22.11.15

Chiamate il medico! Morire in Sicilia, nel primo 900 (Leonardo Sciascia)

Leggendo gli Essais sur l’histoire de la mort en Occident di Philippe Ariès, mi è avvenuto di fare questa ovvia e importante considerazione (tanto ovvia che non l’avevo mai fatta; e tanto importante da mettere in moto tutti gli ingranaggi della memoria); che l'esser vissuto — stando alla misura dantesca — per più di metà della vita in un paese siciliano piuttosto chiuso e remoto, mi aveva consentito di vedere un mutamento «des attitudes de l’homme Occidental devant la mort» che altrove si è svolto in un arco di tempo addirittura secolare e che, ora dallo storico percepito e analizzato, è corso impercettibile, inavvertito, attraverso più generazioni. Non solo dunque ho il ricordo - di meraviglia, di stupore - del passaggio dal lume a petrolio alla luce elettrica (un senso di inondazione, di inondazione di luce, la prima sera che girando l’interruttore si accesero le lampade nella mia e nelle altre case), dalla carrozza all’automobile, dal grammofono alla radio, dalla neve che d’estate i carretti portavano dalle «neviere» montane al ghiaccio fabbricato in paese, dal film muto a quello (helas!) parlato; ho anche il ricordo del passaggio da un’idea della morte all’interdetto sulla morte.
Dell’interdetto sulla morte, della interdizione della morte, è parte dominante quella che Ariès chiama «medicalisation de l’idée de la vie». E su questa, ricordando e riflettendo, voglio brevemente intrattenermi.
Negli anni della mia infanzia, nel paese di contadini e zolfatari in cui vivevo, il «chiamare il medico» era in corrispondenza col «chiamare il prete». Il prete si chiamava per far si che il morituro si mettesse in regola con l’aldilà; il medico perché i familiari restassero in regola coi conoscenti, coi vicini; insomma, con la società. Che non si dicesse, imputando la famiglia di disaffezione e insieme di tirchieria: «non gli hanno nemmeno chiamato il medico». Pertanto, mentre il chiamare il prete era un fatto di sostanziale importanza, perché tra il chiamarlo e il non chiamarlo correva per il morituro la differenza tra un temporaneo soggiorno in purgatorio (di pochissimi ricordo di aver sentito dire che erano aspettati in paradiso) e l’eterno arrostirsi nell’inferno, il chiamare il medico era un atto puramente formale, di convenienza sociale. S’apparteneva, pirandellianamente, alle regole dell’apparire. Coloro che lo chiamavano (sempre troppo tardi) a visitare un ammalato, non credevano che davvero il medico potesse guarirlo (e infatti, a quel punto, non lo guariva): sicché quando il medico, a sua volta per stare alla regola, scriveva una ricetta, l’andare ad acquistare i medicinali era un estremo sacrificare alle apparenze: e se ne aveva sentimento, risentimento, come di capriccio e sopruso da parte del medico (da ciò la valutazione di buono, di bravo, al medico che si limitava a raccomandare cautela di coltri, lavaggi esterni e intestinali, diete; e la fama di asino appiccicata a quello che prescriveva medicine). In molti casi, consumato il sacrificio dell’acquisto, le medicine non venivano somministrate: a timore «spresciassero» (affrettassero) la fine o che comunque servissero soltanto a disgustare col sapore e ad agitare di paura (paura di ogni medicinale che non fosse l’olio di ricino o il chinino) l’ammalato: e inutilmente. Medici e medicine facevano insomma parte di quel decoro cui una famiglia si teneva obbligata a dar prova nella morte di una persona cara; erano elementi di un cerimoniale che preludeva a quello funerario. Di conoscere la diagnosi, nessuno si preoccupava: e peraltro quel che diceva il medico non era più chiaro del latino del prete. E alle cure nessuno credeva. La morte era «muerte y solo muerte», che s’annunciasse da lontano o improvvisamente prendesse.
Quando s’annunciava, quando si sentiva, quando non arrivava «subitanea», e cioè inaspettata, improvvisa, (l’augurare «morte subitanea» era massima espressione di odio), la morte non veniva nascosta a chi ne sarebbe stato preda. L’ammalato veniva informato del suo stato: affinché si preparasse. Quando poi, dal respiro che si faceva rantolo, si avvertiva che stava cominciando l’agonia, c’erano gli estremi saluti e le estreme raccomandazioni tra i familiari e il morente. E le raccomandazioni non andavano soltanto dal morente ai familiari, ma anche dai familiari al morente. Gli raccomandavano di cercar d’incontrare, tra le anime sante del purgatorio, quel tale parente da poco o da tanto morto: e a volte di dargli anche notizie di avvenimenti familiari e messaggi di questo tipo: che continuavano a fargli dire messe; che intercedesse, a conto di quando sarebbero morti, per la salvezza della loro anima... Di ciò io mi ricordo vagamente, come di una usanza in via di sparizione che i miei dicevano sciocca e crudele: poiché già cominciava ad agire l’interdizione, dentro quelle categorie sociali che con invidia e diffidenza i contadini dicevano «alletterate», e cioè letterate: il che si riduceva a volte al saper leggere il giornale o a scrivere una lettera. Ma un mio amico, di un paese vicino al mio (Delia, in provincia di Caltanissetta), di tale usanza ha viva (e ora terribile) memoria; e ricorda anche, non come aneddoto sentito raccontare ma come precisa cronaca, che sul punto di spirare, ai familiari e ai vicini che lo incaricavano di portare notizie e messaggi ai parenti morti, un vecchio trovò fiato e spirito per dire: «scrivetemeli su dei biglietti, ché se no me scordo». E anche questo aneddoto può servire a segnare il tramonto dell’usanza, se attendibilmente lo si può collocare alla fine degli anni venti (1928-29). La reazione «spiritosa» - o che cosi fu intesa - del morente, dimostra che quella idea della morte cominciava a diventare insopportabile.

da La medicalizzazione della vita in Cruciverba, Einaudi, 1983

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