29.2.16

La poesia del lunedì. Salvatore Quasimodo

La dolce collina
Lontani uccelli aperti nella sera
tremano sul fiume. E la pioggia insiste
e il sibilo dei pioppi illuminati
dal vento. Come ogni cosa remota
ritorni nella mente. Il verde lieve
della tua veste è qui fra le piante
arse dai fulmini dove s’innalza
la dolce collina d’Ardenno e s’ode
il nibbio sui ventagli di saggina.

Forse in quel volo a spirali serrate
s’affidava il mio deluso ritorno,
l’asprezza, la vinta pietà cristiana,
e questa pena nuda di dolore.
Hai un fiore di corallo sui capelli.
Ma il tuo viso è un’ombra che non muta;
(così fa morte). Dalle scure case
del tuo borgo ascolto l’Adda e la pioggia,
o forse un fremere di passi umani,
fra le tenere canne delle rive.


(da Ed è subito sera, 1942)

Madre mia che lievito! Feuerbach e il glutine (Davide Paolini)

Parola d’ordine dal panettiere: lievito madre; parola d’ordine in pizzeria: lievito madre; parola d’ordine dal pasticciere: lievito madre; nel supermercato: gluten free; parola d’ordine dal macellaio: ma mi faccia il piacere..., mangio solo verdure; parola d'ordine in enoteca : bio, bio al quadrato, bio ancora ma dinamico, naturale. È ormai un refrain, basta sostare una decina di minuti in una panetteria e si nota che i clienti non chiedono più la semplice pagnotta casereccia ma quella «con lievito madre o pasta madre (i più informati ) o lievito naturale».
Già l’utilizzo dei termini mostra sufficiente confusione, in tanti pensano a ciò che hanno visto in tv, quando il panettiere di rinforzo allo chef, mostra la lavorazione manuale di pasta madre, allevata e rinfrescata tutti i giorni, mentre il panettiere magari vende pane ottenuto con la miscela pasta acida essiccata +lievito di birra o con lievito di birra o con lievito naturale liquido o disidratato o magari c’è pure chi vende pane e non conosce le differenze. Così pure succede con la pizza e il panettone. Pochi sono però consapevoli che se la farina è scadente, la presenza della pasta madre non può migliorare il lievitato, né renderlo digeribile. Da cui «l’uomo non è ciò che mangia ma tutto ciò che crede di mangiare»...
Feuerbach è stato rottamato !
La rinnovata affermazione filosofica, più contemporanea, calza a pennello anche per la grandinata di prodotti gluten free approdati negli scaffali dei supermercati, da cui si dovrebbe dedurre che siamo un paese di celiaci e di intolleranti e allergici.
La verità è che in tanti, pur non avendo alcun bisogno di ricorrere a prodotti senza glutine «sono convinti» siano più salutistici dei prodotti convenzionali e, soprattutto, una panacea per dimagrire. Ebbene ormai alcune ricerche (in Gran Bretagna e Stati Uniti) su prodotti etichettati gluten free mostrano il contrario: per il loro contenuto di grassi nascosti non si rivelano di certo dietetici, anzi...
Sine qua non.



Rubrica Il gastronauta “Il Sole 24 Ore Domenica”, 31/5/2015

27.2.16

In incognito. Una poesia di Pietro Pancamo

Dormo in incognito
per non farmi riconoscere dagli incubi.

Scavano per l’aria come talpe;
hanno un paio d’occhi
larghi e fotofobici.

Sul comodino 
il lume acceso mi nasconde.

Da GLI INTERCALARI DEL SILENZIO. Breve silloge inedita in cinque parti (Pietro Pancamo (pipancam@tin.it)

Super capre e beagle forzuti. Il genoma diventa business (Eleonora Degano)

Produrre la sequenza di Rna che riconosce il Dna da colpire costa circa dieci euro. L’intero processo di editing del genoma, una trentina. Con un investimento irrisorio e le competenze di un dottorando, la tecnologia Crispr, che sta rivoluzionando l’ingegneria genetica, è alla portata di ogni laboratorio.
I "Bama", micromaiali per la ricerca medica prodotti in Cina
Crispr/Cas9 è il frutto del lavoro di Jennifer Doudna, dell’Università della California a Berkeley e di Emmanuelle Charpentier dell’Helmholtz Centre for Infection Research. Nonostante sia molto più economico e semplice da utilizzare rispetto ai predecessori, sono emersi dei limiti legati all’efficacia su alcune specie e alla specificità di azione. Così un gruppo di ricercatori del Mit e del Broad Institute di Harvard, guidato da Feng Zhang, 33 anni, ha creato una versione dall’azione più precisa modificando tre dei circa 1.400 aminoacidi che formano Cas9. Una scoperta, pubblicata su “Science”, che Zhang ha dichiarato di voler rendere disponibile gratuitamente a scopi di ricerca. E che si è inserita, insieme alla “sua” versione di Crispr descritta qualche tempo fa, in una battaglia per i brevetti tra il suo gruppo di ricerca e quello di Charpentier.
Per anni varie squadre di scienziati hanno lavorato a Crispr. C’è chi ha identificato Rna guida, chi gli enzimi, chi ne ha compreso la struttura. Eppure in molti casi «le grandi aziende si stanno disinteressando alla proprietà dei brevetti, puntando ad arrivare per prime sul mercato a costo di pagare le royalties a qualcun altro», spiega Mauro Mandrioli, professore associato di genetica all’università di Modena e Reggio Emilia. «Il timore è che la ricerca subisca un’accelerazione eccessiva per la troppa disponibilità economica. Non conosciamo ancora gli effetti off target, se e come il sistema modifichi altri geni oltre a quelli scelti, né abbiamo idee precise sulla stabilità. È precoce considerarlo uno strumento di cura, servirà tempo per ottenere dati sulla sicurezza».
Dal punto di vista commerciale, gli investimenti dei privati premono perché il metodo di editing genomico arrivi presto sul mercato anche come terapia genica, e sostengono le numerose startup biotech legate a Crispr oggi in competizione tra loro per ricerca, brevetti e, ovviamente, fondatori. A livello di prime immissioni di capitali, le cifre a disposizione sono notevoli: la Editas Medicine di Cambridge (co-fondata da Church e Zhang e che sta facendo ricerca, in fase pre-clinica, sulle applicazioni di Crispr sulla distrofia di Duchenne) è in cima alla lista e ha ottenuto 120 milioni di dollari da un round di investimenti in cui spiccano nomi come Bill Gates e Google Ventures. La Crispr Therapeutics di Basilea, di cui E. Charpentier è co-fondatrice, ha un potenziale di investimento di quasi 90 milioni; la Caribou Biosciences di Berkeley e l’Intellia Therapeutics (in collaborazione con Novartis), entrambe co-fondate da J. Doudna, contano rispettivamente 11 e 15 milioni.
Un quadro normativo non c’è ancora e agli scienziati si chiede di agire in modo responsabile: pochi giorni fa, a Washington, una conferenza organizzata dalla National Academy of Sciences ha stabilito il rilascio di linee guida entro il 2016 . Nel frattempo, a che punto siamo?
In un contesto tanto complesso, l’utilizzo di Crispr su animali di interesse zootecnico potrebbe essere tra i primi applicati. Gli occhi sono puntati sulla Cina, dove è già stato creato un nuovo tipo di capra, dai muscoli più grandi e vello più lungo, per aumentare la produzione di carne e lana. Dal Beijing Genomics Institute sono usciti i micro-maiali Bama (creati come animali modello per la ricerca e ora venduti come pet a 1.600 dollari) e dai Guangzhou Institutes of Biomedicine and Health due robusti beagle, Hercules e Tiangou, creati silenziando il gene che codifica per la miostatina, una proteina che inibisce la crescita muscolare.
Grazie a una politica di “rientro dei cervelli” ed enormi investimenti in ricerca e sviluppo (257 miliardi di dollari nel 2012) la Cina ha raggiunto gli Usa nella corsa alla Crispr. Al punto che il gruppo di Junjiu Huang, alla Sun Yat-sen University di Guangzhou, l’ha usata su embrioni umani per modificare il gene responsabile della beta-talassemia, una malattia del sangue potenzialmente fatale. Nonostante gli embrioni (donati da una clinica per la fertilità) non fossero viabili – vale a dire non utilizzabili per la fecondazione assistita – la ricerca ha sollevato un polverone sia dal punto di vista dei limiti di Crispr, che su di essi non si è dimostrato efficace, sia per l’aspetto etico.

