall'oblio Bolzano e, d'altronde, è destino dei dotti andare negletti per ragioni politiche sbagliate per essere, poi, per motivi altrettanto discutibili, riconosciuti. Ma di questo basta.
Le ragioni dell'attualità di Bolzano sono, comunque, davvero molte e bene ha fatto la Bollati Boringhieri nel riproporre la bella traduzione di Alberto Conte (Silva, Milano 1963) - cui seguì nel 1965, per i tipi di Feltrinelli, la versione di Carla Sborgi, rivista da Corrado Mangione e da chi scrive dei Paradoxien des Unendlichen (I paradossi dell'infinito, pp. 147, € 14). La prima di queste ragioni è ovviamente matematica. Nei Paradossi dell'infinito, pubblicati postumi nel 1851, Bolzano affronta decisamente una serie di «tormentoni» matematici secolari che concernono la possibilità di «contare l'infinito». In parte si tratta di vecchie contraddizioni che investono il concetto stesso di quantità che, per definizione ed essenza, rinvia, stando alla classica definizione di Eubulide di Mileto, a una «molteplicità determinata», dunque finita.
Si tratta, tuttavia, di contraddizioni in parte superate già da Leibniz, con la messa a punto dell'analisi infinitesimale, per il quale è comunque sempre possibile operare il calcolo, introducendo il concetto di limite, che non è propriamente una grandezza infinitesima, quanto piuttosto una funzione. È questa la ragione per cui Leibniz, in un luogo cruciale dei Nouveaux Essais, afferma, nella sua disputa con Locke, «Signore, non abbiate paura della 'tartaruga'- simbolo, dall'età di Zenone e del suo celebre paradosso dei due corridori (Achille e il lentissimo animale) - ché basta calcolare». Tuttavia, per molti aspetti, questo non basta. Innanzitutto, anche se sappiamo che una quantità è una molteplicità determinata, non sappiamo, tuttavia, che cosa sia una «molteplicità», né i sensi possono aiutarci granché, giacché, per dirla in modo forse un po' rozzo, non esiste in natura qualcosa che possa definirsi «molteplicità».
Oltre cinquant'anni prima della comparsa dei Paradossi dell'infinito, Kant aveva ritenuto di risolvere il problema, riconducendo il molteplice all'interno di due intuizioni non empiriche, ma pure e a priori, lo «spazio» e il «tempo», il cui contenuto, vuoto, perché precedente l'esperienza sensibile e concreta dei fenomeni, è quello, rispettivamente, della coesistenza degli elementi e della successione degli eventi. La soluzione del problema non parve però sufficiente a Bolzano, in parte perché non gli sembrava che l'approccio di fondo di Kant, la riconduzione delle due intuizioni «pure» al pensiero garantisse la necessaria indipendenza del concetto di molteplicità dall'esperienza sensibile, in parte anche, e soprattutto, perché l'intera operazione era matematicamente inservibile, dal momento che sapere come si forma l'idea di molteplicità non ci dice che cosa si debba intendere per molteplicità. Preferì valersi dell'antichissimo metodo matematico delle definizioni, ripercorrendo il cammino tracciato dai Greci e, in particolare da Euclide e Archimede, e adottando, a suo modo, il criterio sofisticato impiegato da Pascal nelle Règles pour la démonstration des axiomes. In altre parole, una definizione matematica non ci dice che cosa sia, ad esempio, il punto, il numero, ma che cosa dobbiamo intendere per esso, e la validità della definizione è mostrata da ciò che possiamo con essa costruire matematicamente. Così, a proposito della molteplicità, il modo più corretto per rendere matematico questo concetto è quello di darne una definizione che ne consenta un'applicazione matematica. Per ottenere questo risultato, l'accorgimento migliore è quello di individuare l'eventualità di una definizione generale, in cui possa rientrare, come suo caso particolare, quella di molteplicità.
Ma che cosa può dirsi più generale di una molteplicità o moltitudine? Un insieme (Menge), la cui definizione è quella di un aggregato (Inbegriff), in cui il modo di collegamento tra le sue parti (Verbindungsart) è indifferente. Se, invece, le parti sono collegate tra loro, come nel caso dell'addizione, l'insieme è definibile come una somma di parti (Summe). Riconducendo ogni grandezza matematica a questa definizione, è possibile definire anche un insieme infinito, «la cui proprietà caratteristica è quella di poter essere messo in corrispondenza biunivoca con un suo sottoinsieme».
