23.9.15

La morte di Cesare Zavattini (Attilio Bertolucci)


Quando lo convinsi per la prima volta a vedere un film
Ho appreso la notizia nel piccolo telegiornale di mezzogiorno di ieri, venerdì, e mi è venuto di piangere: che non mi accade quasi mai. Era il 1925. Io avevo quattordici anni e frequentavo la terza ginnasiale a Parma, quando il nostro professore di Lettere si ammalò e venne a sostituirlo uno strano tipo, dalla quadrata faccia padana, romanica, e dalle infinite, bizzarre trovate per non annoiarci e non insegnarci il latino. Era iscritto a Legge e si occupava di politica meritandosi le botte dai fascisti, e di teatro, specie di Pirandello, che volle conoscere di persona e lo deluse. Io facevo dei temi molto belli (lo diceva lui) ed ero già innamorato di Baudelaire e di Walt Whitman, e insieme all'inseparabile, un po' più grande di me Pietro Bianchi, anche del meraviglioso cinema d'allora, sul finire del muto. Diventati amici del prof. Zavattini, i due compari, adolescenti cinéphiles (ci informavamo sulle Nouvelles Litteraires, così non ci sfuggivano le prime di Aurora, di Giovanna d'Arco, di Sinfonia Nuziale), cercavamo di convincerlo che il cinema non era fatto soltanto per serve e soldati. Noi lo portammo di sana pianta, un po' riluttante a vedere La febbre dell'oro. E così assistemmo a un miracolo, ad una conversione folgorante e di grandissimi esiti: la nascita del padre del nuovo cinema italiano, del suo più accanito teorico e del suo più inventivo creatore. Aveva tanto fiducia in me che, facendogli io leggere di nascosto le mie poesie, convinse un comune amico, Alessandro Minardi, voglioso di farsi editore, a pubblicare il mio primo libro, Sirio. Non era più il 25 ma il 29, e Za (ormai questo è il suo nome, messo in calce a raccontini singolarissimi che andava stampando su un quotidiano, “La Gazzetta di Parma”, dalla vedova del suo ultimo direttore affittata, per così dire, alle associazioni afasciste dei combattenti e dei mutilati, che affidarono a Zavattini il giornale dandogli modo di scatenare la sua genialità (mi pubblicava in prima pagina versioni da Lautréamont) e di affondare il quotidiano, finito poi in mano ai fascisti.
Niente paura: Zavattini nei primissimi anni Trenta fa il viaggio a Milano, riesce a farsi assumere come correttore di bozze da Rizzoli e in poco tempo con la sua avvolgente, non resistibile seppur inceppata loquela, a convincere l'antico martinitt a farsi produttore d'un suo originale soggetto, Darò un milione. Il resto è storia del cinema, che altri racconterà meglio di me, come uno storico della letteratura dovrà dire dei suoi libri: dal Parliamo tanto di me ove erano cuciti insieme i raccontini della Gazzetta, alle stupende poesie in lingua della sua Luzzara. Mi aveva giurato che non avrebbe mai scritto poesie, come mi aveva giurato che non soltanto non avrebbe mai dipinto un quadro ma non lo avrebbe mai saputo guardare. E fu pittore geniale. Era fatto così; dotato di uno straordinario talento se ne serviva soltanto quando ne poteva usare per fargli capire (e migliorare?) la vita: e se a questo poi ad un certo punto poteva arrivarci meglio, più prontamente, in maniera libera e vergine, con il pennello o con quella strana scrittura a righi brevi e inuguali che è la poesia, allora giù a dipingere quadri, a ritmare, in una musica tutta sua, anche poesia.
Cerco di distrarmi dal dolore per la perdita che abbiamo subito tutti, ma che io sento tanto più mia perché si carica del rimorso di non averlo frequentato negli anni tardi: non volevo, anche se ormai contavano poco i dieci anni che ci separavano, non volevo vederlo vecchio. Era il 25 e lui, con molti pochi soldi e molta voglia di eleganza (camicie di seta cruda e cravatte di organzino al tatto morbidissime) si accompagnava a me, a Pietrino Bianchi, che questa volta lo portavamo a Teresa Raquin di Feyder che, se non era Charlot, era pur sempre autentico cinema. Di soppiatto, al buio facendo delle differenze perché ero io il suo preferito forse perché più ragazzo, disordinato e sauvage. Mi infilava in tasca copie della “Rivoluzione Liberale” e del “Baretti” cui era abbonato; su quest'ultimo foglio di brutta carta e di preziosi scritti ho letto per la prima volta una pagina della Woolf benissimo tradotta da Umberto Morra. Così in anni tristi noiosi grigi l'intelligenza non si dava per vinta, la vocazione pedagogica che sta in ogni vero artista (e Zavattini la possedeva come pochi altri) assolveva al suo sacro compito di formazione morale e artistica della gioventù.


La Repubblica, 14 ottobre 1989

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