A oggi «i principali risultati della tecnica Crispr/Cas9 riguardano gli animali. In primis la possibilità di creare dei modelli che replichino le nostre patologie», spiega Mandrioli. Come succede, per esempio, allo Yunnan Key Laboratory of Primate Biomedical Research, dove gli scienziati hanno aumentato lo sviluppo neurologico di un gruppo di scimmie per usarle nello studio di condizioni come autismo e Alzheimer. Un’altra possibilità è data dagli xenotrapianti, “coltivare” in altre specie, come i maiali, organi per i trapianti umani. «Finora la ricerca era limitata da due ostacoli: i retrovirus del genoma suino, trasmissibili agli esseri umani, e il rischio di rigetto».
Tramite Crispr, «il gruppo di ricerca del genetista George Church di Harvard ha spento i 20 geni alla base del potenziale rigetto e inattivato tutte le 62 copie di retrovirus che conosciamo. I risultati per questo secondo traguardo non sono ancora stati pubblicati, ma renderebbero concreto l’allevamento di suini per trapianti già nei prossimi anni», dice Mandrioli. Con eGenesis, la società di Boston di cui è co-fondatore, Church va in questa direzione.
Anche in ambito clinico, pur essendo molto lontani da sperimentazioni su esseri umani, l’editing con Crispr apre possibilità affascinanti: inattivare il virus dell’Hiv nei pazienti sieropositivi, inattivare le cellule tumorali o produrne di ingegnerizzate da usare come “farmaco” contro il cancro. O ancora, alterare i geni associati a patologie cardiache come stanno facendo ai Gladstone Institutes di San Francisco. «Il rischio», sottolinea Mandrioli, «è che si cerchi di applicare i risultati prima che la comunità scientifica e la società si siano espresse. Non sappiamo cosa penserà il pubblico di fronte alle capre modificate cinesi o altri organismi. E vista l’esperienza con gli Ogm, non è secondario».


Pagina 99, 19 dicembre 2016

"Cicettu" (S.L.L.)

L'etimologia è da studiare, ma cicettu era nella nostra parlata campobellese il basco. Non quello che si allargava sulla testa e che potevi far penzolare da una parte, il basco dei pittori, dei baschi, dei paracadutisti, di Che Guevara; ma quello più piccolo, che si adattava come calza al cucuzzolo della testa, donde sporgeva quella sorta di peduncolo (pidicuddru), che qualcuno chiamava pirriciuciu come il pisellino dei neonati: il basco dei collegiali e dei seminaristi, di qualche prete e di Pietro Nenni.
In paese lo portavano in pochi ed era considerato una sorta di eccentricità. I più portavano lu tascu, cioè il berretto, quasi d'obbligo tra i contadini. La birritta vera e propria era quella col fiocco, detto giummu, ed era poco usata. Tra i taschi prevaleva al tempo della mia infanzia il nero: con la guerra recente c'era stato quasi sempre un lutto in famiglia e il berretto non si cambiava spesso. Era in genere di lana buona per durare molti anni. Veniva un po' preso in giro l'artigiano o il contadino quando indossava lu cappieddru” tipico dei galantuomini, dei professionisti e, in generale, dei più agiati; ma il fatto, talora, segnalava l'avvenuta promozione sociale.

26.2.16

1861. Sventato blitz borbonico in Piemonte (Maurizio Lupo)

Impadronirsi della fortezza di Fenestrelle, orgoglio del Piemonte sabaudo, per issarvi la bandiera borbonica e sfidare poi il Regno d'Italia con azioni di guerriglia, da condurre nella provincia di Torino. È un ardito piano sventato giovedì 22 agosto 1861. Lo rende noto l'«Eco delle Alpi Cozie», poi ripreso dalla «Gazzetta del Popolo». Raccontano di un colpo di mano scoperto grazie a una delazione. Lo hanno ideato 260 ex militari borbonici. Presi prigionieri nel Mezzogiorno, erano stati inviati «in osservazione» nella fortezza. Non si trovavano in regime di stretta detenzione poiché non parevano ostili a Vittorio Emanuele II. Le autorità militari li sottoponevano ad «addestramento disarmato», per indurli ad arruolarsi nell'esercito italiano, come avevano già fatto altri ex borbonici, poi chiamati a prestare servizio nel presidio di Fene. Ma è proprio questa situazione che ha suscitato l'idea di organizzare una beffa militare ai Piemontesi. Il piano dei 260 congiurati prevedeva di agire alle 18 di sera. A quell'ora gli ufficiali del presidio sono a mensa e i soldati in libera uscita. Gli insorti, divisi in quattro squadre, avrebbero svuotato l'armeria, attaccato il comando, occupato l'ingresso della fortezza e i suoi punti strategici. Una volta issata la loro bandiera e preso il denaro custodito nelle casseforti, sarebbero fuggiti, per darsi alla guerriglia. Li ha traditi pero' una lettera, inviata da un soldato napoletano, ostile alla sommossa.

Nella rubrica Centocinquanta anni dopo, “La Stampa”, 22 agosto 2016

Il “fantastico” e i libri delle meraviglie (Italo Calvino)

