29.11.15

Arti magiche. Il Sacro nell'arte africana (Enrico Sciamanna)

Twins Seven Seven, The Lovely Rabitt Tanner,
Inchiostro su collage di compensato
Il Ritorno dei maghi - Il sacro nell'arte africana contemporanea è il titolo della mostra che si tiene nel Palazzo dei Sette, in piazza del Popolo ad Orvieto, dall'8 aprile al 30 giugno 1999. L'enfasi con cui la qualità artistica degli oggetti in mostra viene illustrata può apparire esagerata, ma non è del tutto fuori luogo.
Non si sa quanto di quello che sfila sotto gli occhi dell'osservatore dell'esposizione sia rappresentativo di questo straordinario continente, dove al di là delle questioni economico sociali, si è ancora immersi in una realtà in cui, come sosteneva Moravia, la natura ancora prevale sull'uomo e sulle tecnologie (non sempre sulle merci). Ciò che si rivela potente infatti è quello che emerge da questa (in)consapevolezza, dallo sguardo ingenuo o tragicamente deformato degli artisti che riproducono un mondo, una fetta di esso, un uomo, che compete con una realtà altra e interpreta questa dinamica con energie lineari, cromatiche che traducono la volontà di controllare un cosmo che esplode con la forza del sole, dell'acqua della vegetazione del sesso, della fauna del dolore delle malattie, delle miserie straripanti.
Il codice d'interpretazione non può essere intellettualistico, bensì (se mai è possibile) vitalistico od onirico. Tuttavia lo scarto con esperienze europee di inizio secolo, quali espressionismo o surrealismo, che in qualche modo all'arte dell'Africa si ispiravano, è notevole, soprattutto sul piano del linguaggio.
Infatti, salvo alcune opere di autori che si richiamano all'Occidente e ne ripropongono i modelli con supina ingenuità, il codice è quello della carne e del sangue, del mistero e dell'incertezza dell'esistenza, del consumo rapido e intenso della vita sotto tutte le sue forme, della terra, dell'aculeo, del sesso praticato, della capanna riparo e scenografia del rituale, dove tutte le tensioni dello spirito assumono l'aspetto delle forme e dei colori della vita quotidiana, al massimo della saturazione e del contrasto.
Ci accoglie infatti, all'ingresso della mostra, un'installazione del senegalese Amadou Maklitar Mbaye, che è una vera e propria unità abitativa a grandezza naturale, con la raffigurazione di un uomo nero sulla soglia, sarà poi un modulo che si ripete a dimensioni ridotte, con modificazioni, di oggetti e di forme, che appaiono insignificanti, come una sorta di variazione su un tema, che consiste nella raffigurazione dell'alveo controllato, entro cui ciò che accade risulta accettabile o buono, perché governato da spiriti alleati. La tradizione ormai secolare di interesse verso la produzione degli indigeni del continente nero sempre meno tende ad affrontare ciò che gli artisti dell'Africa esprimono come uniforme e circoscrivibile all'interno di una tendenza unica. Pertanto definire, come si legge nelle opportune didascalie, quanto è esposto ad Orvieto come la vera novità presente e futura nell'arte del pianeta, risulta decisamente suggestivo, ma alquanto rischioso ed improbabile. C'è uno sfasamento di tempi nell'arte del continente nero: a un progredire, seppure lento, relativo all'avanzamento economico, corrisponde una stasi che la rende uguale a quella che aveva affascinato i cubisti della prima ora e che fa sì che ancor oggi una donna, mai uscita dal suo villaggio, possa produrre degli idoli di terracotta che penetrano in profondità nell'anima con le loro forme, in cui si riconosce l'addensarsi di tutte le pulsioni originarie dell'essere: le maternità, le misteriose divinità antropomorfe dalla fissità imperscrutabile, i percorsi curvilinei del sogno di vita.
Twins Seven Seven, originario della Nigeria, artista multiforme, pittore, cantante, compositore, a tempo perso uomo politico, colpisce con l'efficacia delle sue esecuzioni. Alla forza dei contenuti, crudi, che non indulgono affatto al pulp occidentale, unisce una potenza costruttiva del segno che non ha riscontri, né come risultato grafico, né come similarità di scelte formali in nessuna opera della nostra storia. Ha forse ragione quando, parlando della propria arte, egli afferma: "E' la sopravvivenza del potere e della creatività dei miei antenati. E' la creazione di una moderna dinamica per le generazioni future". Gli si affianca Lilanga (Tanzania), che però sembra molto vicino a certi modi metropolitani contemporanei, anche per le selezioni cromatiche troppo levigate, a scapito della coerenza culturale. Cyprien Tokoudagba è un altro artista del gruppo assai noto in Occidente. Stupisce per i suoi feticci ed i suoi serpenti legati alla misteriosa ritualità Vodun.
Ma tutte le opere, anche quelle (pochissime per la verità) più appiattite sulla cultura espressiva "dominante", esplicano la volontà di potenza, di affermazione sulla natura. Arte come blocco dell'esistenza, dell'azione incontrollata della natura, come argine all'irruenza del patire. Arte come espressione di forti religiosità ma soprattutto come magia, atto di fede nelle possibilità dell'uomo di intervenire nel cosmo per trascinarlo il più possibile dalla sua parte. Verrebbe da dire che l'aggettivo contemporanea, aggiunto al sottotitolo Il Sacro nell'arte africana, è quasi fuori luogo, perché, nonostante i collegamenti con l'Islam e il cristianesimo, questa attualità appare così antica, anzi ancestrale.

"micropolis", maggio 1999

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