9.9.15

Giovanni il torinese (Giorgio Amendola)

Una piccola pagina di storia del comunismo italiano, scritta da Giorgio Amendola, secondo me splendidamente, per una rivista letteraria diretta da Giovanni Arpino che ebbe purtroppo una vita breve. A qualcuno potrebbe sembrare Secchia e a me ricorda Trotzkij. Invece è proprio Giorgio Amendola. (S.L.L.)
Giorgio Amendola con Lucio Magri
Giovanni era un operaio torinese. Nato nel 1894, aveva lavorato alla FIAT dal 1912 al 1921, quando fu licenziato per motivi politici. Esonerato servizio militare, aveva partecipato a tutte le battaglie sindacali e politiche del proletariato torinese, dalle giornate di agosto del 1913 all’occupazione delle fabbriche del settembre 1920. Fu una delle prime vittime della reazione padronale. Obbligato ad emigrare per cercare lavoro, si fermò a Lione, dove non ebbe difficoltà a trovare un’occupazione. «Con le mie capacità professionali, non restavo a spasso per molto tempo » - si vantava orgoglioso. Iscritto al Partito comunista dalla fondazione, guardia rossa mobilitata per la difesa de «L’ Ordine Nuovo» nel 1921, continuò nell’emigrazione la sua attività di comunista. Rispose senza indugio all’appello del partito, che cercava «funzionari» da mandare illegalmente in Italia. Al secondo viaggio, nel 1928, fu arrestato e condannato dal Tribunale Speciale a venti anni di carcere. Lasciava in Francia la moglie ed una figlia. L’amnistia del decennale gli abbreviò la pena, ma lo mandarono al confino. Uscirà soltanto nell’agosto del 1943.
Passai con Giovanni dieci mesi nel carcere di Poggioreale, a Napoli, nel 1935. Per protestare contro una restrizione dei diritti dei confinati, soprattutto per quello che riguardava le possibilità di studio, noi confinati di Ponza, in grande prevalenza comunisti, ci rifiutammo di rispondere all’appello serale, e gettammo sul tavolo dell’ufficiale di servizio i libretti confinari. Eravamo trecento, e per tradurci a Napoli, ammanettati ed incatenati, ci vollero tre viaggi dell’ansimante vaporetto, che impiegava 8 ore a coprire il percorso Ponza-Napoli.
Nel carcere fummo tutti alloggiati nel più moderno padiglione, quello chiamato «I» (Italia) inaugurato per l’occasione. Invece delle solite celle infestate dalle cimici e dove si era rinchiusi in tre, col fetido bugliolo a portata di mano e di naso, potevamo questa volta disporre in nove di tre celle che formavano, unite, un piccolo camerone. Sommo lusso, una quarta cella era destinata ai cessi ed ai lavandini. Nel nostro camerone, la responsabilità di direzione politica fu subito assunta dal compagno Giovanni, che teneva i collegamenti, con le dovute maniere, con gli altri membri del direttivo dispersi nei vari cameroni.
In dieci mesi di convivenza Giovanni mi insegnò molte cose, ed io lo considero uno dei miei maestri. Il suo insegnamento partiva dalle piccole cose. Se non si fanno bene le piccole cose della vita quotidiana, non sarà possibile affrontare le grandi prove che ci attendono, diceva. Nelle condizioni in cui ci trovavamo, i suoi nemici quotidiani erano la pigrizia, la sporcizia, l’avarizia.
Primo punto, la pulizia. Dobbiamo viverci dieci mesi in questo camerone, che ci è stato consegnato pulito, perché ancora non utilizzato. Dobbiamo lasciarlo nelle migliori condizioni possibili. Dobbiamo dimostrare che i comunisti sono persone civili ed educate. Ogni giorno, dunque, lavaggio generale con acqua e segatura. Ottenuta una candela, passammo il pavimento a cera. Guai a chi gettava una cicca o della cenere per terra. Lo fareste a casa vostra? - domandava con tono severo, che toglieva la voglia di dire la verità a chi a casa si era effettivamente macchiato di tali delitti. Le finestre restavano sempre aperte, la notte, anche d’inverno. Era esigente anche per quanto riguardava la pulizia personale. «Abbiamo la fortuna di avere l’acqua corrente, approfittiamone». Purtroppo le cimici entrarono nei cameroni nuovi, assieme alle brande. La lotta contro le cimici divenne cosi un compito quotidiano, ma questa volta nemmeno Giovanni riuscì a spuntarla.