Comincerò con una citazione: "Diamine! Chi ha insegnato la musica a questi morti, che cantano di mezza notte come galli? In verità che io sudo freddo, e per poco non sono più morto di loro. Io non mi pensava perchè gli ho preservati dalla corruzione, che mi risuscitassero. Tant' è: con tutte la filosofia, tremo da capo a piedi. Mal abbia quel diavolo che mi tentò di mettermi questa gente in casa. Non so che mi fare. Se gli lascio qui chiusi, che so che non rompano l' uscio, o non escano pel buco della chiave, e mi vengano a trovare al letto? Chiamare aiuto per paura de' morti, non mi sta bene. Via, facciamoci coraggio, e proviamo un poco di far paura a loro".
Questa si direbbe una perfetta situazione di racconto fantastico. Invece è Leopardi: il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. Federico Ruysch era stato uno scienziato olandese, vissuto tra il XVII e il XVIII secolo, famoso in tutta Europa perché inventore d' un sistema di mummificazione dei cavaderi che dava loro l'apparenza della vita. Leopardi, che aveva letto un Elogio di Ruysch scritto da Fontenelle, immagina che l'olandese sorprenda una notte i morti che cantano e conversano. (E qui Leopardi s'appoggia anche su una tradizione classica: le meraviglie che accompagnano il compiersi dell' annus magnus o ciclo cosmico, di cui parla Cicerone nel De natura deorum). Dato che i morti hanno per un quarto d' ora la facoltà di parlare, Ruysch li interroga sulle sensazioni che hanno provato al momento del trapasso: dolore? paura? Conformemente alla filosofia di Leopardi, le mummie spiegano che la morte è la cessazione d' ogni facoltà di sentire, dunque d' ogni dolore, dunque è ciò che si può definire un piacere. Eppure, tutti i morti dicono che fino all' ultimo hanno continuato a sperare di poter vivere ancora, non fosse che per un' ora o due. Ruysch chiede: "Ma come, vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito del corpo? Dite: come conosceste d' essere morti? Non rispondono. Figliuoli, non m'intendete? Sarà passato il quarto d'ora. Tastiamogli un poco. Sono rimorti ben bene: non è pericolo che mi abbiano da far paura un'altra volta: torniamocene a letto". Così si chiude il dialogo.
La data in cui Leopardi lo scrisse ci rimanda agli anni in cui il romanticismo tedesco stava diffondendo in Europa il gusto per le storie in cui la paura del macabro e del soprannaturale si colora d' ironia. E' improbabile che questa voga avesse raggiunto Leopardi, che non amava i romantici e non leggeva romanzi o racconti. Pure, il dialogo di Ruysch e le mummie annuncia alcuni dei temi che torneranno più spesso nella narrativa fantastica del secolo XIX: il tema dello scienziato che sfida le leggi della natura finché una notte la sua audacia non viene messa a dura prova; il tema del mito antico che si rivela veritiero; il tema del mondo soprannaturale che s'apre per un fugace momento e subito si richiude. Tutto il resto è tipicamente leopardiano, dunque orientato in una direzione ben diversa: il rifiuto d' ogni illusione terrena o ultraterrena, la realtà della vita vista come dolore senza riscatto.
Ma Leopardi non sarebbe Leopardi senza la leggerezza dell'ironia sempre presente, senza la constatazione che la speranza, anche se vana, è l'unico momento positivo della vita umana, e che l'unico conforto si trova nei tesori dell'immaginazione e nella dolcezza del linguaggio poetico. Caratteristiche queste che accomunano Leopardi allo spirito di quei suoi contemporanei che fondarono la letteratura fantastica: Chamisso, Hoffmann, Arnim, Eichendorff. E se pensiamo che il pensiero cui attingevano i narratori fantastici del romanticismo era la nascente filosofia idealistica tedesca, e che questa aveva come sfondo la crisi della fiducia di Rousseau nella bontà della natura e la crisi della fiducia di Voltaire nel progresso della civiltà, vediamo che Leopardi nasce dalla stessa situazione, anche se la sua risposta è diversa.
C'è dunque un nodo storico e filosofico, comune ai romantici e all' antiromantico Leopardi, che sta alle origini del fantastico moderno, ed è il nodo che allaccia e insieme contrappone il racconto fantastico quale nasce in Germania agli inizi del secolo XIX al suo predecessore diretto: il "conte philosophique" del Secolo dei Lumi. Come il racconto filosofico era stato l'espressione paradossale della Ragione illuminista, così il racconto fantastico nasce come sogno a occhi aperti dell'idealismo filosofico, con la dichiarata intenzione di rappresentare la realtà del mondo interiore, soggettivo, dando a esso una dignità pari o maggiore a quella del mondo dell' oggettività e dei sensi. Racconto filosofico anch'esso, dunque, e tale resterà fino a oggi, pur attraverso tutti i cambiamenti del paesaggio intellettuale. Mi sono soffermato su questo punto per cercare di capire come mai nella letteratura italiana l'elemento fantastico viene meno (o comunque resta un elemento marginale, senza esempi di grande rilievo) proprio nell'epoca in cui trionfa nelle altre letterature europee. Il fantastico "nero" s' impone nella letteratura tedesca, francese, inglese, russa, ma in Italia rimane un elemento marginale, non caratterizzato da opere di rilievo; per esempio l' Italia non ha avuto una rivisitazione romantica del mondo leggendario popolare, quale quella che la Spagna ha avuto con Gustavo Adolfo Bècquer. E mi sono soffermato soprattutto su Leopardi perché in questo grande lirico e prosatore, il più nutrito di cultura classica e forse per questo il più moderno allora e oggi, il Leopardi che disprezzava tutti i romanzi tranne il Don Quijote, esiste un nucleo fantastico che intravediamo in alcuni dei suoi dialoghi, o in quel frammento poetico che descrive un sogno in cui la luna si stacca dal cielo e si posa su un prato. Lo stile è quello degli idilli greci di Teocrito, ma l'invenzione leopardiana - quella luna che brucia l'erba del prato, e la nicchia vuota che rimane in cielo - è d'una suggestione visiva straordinaria. È quello il vero seme da cui poteva nascere il fantastico italiano. Perché il fantastico, contrariamente a quel che si può credere, richiede mente lucida, controllo della ragione sull'ispirazione istintiva o inconscia, disciplina stilistica; richiede di saper nello stesso tempo distinguere e mescolare finzione e verità, gioco e spavento, fascinazione e distacco, cioè leggere il mondo su molteplici livelli e in molteplici linguaggi simultaneamente. Forse occorre risalire più lontano nella storia della letteratura e vedere come già durante il secolo XVIII erano stati esplorati tutti i continenti dell' immaginario, dalle fèeries della Corte del Re Sole alla traduzione di Galland delle Mille e una notte, alla "gothic novel" inglese. In Italia le fiabe teatrali di Carlo Gozzi non segnano un inizio, ma una fine: la fine della tradizione del meraviglioso che era stata per secoli la linfa più generosa della letteratura italiana.
Adotto qui la distinzione propria della critica francese tra il "meraviglioso", che sarebbe quello dei "contes de fèes" e delle Mille e una notte, e il "fantastico", che implica una dimensione interiore, un dubbio sul vedere e sul credere. Ma non sempre la distinzione è possibile, e in Italia il termine "fantastico" ha un significato molto più esteso, che include il meraviglioso, il favoloso, il mitologico. Così i poemi cavallereschi rivisitati dai poeti del Rinascimento: Pulci, Boiardo, Ariosto, Tasso, e il poema mitologico barocco del Cavalier Marino. Così i novellieri che hanno dato forma letteraria alla fiaba popolare: Masuccio Salernitano, Straparola, e il barocco napoletano Giambattista Basile; così il Bandello, nel cui sterminato repertorio di storie a effetto Shakespeare trovò spunto per molti dei suoi drammi.
Possiamo dire che il meraviglioso è sempre stato presente nella tradizione italiana: il libro dell' antichità latina la cui lettura non si è mai interrotta, neanche durante il Medio Evo, è Le metamorfosi di Ovidio. Questa corrente si direbbe che si fermi nel secolo XVIII, e che tanto il classicismo quanto il romanticismo italiani nascano troppo preoccupati di dimostrarsi seri e responsabili per abbandonarsi alla fantasia.
Quale può essere stato l'ostacolo? Una eccessiva devozione alla ragione? Al contrario: forse ce n'era troppo poca. La letteratura fantastica si sostiene sempre - o quasi - su un disegno razionale, una costruzione di idee, un pensiero portato alle ultime conseguenze seguendo la sua logica interna. Oppure l'ostacolo sarà stato una preoccupazione morale troppo viva? No, per chi esplora la propria coscienza il solo mezzo d'espressione è quello dei simboli; ed è nella dimensione simbolica che vive la letteratura fantastica. Il simbolo come immagine d' una realtà interiore non altrimenti definibile: l'ombra perduta del Peter Schlemil di Chamisso in quello che è forse il più bel racconto fantastico che sia mai stato scritto, o le miniere di Falun nello stupendo racconto di Hoffmann, che fu poi rielaborato per il teatro da Hofmannsthal.
Potrei citare un solo libro italiano dell'Ottocento che possa figurare accanto alle più grandi riuscite del fantastico "nero" internazionale: "Allora si affacciò alla finestra una bella bambina coi capelli turchini e il viso bianco come un' immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale, senza muovere punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall' altro mondo: "In questa casa non c' è nessuno. Sono tutti morti." "Aprimi almeno tu!" "Sono morta anch' io." "Morta? e allora che cosa fai costì alla finestra?" "Aspetto la bara che venga a portarmi via"". Si tratta d' uno dei libri più famosi della letteratura italiana, un libro famoso in tutto il mondo, forse il libro che più ha influenzato il mio mondo immaginario e il mio stile, perchè - e la stessa cosa credo possano dire la maggior parte dei miei compatrioti - è il primo libro che ho letto (anzi è il libro che già conoscevo capitolo per capitolo prima d' imparare a leggere): Pinocchio.


“la Repubblica”, 30 settembre 1984

Una via crucis: l'adozione (quasi) impossibile (Lidia Baratta)

Le adozioni in Italia sono in calo costante: quelle nazionali superano di poco il migliaio l’anno, le internazionali negli ultimi cinque anni sono state circa 1.500 in meno. Il maggiore accesso alla procreazione medicalmente assistita, cresciuta fino ad attestarsi intorno alle 15mila gravidanze all’anno, non spiega da sola la curva in discesa. È che il percorso che porta a diventare genitore adottivo è spesso una via crucis. E in tanti preferiscono rinunciare.
La legge prevede che il periodo per effettuare i controlli che portano il tribunale a decidere sull’idoneità dei genitori non debba superare i 120 giorni. Ma la legge è una cosa, la realtà un’altra. E nella realtà i due terzi delle coppie impiegano tra uno e due anni. Si comincia con gli accertamenti medici: prelievi del sangue, test dell’Hiv e della tubercolosi. Poi arrivano le sedute di psicoterapia. «Tre solo per lei, tre solo per lui e poi insieme, per almeno tre o quattro ore», racconta Nilde. Intanto bisogna presentarsi più volte in Questura per le indagini sul casellario giudiziale, e fornire la documentazione sulla situazione reddituale. Alla fine arriva l’ispezione della casa e la compilazione della domanda.
«Dopo la visita a casa», racconta Nilde, «abbiamo aspettato un mese per avere la relazione che i servizi sociali avevano stilato su di noi». Ma attenzione, «non ti viene data una copia: la relazione te la leggono al telefono. E poi te la consegnano in una busta sigillata da portare in tribunale». Finché arriva la decisione finale: idonei. «A questo punto siamo stati inseriti nel registro delle coppie. Ma nessuno ci ha detto quante domande c’erano insieme alla nostra».

