26.9.15

Senza veli. L'autobiografia di Katharine Hepburn (Romano Giachetti)

Ci vuole un certo coraggio, arrivati a 84 anni, per smantellare (smascherare, disintegrare: insomma polverizzare) tutto quello per cui si è stati famosi nella vita. Più ancora ce ne vuole se si tratta di una star. E sebbene nel caso in parola la star sia una donna che non ha mai avuto peli sulla lingua, questa volta passa il limite anche lei. In Me: Stories of My Life (Knopf, pagg. 420, dollari 25. In Italia uscirà con il titolo Jo da Frassinelli a fine mese, pagg. 336, lire 29.500). Katharine Hepburn vuota il sacco, come dovevamo aspettarci; spara giudizi senza tregua, e ci aspettavamo anche questo. Ma fa di sé un profilo disarmante, ed è una rivelazione. Fin dalla prima pagina si dichiara "stanca da morire della creatura che ho creato", la "grande bella bambola del cinema". Con un tono che non lascia spazio a nessun ghost-writer, una prosa "confessionale", certamente dettata a un registratore, e la voglia matta di tirar giù dal piedistallo la diva, la Hepburn fa ciò che nessuna diva ha mai fatto: smitizza se stessa e il mito delle star. Se salva qualcuno - John Wayne, Gary Cooper, George Cukor e naturalmente Spencer Tracy - lo fa perché erano "professionisti seri, sempre a loro agio davanti o dietro la camera". Niente di più.
Spregiudicata fin dal titolo, quel "Me" che l' ha accompagnata tutta la vita, ricorda senza veli, sforzandosi di essere onesta, al punto che - di molte cose - ci si domanda se siano vezzo o verità. Anche il vezzo, tuttavia, è verità. Infatti il profilo che si ricava è impietoso: Katharine Hepburn ha vissuto completamente concentrata su se stessa (esclusa una parentesi), ha vissuto da snob atroce, da falsa liberal, da egoista inguaribile. Furba, opportunista, dura e poi "adorabile" solo per tornaconto, recitava anche quando non recitava; e se a qualcuno è rimasta di lei l' immagine di una donna quasi intoccata, una specie di vergine di ferro, un incrocio tra la zitella inglese e la wasp, la bianca protestante americana, sangue puritano e pelle di daino, queste "storie" della sua vita distruggono anche quella.
Un amore dopo l'altro Katharine Hepburn si crocifigge. (Uno dei suoi tanti agguati?). Rivela, per cominciare, la sua vera età: è nata il 12 maggio 1907, non due anni dopo come ha sempre detto, e nemmeno l' 8 novembre, che era invece la data di nascita del fratello Tom, quello morto (forse) suicida. "Sono un' attrice? Non lo so. Non ricordo". Di certo, non faticò affatto per diventarlo. Nata in una famiglia agiata del Connecticut ("dal lato giusto della scala sociale"), due genitori forti alle spalle (medico il padre, suffragetta la madre), fratelli e sorelle esuberanti e sportivi come lei, e un passaporto verso la celebrità come i Bryn Mawr College (matrice del suo accento singolare), prima ancora di laurearsi le bastò muovere un paio di pedine - l'amico Jack Clarke, che conosceva l'impresario Edwin Knopf - e Knopf le disse: "Ah, sì. Quando finisci il college vieni a trovarmi"; e quando andò a trovarlo le disse: "Le prove cominciano lunedì".
Era in teatro. Il cinema le aprì le porte altrettanto naturalmente. Quando divenne "veleno al box office" a causa di quattro film sbagliati, reagì con quattro capolavori (Alice Adams, Stage Door, Bringing Up Baby e Holiday), che le spianarono la strada verso i suoi massimi trionfi, The Philadelphia Story e Woman of the Year. Tutto merito della sua arte? Non proprio. La donna che da piccola si faceva chiamare Jimmy perché voleva essere presa per un ragazzo, adescò il successo adescando gli uomini giusti, uno dietro l'altro. Non diversamente da tante altre attrici: solo con miglior stile. E oggi lo dice. Persa la verginità a vent'anni ("Una cosa che andava fatta") con l'uomo che avrebbe sposato l'anno dopo, Ludlow Ogden Smith (al quale impose di diventare S. Ogden Ludlow per non doversi chiamare lei "signora Smith"), e divorziata appena messo piede a Hollywood, la sua carriera corse a perdifiato; e con essa, i suoi amori, che sono innumerevoli, mai casuali e spesso "bollenti".
Ai maggiori dedica un capitolo ciascuno. Gli intermezzi sono i film, che descrive come tappe del suo successo, "proprietà" da essere contrattate, mai come arte; e i "grandi" (produttori e registi), che elogia sapientemente anche oggi. Sono come la statua della libertà- E' la galleria che fa da corona a Me-Katharine George Cukor: energico, intelligente, rococò. John Barrymore: uomo strano, affascinante, dotato di passione per l'altro sesso ma indifferente verso le sue conquiste, come se guidasse un'automobile ad aria. "Luddy", il marito: generoso, che Katharine tratta (pentendosi molto più tardi) in modo triviale. Jed Harris: scrittore-flirt che fu ospitato anche a Fenwick (la tenuta di famiglia), e che le sottrasse tredicimila dollari, mai ripagati. Il presidente Roosevelt: certi uomini hanno un fascino naturale, come Churchill, come Reagan (Nixon no). Leland Hayward: voleva sposarla, lei voleva solo spassarsela, lui finì con lo sposare un' altra, e Katharine pianse. Howard Hughes: lungo rapporto, grandi manovre ma "i temperamenti uguali fanno bene a dividersi"... Un grande uragano distrugge la casa di Fenwick. "Una vera avventura", scrive la Hepburn.
E poi gli amici della sua fortunata carriera: Louis Mayer, Garson Kanin. "Per molta gente sono un'istituzione come la Statua della Libertà", riflette. Altri uomini: William Rose, lo scrittore inglese, Charles Boyer, "cercato di sedurre ma senza successo", Humprey Bogart (superammirato soltanto). Più avanti negli anni, una confessione patetica: "John Wayne, spalle larghe (molto), torace ampio (tanto). Eccitante, quando mi strusciavo a lui (il più spesso possibile, devo ammettere... ridotta a piaceri così innocenti)".
La vecchia signora che oggi abita ancora a Manhattan, nella casa che comprò nel 1931, che per questo libro ha ricevuto quattro milioni di dollari di anticipo (circa cinque miliardi di lire), che si reputa "fortunata", che non ha mai avuto figli perché (dice) ha fatto la madre ai suoi fratelli, e che per il cinema ha sempre sentito una specie di "soave disprezzo", deve la sua fortuna - conclude - a tre cose: i genitori, l'essere stata molto amata (da "Luddy"), ed aver molto amato (Spencer Tracy, che rimane anche per lei un enigma). Sapevamo già quasi tutto? No, non detto così. Non con la spietata intransigenza di un essere umano che, essendosi "prestato" a un altro (la star), tira le somme e si avvede di aver vissuto tanto, ma come un' ombra di celluloide. Donna "fortunata"? Forse...


“la Repubblica”, 21 settembre 1991

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