25.8.15

L'Unità di Renzo Foa e il Tolstòj di Sibaldi

Renzo Foa
Come si sa, ampiamente ricambiato nel disamore, Occhetto non amava e non ama Massimo D'Alema, che era – nei piani di Natta e di altri – il candidato alla successione nella guida del Pci, saltando Occhetto stesso, cui si rimproverava una qualche dismisura, un eccesso di vanità e protagonismo, e tutta la generazione di Occhetto.
Nell'aprile del 1988, quando a Perugia Natta fu colpito da infarto, Occhetto forzò per la propria successione, ottendendone (forse) le dimissioni; D'Alema, che era in quel tempo direttore de “l'Unità”, non si oppose, scegliendo di condizionare il nuovo segretario. Occhetto lo collocò in segreteria e, dopo la svolta della Bolognina di fine 89, gli conferì il ruolo privilegiato di coordinatore, ma ottenne che, nel percorso di scioglimento del Partito, la direzione de “l'Unità” venisse attribuita a Renzo Foa, meno legato all'apparato e alla storia del Pci. Foa aveva alle spalle una carriera di giornalista (negli anni Ottanta redattore capo e con D'alema vicedirettore de “l'Unità”), ma soprattutto era figlio di Vittorio, figura storica dell'azionismo e testa pensante della sinistra critica non comunista. Ad Occhetto Renzo Foa, che assunse la direzione nell'estate del 1990, dava pertanto più garanzie di una decisa rottura con il passato.
Foa si dimostrò più realista del re: la redazione de “l'Unità” restava assai composita, espressione dei diversi orientamenti presenti nel partito, ma negli editoriali del direttore e nella sollecitazione di collaborazioni esterne manifestò un indirizzo non già postcomunista o socialdemocratico, ma decisamente anticomunista. 
Come lui stesso più tardi rivelò, il campione dell'anticomunismo giornalistico, Indro Montanelli, fondatore e direttore del “Giornale”, gli mandò un fax nel 1991, ov’è scritto: “Caro Foa, tra le tante cose su cui dobbiamo metterci d’accordo è, ogni tanto, di non essere d’accordo su qualcosa, altrimenti saremmo sbranati dai nostri”. 
Renzo Foa ebbe poi una precipitosa deriva a destra: finì con lo scrivere per “il Giornale” di Berlusconi esaltando la figura di “statista” del Cavaliere, per poi passare alla fronda di Casini e Adornato col giornale “Liberal”, per poi morire tra le braccia dei preti e specialmente di Monsignor Rino Fisichella, espressione della Chiesa più retriva e intrigante.
Emblematico della direzione di Foa è l'articolo che segue. Per l'ottantesimo anniversario di Tolstoj si commissiona un articolo a Igor Sibaldi, che s'intende di letteratura russa, ma non è uno specialista sull'autore di "Guerra e pace" (nel “pezzo”, com'era prevedibile, dice poco di lui e niente della sua opera); è piuttosto un ammiratore di Solzhenitsyn, di cui condivide le pulsioni mistico-reazionarie (Sibaldi è studioso di miracoli e “angelologo”) e soprattutto l'anticomunismo viscerale. Arriva a prendersela perfino con Gorbaciov, che al tempo era ancora a capo del Pcus e, tra molte contraddizioni, tentava una riforma del sistema sovietico.
L'articolo che qui “posto” a mio avviso vale poco, anche se qualche notizia curiosa vi si ritrova, ma è emblematico di un momento preciso, quello in cui Occhetto e con lui molti “svoltisti” smaniavano di liberarsi - come se fosse “zavorra” - non solo del comunismo, ma della storia del movimento operaio, il momento in cui si sdoganava perfino la reazione pur di demonizzare il comunismo e dare corpo alla propria abiura. (S.L.L.)