Tre anni dopo
Nel frattempo, passano dieci mesi. Mesi nei quali persino i potenziali nonni sono stati interrogati dai servizi sociali. «Ci hanno rivoltati come un calzino», dice Nilde, «ma se questo ti porta all’adozione va bene». E invece in tre anni lei e Giovanni non hanno mai ricevuto una chiamata dal Tribunale per i minorenni. Dopo varie sollecitazioni, è arrivata solo un’email della psicologa che aveva seguito la pratica: «Mi dispiace confermare che nell’adozione nazionale, così come nell’internazionale, sono drasticamente diminuiti gli abbinamenti. Purtroppo la realtà è questa». Punto. Nilde e Giovanni ora non hanno intenzione di rinnovare la domanda di adozione che scadrà a breve. «È stato un duro colpo. Non siamo disposti a ripetere di nuovo il percorso», dicono.
In dieci anni (2004-2014) le domande per l’adozione nazionale sono calate da oltre 13.700 a 9.657. Le sentenze di adozione invece superano di poco il migliaio l’anno. Nel 2014, a fronte di quasi 1.400 minori dichiarati adottabili, le adozioni sono state 1.072. Oltre 300 bambini adottabili, quindi, non sono stati adottati. E solo una coppia su dieci è riuscita ad adottare. Eppure si stima che i bambini fuori famiglia in tutta Italia siano anche più di 35 mila. Si tratta di una stima, perché dati aggiornati non ne esistono. Il Garante per l’infanzia solo a novembre 2015 ha fatto una prima ricerca, censendo 19 mila minori in comunità, ma ha specificato che si tratta di una fotografia incompleta. Da questa cifra mancano i numeri dei ragazzi collocati nelle famiglie affidatarie, che in base al report del ministero delle Politiche sociali del 2010 erano più o meno lo stesso numero di quelli inseriti nelle comunità.
Né si sa in tempo reale quanti siano i bambini dichiarati adottabili. Manca una banca dati nazionale che incroci i dati dei minori e delle coppie disponibili, nonostante siano trascorsi 15 anni da quando avrebbe dovuto essere operativa. Da qui deriva la difficoltà di garantire a ogni bambino adottabile la scelta della famiglia migliore, con conseguenti ritardi negli abbinamenti.

Bambini in comunità
La decisione finale per l’adozione resta nelle mani dei giudici. E i Tribunali per i minorenni (di cui è previsto un accorpamento con i tribunali ordinari nella riforma del processo civile) non sono esenti dai difetti della giustizia italiana. Solo a Milano arrivano ogni anno 3 mila domande, che si sommano a quelle degli anni precedenti. Tra il 2011 e il 2013, a Venezia, sono state addirittura sospese le procedure di adozione per problemi di organico. E il presidente del Tribunale per i minorenni di Bologna ripete da tempo che «è indispensabile un aumento di personale». Intanto, mentre i servizi sociali aspettano mesi e mesi per avere notizie sul destino dei bambini, i piccoli diventano grandi nelle comunità anziché in famiglia. Il 57% ha tra i 14 e i 17 anni. E più un bambino è grande, più la speranza di un’adozione si allontana.
L’altra opzione a disposizione è l’adozione internazionale. «Tante coppie presentano doppia domanda, ma l’adozione nazionale resta residuale», dice Monica Ravasi, avvocato dell’associazione Italia Adozioni. L’Italia ha una lunga tradizione di adozioni dall’estero, seconda solo agli Stati Uniti. Ma anche qui i numeri sono in discesa. Gli ultimi dati diffusi dalla Commissione per le adozioni internazionali risalgono al 2013 (da due anni non viene pubblicato il report annuale), quando si è registrato un calo del 9 per cento rispetto al 2012, anno che a sua volta aveva subito una diminuzione del 22,8 per cento. Le cifre del Dipartimento per la giustizia minorile parlano di sole 1.969 adozioni di minori stranieri nel 2014. E anche le coppie che fanno domanda sono in discesa: dal 2007 al 2014, sono passate da poco più di 6.800 a poco più di 3.800. «Da una parte il calo si spiega con la crisi economica», dice Ravasi. «Dall’altra molto dipende dalla cultura negativa che si è creata intorno alle adozioni, dovuta alla diffusione di storie difficili».
Il tempo medio tra domanda di adozione e autorizzazione all’ingresso del minore in Italia è di 3,3 anni. Molto dipende dal Paese di provenienza: si va un minimo di 2,8 anni per la Russia a un massimo di cinque anni e mezzo per la Lituania. Ma c’è anche chi ha impiegato sette anni per fare arrivare un bambino dal Brasile.
Dopo il passaggio dal Tribunale per i minorenni, il percorso per l’adozione internazionale prevede l’affidamento della pratica a uno dei 62 enti autorizzati. E qui si comincia a batter cassa. I costi fissi degli enti sono variabili: dai 1.500 euro dell’Associazione bambini Chernobyl ai 3.600 della Cicogna onlus. A questi si aggiungono i costi dei viaggi. Per adottare un bambino in Russia bisogna andare e tornare quattro volte. Per la Bolivia, è necessario trasferirsi lì per due mesi. Per il Brasile tre. Bisogna mettere in contro poi le pratiche burocratiche, la traduzione dei documenti, e le fatture da pagare agli avvocati locali. Il costo finale può variare dai 15 ai 40 mila euro. Tanto che pure le banche hanno creato mutui dedicati alle adozioni internazionali (vedi box). La normativa italiana prevede sì la possibilità di dedurre le spese per l’adozione e il rimborso dal 30 al 50% dei costi sostenuti, ma i soldi tardano ad arrivare. E anche qui c’è da aspettare.
Giovanna è madre adottiva di un bambino vietnamita. Nel 2007 ha presentato doppia domanda, nazionale e internazionale. Dopo un anno ha ottenuto il decreto di idoneità. Di adozione nazionale inutile parlarne. «Dopo tre anni la domanda è scaduta e non l’ho rinnovata», racconta, «nel frattempo l’ente al quale mi ero rivolta mi ha fatto sapere che si era aperta una possibilità per l’internazionale». Dopo due anni di attesa, è volata in Vietnam. E dopo un mese, è tornata in Italia con il suo bambino. Costo totale: 18mila euro.
«Molto dipende dai Paesi», spiega Paola Crestani, presidente del Centro italiano aiuti all’infanzia (Ciai). «Alcuni Stati, come il Congo e il Kenya, non riuscendo a combattere la tratta dei bambini, hanno preferito bloccare le pratiche». Non solo. «Quello che sta succedendo oggi è che i Paesi di provenienza prima di dare i loro figli all’estero tentano di collocarli in famiglie locali. Così i bambini segnalati sono quelli più avanti con l’età o che hanno problemi di salute. Questo fattore ha influito molto sulla riduzione delle coppie disponibili». Tant’è che, come ha denunciato il Garante per l’infanzia, sono aumentate le “restituzioni” dei bambini. Secondo le ricerche internazionali avviene tra il 10 e il 20% dei casi. «Se una famiglia adottiva non ce la fa», spiega Crestani, «viene affiancata dai servizi sociali. Ma se la situazione non è risolvibile, il bambino viene tolto alla famiglia e inserito in una comunità italiana».

Commissione fantasma
Il calo delle adozioni internazionali però non riguarda solo l’Italia. I Paesi più colpiti sono negli ultimi dieci anni sono stati in Norvegia (-80%), Spagna (-79%) e Francia (-67%). Certo, da noi la Commissione per le adozioni internazionali, presieduta da Silvia Della Monica (che ha ricevuto la delega da Matteo Renzi), non ha aiutato. Da giugno 2014 non si è mai riunita, né ha organizzato incontri con gli enti e con le delegazioni straniere. E nelle adozioni internazionali, tutto si gioca sui rapporti diplomatici tra i Paesi. Non bastano i viaggi lampo come quello che la ministra Maria Elena Boschi fece in Congo nel maggio 2014 per portare in Italia 31 bambini adottati. Tant’è che il 20 gennaio scorso 108 famiglie si sono incatenate davanti alla Camera dei deputati per chiedere una mediazione diplomatica che favorisca l’arrivo dei figli legalmente adottati in Congo. Sul sito del Comitato Genitori Rdc si tiene il conto dell’attesa: a breve saranno 900 giorni.


Pagina 99, 13 febbraio 2016

L'uccello nero. Una poesia di Toti Scialoja

L'uccello nero
salta leggero,
si chiama merlo
senza saperlo.

da Amato topino caro, Bompiani 1971

24.2.16

"Amminsigliari" (S.L.L.)