Invitiamo, a questo punto, il lettore, anche se profano di cose matematiche, a non lasciarsi spaventare da un linguaggio che può parergli criptico e a riflettere su quanto segue. Immaginiamo di prendere in considerazione la forma pura di una proposizione o enunciato, ossia quella che Bolzano chiama «proposizione in sé» ed esaminiamo la definizione datale da Bolzano: «Per proposizione in sé intendo un qualunque enunciato asserente che una cosa è o non è; senza tenere conto se questo enunciato sia vero o falso, se esso sia stato espresso o non espresso a parole da qualcuno, anzi, se esso sia stato o non pensato nella mente di qualcuno». Potenzialmente, il numero delle proposizioni in sé è pressoché stellare o, più esattamente, esso disegna un insieme infinito, i cui elementi sono tutti quegli enunciati che asseriscono la relazione tra una cosa e una sua proprietà, del tutto indipendentemente dal fatto che gli asserti siano veri o, per contro, falsi. L'insieme degli enunciati è, perciò stesso, in corrispondenza con ciascuno degli enunciati e, a sua volta, ciascuno di essi è in corrispondenza con l'insieme o, più esattamente, con la regola di formazione dell'insieme, il quale prevede asserti che enunciano la relazione tra una cosa qualsiasi e una sua proprietà. Chiedamoci, ora, se questo insieme infinito sia unicamente potenziale o, come riteneva Bolzano, «attuale». La risposta è sì. Perché?
Ricorriamo ad un'argomentazione per assurdo. Diciamo che tutti gli enunciati dell'insieme sono falsi come, ad esempio, «Chirac è l'attuale re di Francia», «Praga è una città della Sicilia», e che non si può trovare alcun insieme che non contenga proposizioni false. Possiamo allora affermare che «tutte le proposizioni sono false» (a). Ma, se tutte le proposizioni sono false, anche la proposizione (a) è falsa, ma se è falsa, allora non è vero che tutte le proposizioni sono false. C'è almeno, dunque, una proposizione vera, se non altro quella che afferma «non è vero che tutte le proposizioni sono false» (b), ma allora sarà vera anche la proposizione «è vero che non è vero che tutte le proposizioni sono false» (c) e, conseguentemente, sarà vera la (d) che afferma la verità di (c), la (e), che afferma la verità di (d) e così via. In una parola, abbiamo configurato un insieme nel contempo vero e infinito, che però è attuale, dal momento che la verità di (b) contiene in atto tutte le verità, da (c) a (e) a (n).
La portata di queste considerazioni di Bolzano, che il lettore può ritrovare nei Paradossi e anche e soprattutto nella Wissenschatslehre (Dottrina della scienza, 1837) - di cui si auspica da tempo la traduzione italiana - è stata immensa. Per quanto concerne la matematica, questa prospettiva ha gettato le basi della moderna teoria degli insiemi. Per quel che riguarda la logica, essa ha reso possibile le innovazioni di Tarski e la creazione della logica matematica. Ma forse ancora più significative sono state le conseguenze nel pensiero speculativo contemporaneo. I due pensatori che sono maggiormente debitori a Bolzano sono Husserl ed Heidegger. Il primo ne ha tratto ispirazione per l'impianto della fenomenologia pura, una teoria delle costruzioni logiche dell'io, che Husserl pretendeva fosse del tutto purificato di ogni traccia di psicologismo. Il secondo per la sua teoria della verità, una dimensione, quest'ultima, in grado di sforare la «chiacchiera» - che comprende le stesse teorie scientifiche - e di farci attingere l'autentico che pur si cela nella «chiacchiera». Occorre però chiedersi se la lezione teoretica di Bolzano fosse davvero quella che Husserl, Heidegger e gli stessi logici e matematici hanno creduto di trarne. Francamente pensiamo di no.
Fare dell'infinito logico matematico il ponte per entrare nella verità - la quale, si badi bene, non è tale in quanto viene pensata da Dio, giacché, semmai, Dio è tale perché può pensare la verità senza farsene travolgere - equivale, piuttosto, a celebrare l'utopia della scienza che può definirsi certa e sicura perché fondata sulla verità. La disperata ricerca degli studiosi di Santa Fè, intesi a individuare un algoritmo universale in grado di spiegare il tutto, è, a ben guardare, un ritorno al sogno di Bolzano. Il problema, che a questo punto si pone, è il seguente: può reggere questa utopia al cimento con la dialettica, in una parola con la storia? Forse sì, ma ad una condizione: avere il coraggio di riconoscere la ricerca della verità come la regola aurea della «morale provvisoria» degli scienziati, un approccio senza il quale non si può procedere nelle indagini, ma che va messo sempre in discussione. Se, come voleva Platone, è giusto dire «non entri qui nessuno che non conosca la matematica», non sarà forse altrettanto giusto, nell'interesse stesso delle scienze, avere abbastanza coraggio per uscire da un qualsiasi cielo geometrico, anche se indubbiamente suggestivo come quello di Bolzano?


Il manifesto, 8 gennaio 2004

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