12.10.15

Silla il mostro (Lidia Storoni)

Testa in marmo di Silla , Museo della civiltà romana, Roma
Se c'è un'attività che somiglia alla professione del medico, è quella dello storico. L'uno e l'altro ravvisano nella malattia non un fenomeno isolato, ma il sintomo d'uno stato patologico preesistente o l'indizio di gravi mutazioni imminenti, nell'organismo dell'individuo così come nel complesso sociale. All'uno e all'altro il computer fornisce risultati di indagini e dati quantitativi, ma non quell'intuito psicologico, quella simpatia umana, quella capacità di sintesi che la macchina non possiede. Individuare in un personaggio l'espressione di un vasto disagio sociale e l'iniziatore di un corso politico ed economico diverso - vale a dire l'esponente d'un trapasso - è ciò che giustifica la biografia; anche se spesso il genere induce l'autore a elogiare il protagonista, o, se non altro, a giustificarne l'operato.
È ciò che ha fatto in una "vita" di Silla, scorrevole e ricalcata sui dati di Plutarco, lo studioso inglese Arthur Keavenly (Silla, traduzione di Katia Gordini, Bompiani ). Silla fu effettivamente significativo d'una fine e d'un principio, e ben se ne accorsero i contemporanei se i prodigi che precedettero il suo avvento furono interpretati dagli infallibili profeti etruschi come il segno di straordinari mutamenti. Dittatore reazionario, cercò di rendere il potere alla oligarchia dei senatori, i nobili latifondisti, che detenevano le cariche in regime di monopolio. Ma, benché solidali come massoni, essi erano insidiati dall'emergere di nuove classi. Non era più il conflitto elementare tra patrizi e plebei, ma quello tra il latifondo e una borghesia imprenditoriale, composta di "uomini nuovi": gli italici, privi di antenati illustri, attivi nelle banche, nell'industria, negli appalti. Benché sprovvisti d' una dottrina politica teoricamente formulata, essi volta a volta si facevano portavoce di scontenti d'ogni genere.
Il secondo elemento che stava per diventare decisivo nella lotta per il potere era l'esercito. Il prestigio - l'Auctoritas - dei senatori declinava di pari passo con la loro fedeltà a quel codice etico che era stata la religione laica dei repubblicani d'un tempo. I nobili ormai, portatori di nomi illustri, indegni eredi d'una tradizione venerabile, del potere volevano i privilegi ma non le responsabilità. La figura di Silla è illuminata da una luce sinistra. In lui è stato visto un mostro di crudeltà, un caso patologico, l'aspirante successore dei Sette Re o il predecessore degli imperatori. Fu certamente l'inventore della Marcia su Roma. Pose i suoi ideali nel passato e cercò di resuscitarlo, ma per raggiungere questo fine si valse dei mezzi che il suo tempo offriva per la prima volta a chi voleva salire: l'esercito professionale, ligio al suo comandante e non allo Stato, e l'aureola soprannaturale che gli conferiva un prestigio carismatico. Non sfuggì ai contemporanei - a Cicerone, attento testimone di quei decenni convulsi - che in Silla esistevano in nuce i despoti, potenziali o effettivi, che lo seguirono: Catilina, Pompeo, Cesare. Se non riconobbe il suo volto in quello di Augusto, fu perché questi non gliene dette il tempo e lo lasciò trucidare senza batter ciglio dai sicari di Antonio. "Ambisce al potere monarchico di Silla", scrisse Cicerone di Cesare al passaggio del Rubicone; quanto a Pompeo, coniò per lui un verbo al futuro ("sullaturit", agirà come Silla) che potremmo tradurre alla buona con "mussolineggerà".
Era un giovane patrizio spiantato con fama di degenerato, frequentava ambienti equivoci. Intraprese la carriera politica tardivamente, quando ereditò il patrimonio necessario da due donne anziane, la matrigna e l' amante. Come avrebbero potuto resistere al suo fascino? Il suo primo incarico fu da questore in Africa, al comando di colui che sarebbe diventato il suo avversario implacabile, Mario. Dopo gli insuccessi dei generali patrizi che lo avevano preceduto al comando di quella guerra logorante e inutile, Mario, il console dei "popolari", alla testa d'un'armata di nullatenenti (erano stati arruolati per la prima volta quelli che non potevano armarsi a loro spese) stava per sconfiggere Giugurta, che regnava in Numidia dopo aver trucidato i cugini, eredi legittimi. L'opinione pubblica lo voleva sconfitto perché lo riteneva "ammanicato" con i notabili di Roma ("città venale!", pare che dicesse di Roma, "che sarebbe già venduta se avesse trovato un compratore!"). Ed ecco Silla - un vero signore, così lo descrive Sallustio - condurre a buon fine appena arrivato una missione diplomatica delicatissima: persuadere il suocero di Giugurta, re di Mauritania, a consegnarlo ai romani. Cosa che avvenne e che Silla non mancò di celebrare, persino eternando la scena della cattura su una moneta (una piccola lapide nel Carcere Mamertino ricorda che Giugurta vi fu strangolato, come, anni dopo, i congiurati di Catilina e il patriota gallico Vercingetorige).