Non ho trovato nel Traina l'omologo palermitano ("amminsigghiari") di questo verbo in uso al mio paese (Campobello di Licata) e in quelli circonvicini: potrebbe essere una specialità della zona. 
Significa "confortare", ma si tratta propriamente dell'incoraggiamento che si dà ai bambini da parte delle mamme o dei nonni (più raramente dei padri) quando, cadendo, si fanno la bubù, oppure quando devono prendere un'amara medicina o subire un'iniezione, quando sentono freddo, quando hanno paura del tuono e del buio, quando pensano di aver patito un torto. 
C'è un "amminsigliari" dei grandi o un "amminsigliarisi" (col valore medio-passivo di "farsi confortare") dei piccoli immotivato, almeno in apparenza, generico: è il consolare (o farsi consolare) "dell'esser nato" di cui dice Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Assomiglia ad esso l'amminsigliarisi dei vecchi, che cercano sostegno per il loro essere ancora vivi e tenacemente attaccati alla vita.

Adozioni. Più figli per tutti (Roberta Carlini)

Etero, gay o single, una casa per tutti i bambini
Se l’Italia alla fine avrà la legge che riconosce le unioni omosessuali, resterà comunque una grave discriminazione nel nostro Paese. Le coppie dello stesso sesso continueranno a non poter adottare. La stessa possibilità sarà negata ad aspiranti genitori single. Mentre per mesi il dibattito politico si è intestardito e incarognito attorno alla stepchild adoption, poco o niente si è detto del divieto principale: quello che impedisce a omosessuali e non accoppiati persino di essere presi in considerazione come potenziali buoni genitori. Una battaglia rinviata, una dimenticanza, o una rimozione, che corre parallela alla grande crisi delle adozioni?
Le parole hanno la loro importanza, e danno importanza. Fino a qualche tempo fa, per “adozione” si intendeva un incontro tra mondi in un certo senso alieni: tra un figlio in cerca di genitori e potenziali genitori in cerca di figli. Da una parte, un bisogno, codificato nel diritto di ogni bambino ad avere una famiglia; dall’altra, un sogno, un progetto, e una disponibilità. La stepchild adoption, ossia l’adozione del figlio del coniuge, era ed è una delle fattispecie di “adozione in casi particolari”: il riconoscimento di un legame di fatto già esistente, più che la ricerca di un incontro o la realizzazione di un progetto. Prima consentito solo alle coppie sposate, poi esteso dalla giurisprudenza anche ai conviventi. Come mai allora da “caso particolare” è diventato quello centrale, e dunque casus belli sul quale cercare addirittura di affossare il primo riconoscimento giuridico in Italia delle coppie omosessuali?
In parte, questa attenzione unica, poi diventata ossessiva, alla adozione del figliastro è dovuta allo stesso impianto minimalista della legge, che nasce come un compromesso: non è un vero matrimonio, non si può fare una “vera” adozione. Vedendo il lato positivo, si può aggiungere però che così almeno si interviene su quel che già c’è, e si dà il giusto riconoscimento a legami che si sono creati, che coinvolgono bambini in carne ed ossa, biologicamente figli di uno dei membri della coppia ma accolti e amati da entrambi. Ma l’attenzione esclusiva sulla stepchild si è poi infiammata su altro: il potenziale legame con la pratica, illegale in Italia, della gravidanza surrogata. Sarebbe ipocrita negare questo nesso. Ma è del tutto strumentale, e anche intellettualmente disonesto, agitarlo per bloccare le unioni civili: sarebbe come voler abolire, per tutte le coppie etero, la possibilità di stepchild adoption, poiché attraverso questa finestra può entrare quello che il nostro ordinamento vieta, ossia la pratica, consentita in altri Paesi, dell’utero in affitto. Oppure – allargando lo sguardo – abolire le adozioni tout court, poiché in giro nel mondo c’è qualcuno che pratica commercio di bambini.
Alla parte più reazionaria dell’Italia, quella che non vuole ammettere che la famiglia è cambiata, non è parso vero potersi concentrare sul fantasma per negare la realtà. La parte più progressista, quella che vive già nella realtà la stabilità – o anche l’instabilità, moneta corrente per tutti – delle coppie omosessuali, vive da lontano, come un po’ lunare, la discussione parlamentare su commi e “canguri” dai quali dipende il proprio futuro. Ma anche questa parte progressista ed emancipata ha tralasciato la battaglia per l’adozione alle coppie gay e ai single. Forse perché ha pensato che fosse una battaglia persa in partenza. O perché, come raccontiamo nell’inchiesta di questo numero di pagina99, l’adozione, nazionale e internazionale, è una realtà in declino. È drastico il calo dei bambini adottati, e parallelamente sono scese anche le domande da parte delle famiglie. Ci siamo chiesti se si tratti di un cambiamento indotto da fattori materiali: scoraggiamento per adozioni sempre più difficili, condizioni esterne complicate, soprattutto sullo scacchiere internazionale, burocrazia ostile, costi crescenti e insostenibili in tempi di crisi. Oppure se su questo cambiamento incidano anche fattori culturali, un maggior favore verso il figlio “proprio” (anche solo per metà) o addirittura un’ossessione genetica favorita dai progressi nelle tecniche della riproduzione. Domande enormi e dalle risposte non definitive; però uno sguardo sul campo dice che prevale lo scoramento, per un’impresa che si è fatta sempre più difficile, a volte impossibile. Non tanto e non solo perché “ci sono pochi bambini”, ma perché la macchina per far funzionare quel miracoloso incontro tra alieni va mantenuta, oliata, nutrita, aggiustata col mondo che cambia. Va aperta, smontata e rimontata.
Ecco perché abbiamo voluto titolare, echeggiando uno slogan, “più figli per tutti”. In un’Italia che fa sempre meno figli e che sembra chiudersi su se stessa anche nella disponibilità ad accogliere i figli degli altri, l’unica possibilità è rilanciare e aprire. Aprire le famiglie esistenti (tutte) a minori che una famiglia non ce l’hanno. E aprire le nostre teste di fronte alla realtà del fatto che le famiglie, felici o infelici che siano, forse non si somigliano tutte ma sono tutte uguali.


Pagina 99 we, 13 febbraio 2016

La Fiat di Valletta. Foa racconta: “Di Vittorio non capì” (Simonetta Fiori)

