11.10.15

I rimpianti di McEnroe, il predestinato (Stefano Gallerani)

Alla vigilia di un evento come quello che andrà in scena oggi pomeriggio sul centrale del Roland Garros, la memoria inevitabilmente ripercorre le tappe che hanno fatto la storia - e la leggenda - del campionato mondiale di tennis su terrabattuta, dall'epoca d'oro dei quattro moschettieri cui è dedicato il trofeo (Borotra, Cochet, Brugnon e Lacoste) ai sei titoli di Borg, dalle imprese di Pietrangeli e Panatta allo strapotere latino delle ultime due decadi.
Una storia di gesti bianchi, sudore e partite memorabili lunga oltre un secolo; nell'ideale classifica degli scontri più appassionanti - e drammatici - un posto d'onore va di sicuro assegnato alla finale del 1984, che vede contrapposti lo statunitense John McEnroe e il ceco Ivan Lendl. Così come tre anni prima, nel giardino uggioso di Wimbledon, lo stiletto americano aveva spodestato l'ascia bipenne svedese, anche qui siamo al preludio di un ricambio generazionale: lo strapotere fisico e della volontà soppianterà l'imprevedibilità del genio balistico e della rappresentazione. Pure, al nastro di partenza, il favorito sembra essere ancora Super Brat, ovvero il «moccioso» del Queens, gravato come si presenta, Lendl, dalla maledizione di perdente di successo (fino a quel momento il tennista di Ostrava conta quattro sconfitte su altrettante finali nei tornei del Grande Slam); e difatti, dopo meno di due ore di gioco, con il punteggio fissato sul 6-3 6-2 per The Genius, i bookmaker sembrano rassegnarsi a un pomeriggio di ordinaria amministrazione... ma, nel bene o nel male, quando in campo c'è McEnroe nulla è scontato e basta un niente a far saltare gli schemi: infastidito dal gracchiare di una cuffia abbandonata a bordo campo da un cameraman della NBC, John perde la testa e Lendl si aggiudica il terzo parziale per 6 giochi a 4 chiudendo poi l'incontro con un duplice 7-5.
«Fu la sconfitta peggiore della mia vita, persi in modo devastante. A volte, quando ci ripenso, non riesco ancora a dormire»; con queste parole McEnroe - che a settembre si prenderà la rivincita in casa, agli US Open - ricorda oggi quella domenica nera in Non puoi dire sul serio (trad. di Valentina Ricci, Pemme, pp. 376, • 18,50), l'autobiografia stesa insieme allo scrittore e giornalista James Kaplan.
Rispetto a Open di Andre Agassi, il libro scorre via come una lunga conversazione, ma poiché McEnroe è McEnroe - ossia, in tutto e per tutto il giocatore più inimitabile del tennis moderno (se Borg fu il primo ad avere il successo di una rockstar, Mac fu il primo a vivere come una rockstar) - il racconto ci restituisce (e pare restituisca al suo autore) la serenità e il bilancio ancora aperto di un'esistenza marchiata dalla condanna di ogni predestinato a confermare le aspettative per cui si è nati e dall'ostinata irriducibilità a ruoli opportunistici di un uomo che sta ancora imparando a convivere con i propri fantasmi.
«La mia peculiarità - confessa - ovviamente era perdere le staffe. Mi ha aiutato più di quanto mi abbia danneggiato? Credo proprio di no. Aveva ragione mio padre. Forse avrei riscosso successi più brillanti, se avessi evitato le sfuriate. Ma non sono mai riuscito a fidarmi del mio talento, né di nessuna altra cosa».

“Alias talpa il manifesto”, 10 giugno 2012

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