Secondo punto, lo studio. La giornata era divisa in periodi. La mattina studio collettivo (storia italiana, storia del movimento operaio, principi del marxismo). I libri, camuffati sotto rilegature ingannevoli, non ci mancavano. Il pomeriggio era riservato allo studio individuale; la sera alla lettura dei romanzi. Per i giuochi (scacchi e dama, con le pedine ed i pezzi modellati con mollica di pane) era riservata un’ora soltanto, prima del silenzio. Giovanni non mancava mai di sottolineare il valore dello studio. Voi che avete avuto la fortuna di studiare - diceva ad un paio di intellettuali presenti nel camerone - dovete aiutare gli altri ad utilizzare il tempo del carcere per formarsi una cultura. Il fascismo ficca i comunisti in carcere, e non sa che prepara i quadri dirigenti di domani.
Studio, per Giovanni, voleva dire conoscenza della realtà, cioè più forte coscienza di classe. Lo studio non doveva avere scopi egoistici, individuali. Ad un operaio napoletano che voleva prepararsi a partecipare agli esami per diventare maestro, egli diceva che lo studio non doveva servire a trasformare gli operai in piccolo-borghesi, ma a rafforzare negli operai la conoscenza del mondo, quindi la capacità combattiva. Non si tratta di fare cambiare stato sociale a qualcheduno, ma di rafforzare e migliorare le capacità di lotta della classe. L’operaio napoletano riuscì effettivamente a diventare maestro, ma continuò ugualmente, malgrado il cambiamento di stato sociale, ad essere sempre un buon combattente comunista.
Terzo punto, l’eguaglianza. Tra i confinati trattenuti nel carcere di Napoli, pochi ricevevano soldi da casa. Quei soldi formavano la cassa del collettivo. Sulla base delle scarse risorse raccolte, fu deciso di assegnare ad ogni detenuto politico trenta centesimi al giorno di sopravitto, non di più (in altre carceri ed in altre situazioni si è arrivati ad assegnare fino a quote di una lira). Con trenta centesimi al giorno c'era poco da stare allegri. Ogni detenuto con una somma sul libretto avrebbe potuto spendere, per il suo consumo individuale fino a tre lire al giorno di vitto, cioè poteva comperare un piatto di paste e un etto di prosciutto. I comunisti che disponevano sul libretto di una somma dovevano invece ordinare la lista di viveri indicati dall’organizzazione: molte razioni di patate, qualche razione d’olio, qualche pomidoro. Dovevano, inoltre, pretendere di essere creduti dalle guardie carcerarie quando affermavano che le razioni di patate erano tutte per loro, essendo proibito il passaggio di viveri tra detenuti. Così chi riceveva più soldi da casa, o perché apparteneva a famiglie più agiate o perché le loro famiglie erano aiutate dal «soccorso rosso», finivano col rischiare le punizioni. «Che cosa avete da lamentarvi?» — chiedeva severo Giovanni - «anche questo è un compito di partito da assolvere».
Nacque la questione se nella quota del sopravitto era da comprendere anche il tabacco. C’era il pericolo che i compagni spendessero i loro pochi soldi in tabacco, con danno evidente per la propria salute. Questa volta Giovanni, che non fumava, dimostrò la sua umana comprensione. Propose di dare ai fumatori dieci centesimi al giorno in più, poca cosa, appena due o tre «spinelli», ma di obbligarli a mangiarsi gli altri sei soldi in patate.
La vita era sempre lotta, affermava Giovanni, e richiedeva pertanto, sempre, nelle piccole e nelle grandi cose, volontà disciplina, severità. Queste erano le doti proletarie. I “piccoli borghesi” che inquinavano la classe operaia recavano, con loro, i difetti dei ceti di origine, l'arrivismo,la pigrizia, la faciloneria. Di fronte alle autorità carcerarie Giovanni chiedeva un contegno corretto, che non ci esponesse ad inutili punizioni o ad osservazioni sgradevoli. Il regolamento andava osservato, per restare più liberi. In ogni caso mai alzare il braccio nel saluto fascista.
Anche nelle questioni sessuali, presenti inevitabilmente nella vita di una collettività, doveva sempre predominare - secondo Giovanni - la volontà ed il rispetto della propria dignità umana. Perciò, nella storia della collettività di partito in carcere, rarissimi sono stati gli accenni a tendenze omosessuali, subito stroncate dalla vigilanza collettiva. Per Giovanni anche la masturbazione era una pratica da combattere e vincere. Ci si può riuscire, diceva. E troncava sempre ogni discorso licenzioso, quelle lunghe divagazioni sulle capacità amatorie, o sulle pretese molteplici esperienze vissute, alle quali si affidano le fantasie erotiche dei reclusi.