In quegli anni, gli "anni duri" della restaurazione e della guerra fredda, Vittorio Foa lavorava nella segreteria della Cgil al fianco di Giuseppe Di Vittorio. "Un giorno", racconta nel bel libro autobiografico pubblicato da Einaudi, Il Cavallo e la Torre, "Bruno Trentin ed io ci accorgemmo che Di Vittorio voleva incontrare Valletta per richiamarlo ai principi di umanità. Insieme esercitavamo la massima sorveglianza per impedirglielo. Ma ci scappò di mano e lui andò lo stesso a Torino, tornandone ovviamente a mani vuote. E molto turbato".
Foa, che cosa era successo?
"Di Vittorio, politico raffinato che tuttavia 'sentiva' la fabbrica in termini di solidarietà e non di specificità, aveva sottovalutato un aspetto essenziale di Valletta: e cioè che egli s' era formato a una cultura del comando, verso operai e verso governanti. E il suo modo di proporsi si configurava unicamente come rapporto di forza. Una scelta assai più radicale rispetto alla stessa Confindustria diretta allora da Angelo Costa".
Possiamo considerare il vallettismo la versione italiana del maccartismo?
"La definizione mi sembra troppo forte, ma certo il vallettismo non era soltanto un modo di organizzare il lavoro e la produzione. Era anche un'attiva scelta politica. Non credo sia giusto ritenere che la disciplina così rigida instaurata alla Fiat rispondesse solo a criteri di organizzazione del lavoro e neppure che fosse un semplice riflesso della guerra fredda e dello scontro durissimo con i social-comunisti. Valletta faceva politica, comportandosi da ministro di polizia - ricordo la schedature degli operai Fiat e la condanna in primo e secondo grado dell'avvocato Garino, capo del personale - e da ministro degli Esteri".
In che senso?
"Un episodio: nel 1954 Valletta incontrò a Roma, all' ambasciata Americana, l' allora rappresentante Booth Luce. La rozzezza dell' ambasciatrice era nota in tutto il mondo. In quel periodo si dava da fare perché Valletta licenziasse tutti i comunisti. Lui tendeva a frenarla, ma in sostanza le dava assicurazioni, come risulta dai documenti pubblicati da Gian Giacomo Migone sulla “Rivista di storia contemporanea”. Ricordo che Valletta, quasi a sua discolpa, si giustificò con la Luce accampando di trovarsi in 'una situazione forzatamente democratica' : insomma, non poteva mica licenziarli proprio tutti...".
Come si viveva allora alla Mirafiori?
"Le paghe erano molto basse, il lavoro pesante, la disciplina oppressiva. Era l'epoca dei reparti-confino, nei quali venivano isolati i dipendenti più attivi politicamente perché non contagiassero tutti gli altri. Questi operai erano gli stessi che avevano collaborato attivamente alla ricostruzione dopo la guerra". Chi c'era? "Tanti, tantissimi. C'era Fernando Bianchi, coordinatore delle commissioni interne alla Fiom, giaccone nero e motocicletta. C'era Dino Pace, futuro dirigente di rilievo della Cgil piemontese. C'erano Giovanni Longo, Vito D' Amico e Giovanni Roveda... E c' era la memoria storica del movimento operaio, come Luigi Battista Santhià, collaboratore di Gramsci all'Ordine nuovo, e Giovanni Parodi, segretario del consiglio di fabbrica durante l'occupazione nel settembre del 1920: una fotografia lo ritrae nello studio di Giovanni Agnelli senior. E vorrei ricordare anche gli uomini del sindacato - Egidio Sulotto, Sergio Garavini e Gianni Alasia, Emilio Pugno e Bruno Fernex - un gruppo culturalmente moderno, per certi aspetti più avanti della stessa Cgil e del Pci".
Ma la Fiom non fu mai percorsa da radicalismo antindustriale? Non diede mai pretesti a Valletta per la sua azione repressiva?
"La Fiom non fu mai contagiata da umori antindustriali. Oggi si ricorda con ironia il famoso convegno sul 'supersfruttamento': in realtà quella parola serviva ad indicare la fatica fisica e psicologica derivante dai ritmi di lavoro. Un problema eterno. E vorrei far riflettere su un fatto: quando nel 1955 la Fiom perse le elezioni per le commissioni interne, non si trattò soltanto della sconfitta di una linea sindacale, ma si trattò soprattutto della vittoria della Fiat. Tant'è vero che tre anni più tardi la Cisl, vincitrice di quelle elezioni, si sarebbe divisa al proprio interno, abbandonando la sfera aziendalistica per tentare il dialogo con una Fiom cambiata".
C'è un suo ricordo personale di quegli anni?
"Erano tempi terribili, in cui il governo sparava su contadini ed operai. In Parlamento le sedute erano incandescenti. Il mio amico Antonio Giolitti mi raccontava ieri che, dopo i tumulti, ci si doveva occupare dei commessi contusi e feriti. Una volta il deputato comunista Di Mauro, segretario della Camera del Lavoro di Catania, s'avventò sul banco del governo per mordere all'orecchio il ministro dell'Interno Mario Scelba. Quarant'anni dopo, vedendo alcuni parlamentari sulla stessa china, mi accorgo di quanto siano conservatori".
Quant'è rimasto del vallettismo oggi alla Fiat?
"Il vallettismo come disciplina discriminatoria non c' è più da un pezzo. Ma è rimasta l' idea della propria infallibilità, ossia il primato del comando".


la Repubblica, 4 marzo 1993  

L'avventura del Leone. Le Assicurazioni Generali da Kafka a Merzagora (G.C)

Da “Pagina 99” riprendo un'utile schedina storica che corredava un articolo di Gabriella Colarusso sulle Assicurazioni Generali. C'è un'inesattezza attribuita allo storico Sapelli: Merzagora non fu mai presidente della Camera, ma del Senato. (S.L.L.)

Non solo polizze, finanza, capitali. L’avventura del Leone è stata anche, a cavallo tra Ottocento e Novecento, e per tutto il secolo breve, una storia di grandi politici, scrittori e poeti.

Le Generali nacquero nel 1831 a Trieste per volontà di Giuseppe Lazzaro Morpurgo, ebreo di Gorizia figlio di un industriale della seta. Il papà avrebbe voluto avviarlo agli studi giuridici, ma il ragazzo aveva un altro sogno: creare a Trieste, città allora ancora asburgica e con un vivacissimo mercato assicurativo (vi avevano già sede venti compagnie), una società che operasse in tutti i rami assicurativi, non solo in quello marittimo, e che avesse una vocazione europea. Il quartier generale si insediò a Trieste ma furono create altre due direzioni a Milano e Venezia (da quest’ultima fu in seguito adottato il simbolo del Leone, che andò a sostituire il primo marchio delle Generali, l’Aquila simbolo dell’impero austroungarico), rimaste poi centro dell’attività delle assicurazioni anche nel Novecento.
Tra i fondatori e primi dirigenti del Leone non c’erano «intellettuali come potevano essere i Marchesano o i Frigessi di Rattalma che erano della Ras» (la compagnia gemella oggi inglobata in Allianz), racconta lo storico Sapelli, ma la compagnia triestina è stata la fucina di ottimi «gestori, personaggi come Enrico Randone o come Cesare Merzagora, ex presidente del Comitato nazionale dell’economia durante la Resistenza e poi ex presidente della Camera, senatore a vita, grand commis, mai supini ai voleri di Mediobanca».
Fu Merzagora, alla guida delle Generali dal 1969 al 1979, a volere come numero due della compagnia Randone, napoletano, una vita spesa nelle Assicurazioni con l’idea che prima di tutto venissero il rispetto per i clienti e per gli azionisti, la buona amministrazione.
L’altro grande capo delle Generali, nel Novecento, è stato Antoine Bernheim, finanziere francese amico e sodale di Enrico Cuccia, con cui costruì, attraverso la cassaforte lussemburghese Euralix, l’assetto di controllo delle Assicurazioni che è rimasto in piedi fino agli anni Dieci del 2000.
Ma la storia del Leone è stata attraversata anche da grandi letterati. Il più noto è senza dubbio Franz Kafka, che lavorò nella sede della compagnia a Praga, nel 1907, ma non ottenne di essere trasferito, come avrebbe voluto, a Trieste. Cosa che riuscì invece a un altro scrittore – e matematico – praghese che fu dipendente di Generali, Leo Perutz, autore, tra le altre opere, de Il miracolo dell’albero di Mango, da cui è stato tratto un film con la regia di Biebrach, anche se il suo lavoro forse più apprezzato fu il romanzo Dalle nove alle nove. Per il Leone lavorò anche Marisa Madieri, scrittrice fiumana e compagna di Claudio Magris, autrice di un romanzo molto bello sul tema dell’esilio, Verde acqua (Einaudi), in cui racconta il dramma dell’esodo da Fiume e la vita nel Silos di Trieste dove trovarono rifugio i profughi istriani e fiumani.

Pagina 99, 19 gennaio 2015

23.2.16

Editing genomico. Riscrivere il mondo (Angela Simone)

Si chiama editing genomico. È la tecnologia del futuro, ma è già presente. Permette di manipolare il Dna con una precisione e una potenza sconosciute. I vantaggi potrebbero essere grandissimi, come curare malattie ad oggi incurabili. Il rischio è l’uso improprio della tecnica. La scorsa primavera un gruppo cinese l’ha usata su cellule di embrioni umani. E a fine settembre un altro gruppo, sempre cinese, ha creato dei mini-maiali da compagnia.
Nei primi giorni del mese Washington ha ospitato il primo summit internazionale sul genome editing. Si attendeva una moratoria, ma non è arrivata.

