24.1.16

Lettere smarrite. Una nuova biografia di Jane Austen (Enrico Terrinoni)

Secondo quel monumento della civiltà inglese che è il Dictionary of National Biography, un giorno fu chiesto al filosofo britannico Gilbert Ryle se mai si dilettasse con la lettura dei romanzi. Il fiero oppositore del dualismo cartesiano, con nettezza ebbe a rispondere: «certo che li leggo: tutti e sei, ogni anno». Nel ridurre il canone romanzesco a un numero ben preciso e per giunta così ristretto di opere, Ryle faceva obliquamente riferimento alla produzione di una sola scrittrice, Jane Austen, più di altri maestra di dualismi.
Della Austen non sappiamo troppo in termini biografici, eppure si ha spesso l’impressione di saperne abbastanza. Il che è forse dovuto a quel profumo «familiare» che emanano le sue opere, sempre iscritte in circuiti estremamente ben definiti e apparentemente poco soggetti alle forze centripete e centrifughe dell’esistenza. È da poco uscito per Utelibri un bel libro titolato Jane Austen si racconta, per la firma di Giuseppe Ierolli (pp. 142, euro 13), una biografia sui generis basata interamente sulle lettere, le poche sopravvissute, dell’autrice inglese. Il testo, di taglio impressionistico e non a caso inaugurato da un commento tagliente e preciso di Tomasi di Lampedusa, è curato da un appassionato traduttore di Emily Dickinson, prima ancora che della Austen. Non si affianca certo, per aspirazioni analitiche, ai lavori dei vari La Faye, Nokes, Tomalin, ma senza dubbio si aggiunge al fecondo panorama italiano di studi sulla scrittrice inglese con una sua propria dignità, regalando al lettore curioso più d’un motivo di interesse.
Il saggio presenta la vicenda di Jane Austen innanzitutto come una «storia familiare», segnata dal rapporto con gli affetti prossimi, la sorella Cassandra, i fratelli, i nipoti: una chiave non da poco per permetterci di sondare la complessa personalità della scrittrice. E non indugia morbosamente, com’è avvenuto ad esempio di recente con il film Becoming Jane, su scampoli di flirt amorosi di cui si sa poco o nulla, e che rivelano ancora meno dei segreti di Jane Austen. Pone l’accento, invece, su quel complicato rapporto idiosincratico tra arte e vita che trasforma i romanzi della Austen in una sorta di commento obliquo sulla propria esistenza, un’esistenza di ragazza, come la descrive una zia, «niente affatto graziosa e molto compita», che una volta divenuta donna saprà dar voce al suo «particulare» dipingendo ritratti sociali di una precisione narrativa inarrivabile.
L’affidarsi alle lettere come unica fonte per la ricostruzione di una vita privata ben si adatta allo stile dei romanzi di Jane Austen, alcuni dei quali si suppone abbiano visto una prima stesura proprio come romanzi epistolari, seguendo così il solco tracciato da quel Samuel Richardson, padre del romanzo inglese, le cui storie si avvitano e si snodano proprio a partire da scambi di lettere. D’altro canto, il rilievo che queste ricoprono nella biografia di Jane Austen è provato dalle opinioni stesse dell’autrice, che scrivendo alla sorella nel gennaio 1801 rivela: «ormai ho acquisito la vera arte epistolare, che come ci hanno sempre detto, consiste nell’esprimere su carta esattamente ciò che si direbbe alla stessa persona a voce; ho chiacchierato con te quasi alla mia velocità abituale per tutta questa lettera». È una consapevolezza fondante per addentrarsi nelle fitte maglie dell’evoluzione del novel inglese. Se Richardson pensava, nell’avvicendarsi tumultuoso nei suoi romanzi epistolari, di poter sfiorare il realismo tramite la tecnica del «writing to the moment», ovvero annotando tutto quel che stava avvenendo proprio nel momento in cui avveniva per dare l’impressione di estrema urgenza e anticipando così effetti stenografici, per la Austen l’andamento epistolare rappresenta al tempo stesso un commento sul reale e una modalità dialogica per stabilire ponti, contatti con chi si ha non più vicino. È da quelle «chiacchierate» scritte nero su bianco che si evince il posizionamento dello sguardo di Jane Austen sul mondo, uno sguardo capace di annotare fin nel dettaglio più delicato il sottile ritmo di una emozione, la fragile eco di un pensiero taciuto.
Se Henry James crede sia compito del romanziere realista ottenere quella che chiama la «air of reality», Jane Austen si preoccupa di riempire quell’aria di parole sussurrate in modo preciso e con forza tanto circostanziata da donare credibilità ai suoi ritratti e inserire al contempo, nel quadretto di genere, lo stesso complice lettore. Come ci ricorda Ierolli, Robert William Chapman, curatore dell’epistolario, di fronte alla possibile obiezione che l’interesse delle lettere della Austen non fosse se non privato, non avendo nulla da rivelare della sua articolata personalità, risponde ricorrendo proprio al parallelo tra arte e vita: «queste lettere sono in realtà prive di interesse? Io non credo. Persino se Jane Austen non avesse altro per cui essere ricordata, le sue lettere sarebbero degne di essere conosciute. Lette con attenzione, forniscono un ritratto della vita della classe medio-alta di quel tempo che è sicuramente senza rivali, e non descrivono solo modi di vivere, ma anche persone. La stessa famiglia di Jane Austen, con le sue ramificazioni attraverso i matrimoni, è in se stessa un argomento più esteso – direi quasi, più ambizioso – di qualsiasi altro trattato nei suoi romanzi».
Gran parte dell’epistolario della Austen è andato distrutto per opera proprio di quell’amata sorella e confidente, Cassandra, preoccupata di non divulgare particolari poco appropriati della loro vita familiare. Così, ogni ricostruzione biografica basata sulle lettere andrà inevitabilmente a fondarsi sull’ipotesi di assenze più che sulla certezza di presenze. Tuttavia, rintracciare i profili di un’esistenza fugace nelle scie lasciate su campo bianco da inchiostro epistolare, è forse l’unico modo per far sì che quelle annotazioni meditate non si tramutino inesorabilmente in docili dead letters, ovvero in silenziose e innocue lettere smarrite.


alias domenica – il manifesto, 10.08.2013

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