Giovanni ci parlava a lungo delle esperienze di lotta vissute dal proletariato torinese nel decennio 1912-1922. Ci parlava dei giovani del circolo comunista di Borgo San Paolo, rigorosi nell’osservanza di un severo costume morale. I giovani comunisti di Borgo San Paolo non frequentavano i bordelli, non si ubriacavano, erano esempio di condotta morale, erano chiamati «san paolini », per scherzo, da altri giovani operai, che facevano un gioco di parole tra gli abitanti del borgo San Paolo ed i fedeli del culto di San Paolo. Ma i comunisti sanpaolini non erano bigotti, anzi si dichiaravano atei, e dalla loro capacità di autodisciplina trassero profitto per compiere il loro primo dovere di “guardie rosse”.
Per resistere bisognava essere forti, sapere vivere con poco, mettere anche qualche soldo da parte, in modo da poter resistere un giorno di più in caso di necessità. I primi a cedere di fronte ai padroni sono sempre gli ubriaconi, i viziosi, quelli che hanno le mani bucate. Ed anche le famiglie c’entravano. Non si può essere un buon rivoluzionario, se tua moglie non ti comprende e non è pronta a fare la sua parte di sacrifici. Giovanni non ci leggeva le lettere che gli mandava la moglie, ma lo faceva per pudore, perché la sua era una compagna forte e coraggiosa, e non gli rendeva la vita più amara con inutili recriminazioni o con pur giustificate lamentele, come facevano altre.
E poi affermava, per resistere di fronte al padrone, bisogna essere capaci. Giovanni era orgoglioso della sua capacità professionale di tornitore. I comunisti debbono essere i migliori in tutto, i più capaci, ognuno nel proprio campo. Così possono dare l’esempio di quello che potranno fare, quando saranno al potere: onesti e capaci. Se nella fabbrica sei un operaio capace, padrone del mestiere, nessun capo reparto potrà farti un’osservazione, e tu conquisterai un ascendente sui giovani operai, li potrai assistere nel lavoro, e così avviarli anche sulla buona strada politica. In ogni campo Giovanni esigeva un lavoro ben fatto, senza sciatterie, rifinito nel modo dovuto.
Così, nel lavoro cospirativo, queste erano le doti richieste: puntualità, segretezza, vigilanza. Giovanni era stato arrestato, perché il compagno atteso arrivò sul luogo indicato con un ritardo di un quarto d’ora. Giovanni aveva commesso l’errore di protrarre l’attesa oltre il dovuto, per non perdere il collegamento, ma era stato osservato, fermato e portato dentro. Avrebbe dovuto allontanarsi subito, passati i cinque minuti concessi dalle norme. Pochi minuti perduti, voleva dire una vita in carcere.
Giovanni partì dall’isola di Ventotene soltanto il 20 agosto. Passò a Torino pochi giorni, non s’incontrò con sua moglie restata a Lione. Dopo l’8 settembre fu tra i primi a salire sui monti, col compito di raccogliere gli sbandati e formare un primo raggruppamento partigiano. Cadde in combattimento pochi mesi dopo, nel dicembre 1943.
Ho ricordato spesso i suoi insegnamenti negli ultimi anni, ed il suo ricordo mi ha aiutato a resistere all’ondata di faciloneria e permissività, come si dice ora, che ha minacciato di travolgere quelle che Giovanni chiamava le virtù proletarie: severità, ordine, pulizia morale e fisica, volontà, l’amore del lavoro ben fatto, l’orgoglio di essere tra i più capaci, i primi in fabbrica o in classe. L’ubriacatura è passata, credo, e questi valori, a lungo beffeggiati, tornano ad essere apprezzati.
Una classe che perde le sue posizioni di forza dirigente può anche abbandonarsi e stordirsi negli effimeri piaceri dell’ultima vigilia. Sa di avere i giorni contati e li vuole vivere a modo suo. Intanto poi arriverà il diluvio. Ma una classe che ascende e pone la sua candidatura a diventare classe dirigente, non può concedersi lussi o distrazioni. Tesa deve essere al raggiungimento del proprio obiettivo, severa con se stessa e con gli altri, implacabile nel combattere pigrizie e sperperi. Una rivoluzione è sempre puritana. Quando l’osservanza delle norme severe che hanno permesso la vittoria diventa ipocrita consuetudine, copertura di ogni abbandono, codice falso e bigotto, allora essa va denunciata e spezzata. Ma per vincere occorre essere severi con se stessi e con gli altri. Ciascuno faccia bene il suo lavoro.
Se non si fanno bene le piccole cose, non si potranno compiere le grandi imprese, che pure sono oggi così necessarie: questo è l’insegnamento di Giovanni.


il RACCONTO, anno II n.8 gennaio 1976

Nessun commento:

statistiche