È la parte più intima di noi, che racconta chi siamo alla nostra nascita, quello che potremmo diventare in futuro e di cosa probabilmente – e in alcuni casi certamente – ci ammaleremo. Il Dna, il nostro genoma, mutabile per sua natura dal caso, oggi può essere riscritto dall’uomo con estrema facilità.
Le tecniche di intervento sul genoma esistono ormai da diversi decenni, da quando negli anni Settanta la biologia molecolare e l’ingegneria genetica hanno dato i primi risultati su cellule semplici come quelle batteriche. Ma è nell’ultimo decennio che la comparsa di tecniche di modifica dei geni più efficienti e di più facile gestione, nei tempi e nei costi, ha fatto diventare il genome (o gene) editing, anche su cellule animali più complesse come quelle umane, un orizzonte più vicino. Soprattutto da quando nel 2013 è arrivata la potente e versatile tecnica chiamata Crispr/Cas9, appena consacrata dalla rivista “Science” come l’innovazione «breakthrough of the year». La svolta dell’anno.
Il termine editing descrive bene quello che questa tecnologia rende possibile: modificare e correggere le parole all’interno del libretto di istruzioni di ogni organismo vivente, il genoma, tramite un meccanismo di taglia e incolla, proprio come in un documento di scrittura digitale. La potenza della tecnologia risiede nella sua incredibile versatilità: qualunque tipo di cellula, vegetale, animale, compresa quella umana, può essere oggetto di correzione e la modifica potenzialmente può avvenire ovunque, per ottenere diversi risultati.
L’editing genetico può innanzitutto correggere geni “difettosi”, capaci di provocare malattie direttamente correlate a una mutazione puntuale, detta puntiforme, o aumentare la probabilità di promuovere la crescita tumorale in alcuni tessuti e organi. Si potrà per esempio intervenire sulla mutazione dei geni che predispongono al cancro alla mammella e all’ovaio anche nelle cellule uovo, in modo che né la singola donna né le sue discendenti possano avere quella mutazione. Aprendo così la strada a strumenti e terapie attualmente non disponibili per curare malattie diffuse e rare.
Ma il genome editing potrebbe anche essere usato per creare piante e animali portatori di vantaggi per l’uomo. Per esempio piante più resistenti ai cambiamenti climatici o animali che producono organi ad altissima compatibilità umana e utilizzabili per gli xenotrapianti, così da mitigare il problema della scarsa reperibilità di organi.
Le alterazioni genetiche indotte con tale tecnica potrebbero però avere un impatto a lungo termine anche sulle generazioni future, se compiute sulle cosiddette cellule umane germinali e riproduttive, cioè le cellule uovo e spermatozoi, che trasmettono alla discendenza l’informazione genetica che contengono. Gli esiti non sono a oggi prevedibili. Tecnicamente la scienza non è ancora pronta per impiantare in utero un embrione modificato, ma i cambiamenti si avvicinano velocemente. E prefigurano per un futuro non lontano una serie di dilemmi etici, legali e sociali: di qui la richiesta, da parte della comunità scientifica che lavora in questo ambito, di un momento di riflessione e discussione, «prima che sia troppo tardi».

* * *

Il primo segnale che i tempi fossero maturi per una discussione globale sul tema era arrivato ad aprile di quest’anno, con la pubblicazione di uno studio sull’uso del gene editing in cellule embrionali umane a opera di un gruppo di ricerca guidato da Junjiu Huang della Sun Yatsen University di Guangzhou, Cina. L’obiettivo della ricerca non era impiantare gli embrioni modificati nel genoma per ottenerne una gravidanza. Ma la sola concreta possibilità di riuscire tecnicamente a manipolare cellule umane riproduttive ha rinvigorito la discussione su una tecnologia che nel suo sviluppo procede bruciando le tappe.
Come detto, il tema è stato al centro del primo summit internazionale sull’editing genomico applicato all’uomo, che si è svolto tra l’1 e il 3 dicembre a Washington, su iniziativa delle Accademie di Scienza e Medicina statunitensi e cinesi e della britannica Royal Society. Scienziati del settore insieme a bioeticisti provenienti da tutto il mondo si sono riuniti per discutere se e come proseguire la ricerca, visti gli importanti dilemmi etici che si porta dietro. Al contrario di quanto precedenti consessi di scienziati sembravano far presagire, il convegno non si è chiuso con una moratoria, cioè una pausa temporanea parziale o totale nella ricerca in questo ambito; ma solo con un invito alla cautela nell’uso della tecnica su embrioni da impianto per ottenere un essere umano. Una sperimentazione che gli scienziati a Washington hanno definito «irresponsabile» se usata senza aver prima raccolto informazioni, tramite ricerca di base, ed esperienza sulla sicurezza della metodica nell’uomo.
«Questo è solo l’inizio di un processo. Penso che segni un precedente nella gestione delle situazioni difficili di cui dobbiamo andare fieri». Queste le parole con cui ha chiuso il summit David Baltimore, virologo del California Institute of Technology e premio Nobel per la medicina del 1975. In molti però si chiedono se davvero il congresso sia stato efficace nella gestione di un problema così complesso.
«Pochissime persone hanno preso la parola e la maggior parte di loro hanno discusso della questione in termini davvero limitati. Nonostante lo sforzo lodevole degli organizzatori di essere inclusivi, c’è ancora molta strada da fare, perché in questo contesto non solo sono difficili le risposte da dare, ma anche le domande da porsi», dice a pagina99 Ben Hurlbut, storico della scienza e assistant professor presso la Scuola di scienze della vita dell’Arizona State University. «È troppo semplicistico guardare al genome editing solo come un problema di rischi e benefici immediati in termini medici, invece che inquadrare la questione in termini più ampi di diritti umani o su come andrebbe a cambiare il rapporto tra generazioni», aggiunge Hurlbut, presente al summit anche perché da tempo interessato alle controversie scientifiche che riguardano materie al confine tra bioetica e politica.
Nel frattempo, in concomitanza con la riunione sul gene editing e proprio per cercare di avere un impatto sulle sue conclusioni, il Consiglio d’Europa, tramite il suo Comitato di Bioetica (DH-Bio), aveva ricordato il divieto di intervenire su cellule riproduttive ed embrionali, in accordo con la Convenzione di Oviedo, unico sistema regolatorio internazionale sui diritti umani in ambito biomedico legalmente vincolante e già in vigore. Ma nazioni come la Cina, che stanno investendo moltissimo su questa tecnologia, potrebbero presto arrivare a un simile traguardo, per di più nel rispetto delle conclusioni di Washington, che dà indicazioni globali, ma lascia la giurisdizione della regolamentazione dei vari campi applicativi a norme ed etiche nazionali. In pratica, se la legge nazionale lo permette, diventa possibile anche agire su questo tipo di cellule.
Dove è vietato, come nel caso dell’Italia, il ricercatore deve fermarsi. «La discussione sull’uso di questa tecnologia sugli embrioni è largamente fittizia perché in questo ambito ci sono già da tempo norme nazionali che regolamentano la sperimentazione sugli embrioni», dichiara a pagina99 Giuseppe Testa, professore di biologia molecolare presso l’Università di Milano e direttore del Laboratorio di epigenetica delle cellule staminali dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo). Testa fa anche parte dell’Hinxton Group, un consorzio internazionale su cellule staminali, etica e diritto che già a settembre si è espresso con una dichiarazione sul genome editing: «Abbiamo indicato una roadmap, una serie di tappe e indicazioni, sia sul versante scientifico che su quello sociale per guidare e accompagnare il processo decisionale», spiega. Processo che dovrebbe essere il più inclusivo possibile.

* * *

La voce dei pazienti e dei cittadini in generale è un concetto spesso evocato, ma in concreto poco considerato nelle decisioni scientifiche. L’effetto dell’esclusione di grandi parti della società da un dibattito il cui impatto riguarda tutti pone un vero e proprio problema di democrazia, come ha sottolineato Hurlbut in un articolo scritto con altri esperti di scienza e società e apparso sul Guardian in aprile, subito dopo la pubblicazione del lavoro dei ricercatori cinesi su cellule embrionali. Secondo gli autori «anche in società tecnologicamente avanzate, si tende a deferire al giudizio dei soli esperti quali siano i rischi di cui è ragionevole preoccuparsi e quali no. E questo è un deficit di democrazia». Il testo elaborato dall’Hixton Group concorda con questa visione, come sottolinea Testa: «Sul dove, quando e come il gene editing possa diventare uno strumento utile, la scienza non è la sola a dover dare risposte. È un compito politico, nel senso più alto del termine, in cui le società sono chiamate a decidere e deliberare collettivamente sui potenziali usi della tecnica, perché nel contesto multiculturale in cui viviamo e in cui istanze valoriali diverse coesistono e a volte competono, è necessario un dibattito aperto e inclusivo».
È impensabile che un dibattito del genere possa dirimersi una volta e per sempre con una risoluzione statica. «Le domande che l’editing genomico pone, quelle che bisogna avere il coraggio di porsi, come l’accettabilità etica da parte delle società dell’intervento su embrioni e cellule germinali, non possono essere risolte una volta per tutte, ma devono essere reiterate ed evolversi man mano che le sensibilità maturano, attraverso strumenti di consultazione pubblica strutturata, che a loro volta devono tenere il passo dei cambiamenti della tecnologia e della società», conclude Hurlbut.
La conferenza internazionale sul gene editing, nonostante l’orgoglio di Baltimore, sembra quindi aver fallito «nella gestione di situazioni difficili». O almeno non ha saputo inquadrare in tutta l’ampiezza della loro complessità il problema e la posta in gioco. Ma forse può avere aiutato a rendere più visibile una controversia non solo scientifica e che va alle radici di come le società vogliano governare e riscrivere il loro futuro.


