18.8.15

Processi agli animali. Il morso del maiale e l'asina bestiale (Anna Mannucci)

Anche la giustizia stentò a distinguere attraverso i secoli tra l’uomo e la bestia. Processi furono intentati agli animali, soprattutto nel XV e nel XVI secolo.
I procedimenti contro gli animali erano essenzialmente di tre tipi: civili, penali e per bestialità. (Qualcuno sarà incuriosito: una bestia processata per bestialità?) Per i processi civili, competente era il tribunale ecclesiastico, che agiva contro animali «nocivi»: topi, ratti, mosche, cavallette, gatte pelose, bruchi e insetti recanti danno alla proprietà privata e ai raccolti. L’intervento era affidato alla Chiesa perché si supponeva una causa soprannaturale per queste calamità (fra le 10 piaghe che colpirono il popolo egiziano nel racconto biblico, c’erano rane, zanzare, mosconi e cavallette), e si voleva ristabilire l’ordine divino.
La procedura verso questi animali era meticolosa e garantista. Gli insetti venivano regolarmente citati, con avvisi pubblici. Un esempio, dalla Val Chiavenna: il 26 giugno 1659: «... Il molto illustrissimo signor Vicario e Capitano della circoscrizione di Chiavenna e dintorni, Armano, (ordina) citarsi per ufficiale giudiziario i vermi, vulgo «Gatte», che mettono a sacco i fondi privati di detti comuni — basterà per tutti un’unica copia della presente citazione affissa ad un singolo albero in ogni comune — a comparire il giorno di sabato p.v.».
Di solito, i bruchi non si presentano. Viene allora nominato un curatore che difenda i loro interessi. Si ingiunge quindi agli insetti di desistere dai danneggiamenti e di allontanarsi dai luoghi che infestano, ma spesso viene loro assegnato un territorio su cui possano liberamente ritirarsi. Viene in-somma riconosciuto loro il diritto di vivere e mangiare: diritto di origine biblica, sottolineano i loro difensori. Infatti, nel Genesi (1,30) Dio dice: «A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo, e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io dò in cibo ogni erba verde».
L’esecuzione di un’altra sentenza, di Talamona, 1681, prescrive che «il giorno seguente sia fatta almeno una strada e dei ponti, allo scopo che le dette gattule comodamente possano passare ed arrivare al monte, cioè al bosco nominato Artolotto». Se proprio gli animali non obbediscono, si arriva alla scomunica, talvolta preceduta da un monitorio.
Colpisce la tolleranza, il rispetto, per questi animaletti, soprattutto se confrontata agli atteggiamenti di noi «moderni», abituati agli insetticidi e ai facili stermini di animali «nocivi» (che in genere rimangono tali finché non sono in via di estinzione). Qualcuno potrà invece notare che, non esistendo ancora il Ddt o simili, non c’erano molte altre possibilità di agire se non l’intervento magico-religioso, che comunque, viene tramandato, aveva quasi sempre l'effetto desiderato.
Altro tipo di processi sono quelli penali. Sono quelli intentati da un tribunale laico contro un animale domestico feritore o uccisore di umani. La bestia feroce che uccide non è processata, perché ciò è «nella sua natura». Troviamo così imputati bovini incornatori, asini scaldanti, cani morsicatori, ma soprattutto maiali: porci e troie, che dedicati a S. Antonio, vagavano liberi e spesso, stufi delle ghiande, assaggiavano carne di umano, con preferenza per quella tenera di esemplari giovani. E allora venivano incarcerati e processati, con tutti i rituali del caso, e, se condannati a morte, giustiziati dal boia.
Il terzo tipo di processi erano quelli per bestialità. Il delitto immondo di cui non bisogna neanche parlare, «cuius ipsa nominatio crimen est»: insomma i rapporti sessuali fra umani e non. Solitamente di sesso maschile i primi, femminile le seconde. L’orrore per questa mescolanza portava, dopo l’accertamento di colpe e responsabilità, alla pena capitale e al rogo, sia per l’uomo che per la bestia.
Uno dei nostri autori, il D’Addosio riporta il caso di un’asina riabilitata ufficialmente, con un certificato di buona condotta, nel 1750, in Francia, perché fu provato che essa cadde in colpa non per lussuria, ma perché costretta dall’uomo, che fu infatti condannato.


“il manifesto”, ritaglio senza indicazione di data, probabilmente 1985

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