18.8.15

L'unità d'Italia e la nostalgia per il Regno delle due Sicilie (S.L.L.)

Alcuni amici postano, nella propria bacheca fb e talora nella mia, quasi a sollecitare un mio intervento sul tema, estratti da alcuni libri (quelli di Aprile, per esempio) che mettono in discussione, dal punto di vista del Meridione, l'unità d'Italia, presentandola come la conquista, a fini di sfruttamento e dominio, di un regno prima florido e felice. L'ultimo post che mi sono trovato a commentare è costituito dall'immagine che "posto" qui sotto insieme alle delucidazioni che la corredano.
Seguono, unificati e un po' rimaneggiati, due miei commenti. (S.L.L.)  
"L'ex Regno delle Due Sicilie, scrive Vittorio Gleijeses ne La storia di Napoli, sanò il passivo di centinaia di milioni di lire del debito pubblico della nuova Italia, e per tutta ricompensa, il Meridione, oppresso dal severissimo sistema fiscale savoiardo, fu declassato quasi a livello di colonia. I meridionali pagavano più degli altri, perché costretti a rifondere pure le spese affrontate per la loro "liberazione". Tanto agognata, che ci vollero anni di occupazione militare, stragi, rappresaglie, carcere, campi di concentramento, esecuzioni di massa e alla spicciolata, distruzione di decine di paesi. Erano così ottusi, al Sud, che combatterono dodici anni (quando fu ucciso l'ultimo Brigante in Calabria), pur di non farsi liberare e di non stare meglio in un paese solo. E quando capirono che la resistenza armata era persa, se ne andarono a milioni al di là dell'Oceano, piuttosto che godersi la compagnia dei loro rapaci liberatori”.
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Commenti fb (17 agosto 2015)
Il Regno delle Due Sicilie era un'invenzione linguistica: in realtà era stato cancellato il regno di Sicilia, con un suo Viceré e una sua autonomia, assorbito e assoggettato dal Regno di Napoli. L'impresa di Garibaldi riuscì perché si giovò, in Sicilia, di un generalizzato malcontento contro il malgoverno dei Napoletani. I Savoia usarono Garibaldi, i Siciliani e anche la camorra partenopea per liquidare il forte regno borbonico del Sud Italia, le cui casse erano floride anche per le vessazioni sui siciliani. (Il grande deficit piemontese aveva invece come ragioni principali la Guerra di Indipendenza, i contributi forniti ai volontari e le compensazioni all'alleato Napoleone III. Pesavano meno, ma pesavano anche alcune private malversazioni del Re Vittorio Emanuele II).
Già Garibaldi in Sicilia scelse la grande proprietà terriera e la borghesia mafiosa (il termine mafia si afferma in quegli anni, ma la cosa già c'era) contro i contadini (vedi la rivolta di Bronte) e anche contro il ceto medio urbano. Non pochi siciliani, nobili, grandi proprietari e mafiosi (amministratori dei feudi, campieri, padroni di solfare) ebbero ruoli di primo piano non solo nel governo locale, ma in quello centrale, come nell'esercito, nella pubblica amministrazione (tanti questori e prefetti, direttori generali, capi di gabinetto e altri ministeriali ecc.) fino ad ottenere una sorta di primazia con Crispi e Di Rudinì. I pesanti dazi sullo zolfo e sul grano duro proteggevano le produzioni dei mafiosi e dei latifondisti siciliani (nel Sud Italia, invece, niente solfare e pochissimo grano duro).
In Sicilia non vi fu – ovviamente - alcun brigantaggio filoborbonico (i Borboni erano odiati e i loro baffuti emissari calabresi e pugliesi chiamati "mussa luordi"). La ribellione dei siciliani al nuovo stato ebbe connotazioni prima repubblicane (la rivolta del Sette e Mezzo del 1866 guidata da mazziniani ed ex garibaldini, dopo la quale i savoiardi fucilarono - tra gli altri – anche il mio antenato Cordone), poi socialiste. Nella sostanza la storia che i borboneggianti raccontano presenta molti elementi di verità per il Sud continentale dell'Italia, pochissimi per la Sicilia. Ciò spiega come l'emigrazione transoceanica dei siciliani non avesse come quella del Sud Italia un'impennata negli anni Ottanta, dopo la liquidazione cruenta del brigantaggio, ma piuttosto alla fine del secolo, dopo la feroce repressione dei Fasci dei Lavoratori, ordinata da Crispi, che giunse a far minacciare il bombardamento di Palermo.
E' peraltro verissimo che sull'unità d'Italia pesò una forte ipoteca nordista, piemontese e lombarda in primo luogo, cosa che è stata a lungo analizzata dai pensatori meridionalisti, da Dorso a Salvemini a Gramsci. 
Secondo Gramsci questa connotazione antimeridionale e antiinsulare dello stato unitario andava superata con la stretta alleanza degli operai del Nord-Ovest, dei contadini senza terra del Sud e delle Isole, dei mezzadri del Centro-italia e del Veneto (anch'esso, al tempo, sottosviluppato e terra di grande emigrazione) in lotta per la riforma agraria, onde mettere fine al primato del Nord-Ovest e al potere romano (la cosiddetta “consorteria”) costituitosi intorno alla monarchia, all'esercito, al governo e alle banche e sostenuto dal grande parassitismo meridionale (mafiosi, politicanti, grandi proprietari, funzionari spesso corrotti). Per realizzare quest'alleanza Gramsci riteneva che fosse necessario un centro di elaborazione culturale e di direzione politica (un "intellettuale collettivo" e un "nuovo Principe", per usare il suo linguaggio ), che per lui era il partito comunista.
Anche senza simpatizzare per Gramsci e per il comunismo, si può però dare un giudizio negativo sui Savoia, su come realizzarono l'Unità, sui garibaldini che ne furono strumento, sulle ruberie piemontesi, toscane e romane, senza provare nostalgie per i Borboni e per il loro regno, particolarmente odioso per i Siciliani, e senza sognare ridicole separazioni, oltre tutto poco convenienti per il Sud e la Sicilia, che farebbero la parte dei limoni spremuti. (S.L.L.) 

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