Pagina 99, 19 dicembre 2015

22.2.16

La poesia del lunedì. Nino Martoglio (Belpasso 1870 - Catania, 1921)

Il telefrico senza fili
Siti bestia, quadrupedi, animali...
e non vi dicu artro, non vi dicu!...
Le 'ntinne ci su' sempri, tali e quali,
e l'âmu vistu ju e cumpari 'Ricu...

Chiddu ca non c'è chiù, mio caru amicu,
è il filo!... Oh, binidittu San Pasquali!...
Il filo, dintra il quale, a tempu anticu,
curreva il telecrama naturali!...

La mia difoortà, però, 'n'è chissa;
c'è un'artra cosa, ca ancora non sacciu
e della quali nn'arristai scossu:

Chiovi, mintemu, l'acqua si subissa?...
Com'è ca la parola del dispacciu
agghica bella, asciutta comu n'ossu?

Traduzione
Il telegrafo senza fili
- Siete bestia, quadrupede, animale...
E non vi dico altro, non vi dico!
Le antenne ci son sempre tali e quali
e le abbiamo viste io e compare Enrico...

Quello che non c'è più, mio caro amico,
è il filo... Oh, benedetto san Pasquale!...
Il filo, dentro il quale al tempo antico
correva il telegramma naturale!...

La mia difficoltà, però, non è quella;
c'è un'altra cosa, che ancora non so capire
e della quale son rimasto scosso:

Piove – mettiamo – scende l'acqua a dirotto?...
Com'è che la parola del dispaccio
arriva bella asciutta come un osso?

Da Centona, Edizioni Clio, 1993

21.2.16

"Abbuffiniari" (S.L.L.)

"Abbuffiniari" è un verbo siciliano che s'origina più da "buffo" che da "buffone". Più che una bonaria presa in giro significa una imitazione malevola che "rende buffa" la persona che si vuole colpire, esasperandone i modi e i tic fino a stravolgerne la figura e l'identità. 

Sicilianità di Sciascia. Il mistero e la ragione (Stefano Malatesta)

Un bell'articolo, uno tra i più stimolanti tra quelli scritti in morte dello scrittore siciliano. (S.L.L.)

“Si può scrivere solo di quello che si conosce molto bene o bene. Parlo anche per me, non sarei capace di ambientare una storia al Valentino di Torino”, dice Gesualdo Bufalino. In questo senso Sciascia è stato inevitabilmente uno scrittore siciliano. Ha passato a Racalmuto l'infanzia e l'adolescenza, gli anni che contano. È andato a scuola con i figli dei contadini e dei solfatari. È stato toccato, e influenzato, almeno all'inizio, dalla cultura della solfara, a cui hanno appartenuto scrittori come Pirandello, Nino Savarese, Francesco Lanza in un mondo contadino chiuso dove i solfatari erano i mobili, i diversi, i rissosi e gli ubriaconi. La vita di Racalmuto gli sembrava un ricco teatro a cui attingere, un microcosmo che rifletteva una realtà molto più vasta, così come la realtà della Sicilia gli sembrerà una metafora della vita non solo italiana.
Poi le sue letture e i suoi interessi si sono allargati, è passato alla letteratura francese, a quella spagnola. Ci sono numerosi sicilianismi e forme dialettali nel suo primo libro, Le parrocchie di Regalpetra e pochissimi o quasi nessuno in Todo modo. Ma il fondo siciliano-paesano è rimasto e a questo qualche volta Leonardo è tornato, con piccoli saggi, divertimenti come Kermesse, un alfabeto di locuzioni locali.
Vincenzo Consolo parla, più in generale, di un modo di essere scrittori siciliani: “Una letteratura più realistica che fantastica, più attenta di altre al concreto e alla società, che non divaga, e che nei suoi migliori esempi, come accade in Sciascia, è contro. Naturalmente ci sono delle eccezioni, D' Arrigo, ad esempio. Si potrebbero individuare due o più filoni: gli scrittori della Sicilia occidentale, immersi nella storia e gli scrittori della Sicilia orientale, portati maggiormente verso temi esistenziali. La letteratura della Sicilia occidentale, alla quale Sciascia appartiene, è anche una letteratura che si ritrova negli esterni, nelle piazze. La prima parte degli scritti di Pirandello si svolge tutta quanta - l'ha fatto rilevare Giovanni Macchia - nella piazza di Agrigento. Poi ha trasformato la piazza in un ambiente borghese, chiuso, che però risente della sua origine. Anche in Leonardo c'è la piazza: la piazza dove il potere esercita la sua violenza”.
Alberto Moravia ha scritto che Sciascia è stato un illuminista alla rovescia: invece di andare dal mistero alla razionalità e alla verità, si è mosso dalla verità e dalla razionalità verso il mistero (in questo consisterebbe la sua sicilianità). Ma Consolo è d' accordo solo a metà: “Il mistero non sta nello scrittore, ma nella società, è oggettivo, non soggettivo. Leonardo aveva fortissimo il senso del diritto, che vedeva continuamente violato da due poteri: quello della mafia, ma anche quello dello Stato. Per lui la seconda violazione costituiva un enigma, che non c'era spirito illuministico che potesse risolvere e spiegare. Forse, in fondo, Leonardo era un utopista: credeva possibile, ma solo all'inizio, e teoricamente, che l'uomo potesse convivere con il potere. Perché in realtà si tratta di una non convivenza, di uno scontro impari, da cui derivano tutte le miserie dell'individuo”.
“Bisogna però stare attenti - dicono Bufalino e Consolo - a non spingere il concetto di sicilianità oltre il necessario, a non farne una formula di comodo, secondo una stretta geografia letteraria”. Gli scrittori siciliani hanno una loro inafferrabilità perché il loro pensiero può passare da un estremo all'altro, attraverso una serie di antinomie, ricorda Bufalino. Ed è l'antinomia tra ragione e mito, come in Pirandello, in cui il teatro della ragione approda poi al mito dei Giganti della Montagna. L'antinomia tra luce e lutto, tra spinta vitalistica e voluttà mortuaria. L'antinomia tra la solitudine, il desiderio di rinchiudersi e di non fidarsi e la spinta ad esporsi e a mostrarsi. L'antinomia tra ragione e mistero, com'era in Sciascia: lui andava da un polo all'altro e non sapeva risolversi.
Anche nei riguardi della donna Bufalino trova, negli scrittori siciliani, atteggiamenti opposti: “Nei libri di Brancati è testimoniata l'instabilità dell'uomo siciliano verso la donna, l'insicurezza, il tormento, che portano ancora oggi all'ossessione, al parlare sempre dell'amore, della sessualità e poi allo sfinimento e al delirio, come ad esempio, in Paolo il caldo. Nelle opere di Sciascia la donna è quasi assente o sullo sfondo: solo una volta, in una pagina di Candido, si fa un esplicito accenno ad un rapporto sessuale. Leonardo ha sempre avuto come una sorta di delicato distacco sull'argomento. Non c'erano in lui simpatie per allusioni, insinuazioni di genere sessuale o amoroso e aveva anche un rispetto per quello che giudicava un riserbo naturale. I suoi interessi stavano altrove. Un'eccezione a questo riserbo, negli ultimi anni, è stata la prefazione ad un manoscritto erotico dannunziano, che era inedito. Ma qui credo che abbia prevalso la curiosità da letterato e da bibliofilo.
Bufalino e Consolo sono d'accordo nel trovare un ultimo, finale elemento di sicilianità in tutti gli scrittori dell'isola e nel loro amico Sciascia. E' il misurarsi con una lingua straniera, l'italiano dice Bufalino. Come Conrad, che era polacco e ha maneggiato l'inglese lavorandolo al tornio, raggiungendo risultati straordinari e assolutamente insoliti per la lingua inglese, così noi siamo stati costretti ad apprendere l'italiano e ad adoperarlo per fini letterari: una delle patologie dell'insularità. Aggiunge Consolo: “Questo è successo anche per altri scrittori geograficamente marginali, come Svevo. Ma in Sicilia è stato più evidente che altrove. Leonardo scelse una lingua media, che apparentemente sembrava semplice, ma che invece nascondeva una grande ricchezza e complessità: il rovello. E aveva, tra le altre caratteristiche, una qualità, che lo apparentava a Lampedusa: l'adesione della scrittura alle cose, la perfetta rispondenza tra le parole e i fatti che andava raccontando”.


“la Repubblica”, 22 novembre 1989  

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