La carriera successiva di Silla, che militò ancora valorosamente con Mario nelle campagne contro i Cimbri e i Teutoni, fu un'accorta partita di scacchi. Le sue pedine furono il matrimonio con la nobilissima Metella, la popolarità tra i soldati e, soprattutto, la sua volontà incrollabile di dominare. Per raggiungere il consolato, per strappare a Mario il comando della guerra contro Mitridate, non esitò a muovere due volte, alla testa dell'esercito, contro Roma: erano lontani i tempi in cui una madre, come quella di Coriolano, fermava il figlio alle porte di Roma. Silla giustificò la sua prima occupazione dell'Urbe, nell'88 a.C., con parole che saranno più o meno le stesse usate poi da Cesare e da Ottaviano in condizioni analoghe: il sacrilegio era stato commesso perché il console aveva il dovere di salvare la patria da una fazione tirannica. La seconda volta non ci furono parole (82 a.C.), ma soltanto sangue. Il compenso elargito a chi uccideva uno dei proscritti favoriva le vendette private, le rapine; vi furono figli che uccisero i padri, fratelli i fratelli; il giovane Catilina fu visto attraversare Roma reggendo per i capelli la testa recisa di Marco Gratidiano. Ma Silla aveva battuto Mitridate, l'esercito gli era fedele; su questa base fondò la dittatura. Impose provvedimenti avversi ai popolari; limitò al massimo i poteri dei tribuni della plebe e dei comizi; tolse agli equites, i borghesi padroni delle leve economiche, l' autorità giudiziaria che detenevano dal 146 a.C.
Era stato Tiberio Gracco, con la lex Calpurnia, a introdurre gli equites - elementi anti-senatoriali - nel tribunale che sedeva in permanenza per giudicare i reati di estorsione commessi da proconsoli, magistrati e funzionari nell' esercizio di poteri civili, giudiziari e militari, anche quando erano scaduti dalla carica. Non si trattava di inchieste caso per caso, ma d'una indagine continua su chi occupava un posto di responsabilità. Per imporre le sue volontà Silla si valse dei due elementi sui quali si fondava la sua autorità: l'imperium, che gli era stato affidato dal Senato e che aveva valorosamente esercitato per il bene della Repubblica, e la protezione particolare degli dèi, di cui menava vanto, facendosi chiamare "Protetto da Afrodite" o "Felix", il che vuol dire "Fortunato" - e, nella mentalità degli antichi, la fortuna è il premio che gli dèi concedono a chi commette azioni pie e giuste - sarà Giobbe il primo a mostrare l'esempio d'un uomo religioso e retto colpito dalla sventura.
Il dispotismo del resto era ineluttabile: un dominio così vasto doveva esser governato con prontezza e con rigore da un uomo che avesse dato prova di saper condurre un esercito alla vittoria. Quel condottiero vittorioso doveva contare sull'obbedienza dei militari, ai quali elargiva come compenso terreni espropriati a possidenti incolpevoli, e al tempo stesso doveva offrire a masse eterogenee e insicure, quali erano i sudditi dell'impero, una ideologia rassicurante, una mistica del dominio. Il connotato più notevole nella figura di Silla fu appunto l'aver promosso e accelerato quel processo di divinizzazione del sovrano che culminerà nelle immagini ieratiche e aureolate degli imperatori di Bisanzio. Forse, queste tendenze furono rafforzate in lui dai prolungati soggiorni in Asia: i militari, dal canto loro, avevano appreso in Oriente i vizi tipici di quei paesi, l'amore del lusso e del piacere. La frugalità quirite era scomparsa e l'animo virile del romano fu sfibrato proprio quando gli si chiedeva di restaurare i valori antichi. Con quel grande conservatore la fisionomia tipica di Roma si snaturò. E questa non fu che una delle ironie della storia.


“la Repubblica”, 9 agosto 1985  

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