Quel profeta di Tolstoj
Solzhenitsyn l’ha presa da Tolstòj, quella lunga barba patriarcale che si è fatto crescere da quando abita nel Vermont: e in atteggiamenti tolstoiani, fin troppo tolstoiani, Solzhenitsyn ama farsi fotografare. In primi piani intensi, burberi - un po’ da santino, un po’ da icona. Oppure seduto su un tronco abbattuto, con una radura sullo sfondo: e con gli stivali di cuoio morbido, alti, e la casacca larga, sempre burbero. O ancora, al tavolo di lavoro, in una prospettiva specialissima che ricorda tanto gli schizzi a carboncino che il pittore Repin faceva di Tolstoj, mentre Tolstòj correggeva le bozze.
E fa bene, Solzhenitsyn. Quelle sue foto sono una citazione, anzi più ancora: sono un modo molto immediato di esplicitare una sua intenzione precisa, onesta e coraggiosa: replicare Tolstòj, appunto. Non il Tolstòj romanziere (che è difficilissimo da imitare), ma il Tolstòj polemista: il Tolstòj che alla fine del secolo scorso si scagliava, in articoli, saggi, lettere aperte, proclami, contro i padroni dell'impero russo -lo zar, il sinodo, la burocrazia, la stampa lealista, i latifondisti. Anche Solzhenitsyn oggi scrive articoli e lettere aperte contro i padroni dell’Urss: Gorbaciov, il partito, la burocrazia, l'intellighenzia chiacchierona e confusa, l’apparato economico - non meno latifondista e non meno rovinoso dei grandi possidenti prerivoluzionari. E anche lo stile dei suoi scritti politico-morali - imperioso, austero, pieno di odio e di amore - e perfino la tonalità dei titoli, Solzhenitsyn li prende ancor sempre in prestito da Tolstòj. E insisto: fa bene, Solzhenitsyn.
La storia si ripete, infatti: e occorre che anche gli uomini si ricordino quali risposte alla storia è importante ripetere. Tolstòj, cent’anni fa, argomentò (con straordinaria caparbietà: dal 1880 al 1910) una serie di risposte mirabili, che scossero fin nelle fondamenta non soltanto l’impero russo ma tutta quanta la cultura occidentale. Disse appunto ciò che oggi sta ripetendo Solzhenitsyn: si dia subito la terra ai contadini, si dia subito la libertà a tutte le popolazioni dell’impero che vogliono staccarsi dal giogo di Mosca, si elimini la chiesa di Stato (oggi Solzhenitsyn dice: si elimini il partito), si elimini il governo centralizzato (allora lo zar, oggi ancor sempre il partito nei suoi vari trasformismi) e si permetta lo sviluppo di una democrazia autentica, strutturata in tante piccole unità territoriali. Tolstòj aggiungeva altresì: basta con le tasse, basta con il servizio militare, basta con la scuola di Stato. Solzhenitsyn questo non lo dice: non ancora: forse riuscirà a dirlo tra un po’; o forse gli pare un po’ troppo. Tant’è. Tolstòj lo diceva splendidamente. E già prima che il sinodo lo scomunicasse (nel 1901), chiedeva a chiare lettere che lo si venisse ad arrestare, nella sua tenuta a Jasnaja Poljana: che lo si mandasse ai lavori forzati o magari anche al patibolo, per incitazione alla rivolta. «Per me», diceva, «sarà una liberazione: meglio questo, che non vivere nel mondo che voi avete costruito».
Nessuno lo arrestò mai: dopo Guerra e pace e Anna Karenina il conte Lev Tolstòj era troppo famoso, troppo amato in tutto il mondo.
Così, i suoi articoli, saggi e lettere aperte continuavano a fare il giro del mondo (proprio come oggi quelli di Solzhenitsyn). In Russia, circolavano in copie ciclostilate o dattiloscritte. All’estero, venivano stampati in russo da qualche esule tolstoiano (in Inghilterra, in Svizzera), e puntualmente, in capo a un mese venivano ripubblicati dai maggiori quotidiani dei cinque continenti, e poi in brossure, e in antologie cheandavano a ruba.
Uno dei suoi lettori più entusiasti fu Gandhi, che gli scriveva firmandosi «vostro discepolo», e strutturava la sua teoria della non-violenza sui presupposti della «non-resistenza al male», esposti da Tolstòj in una lunga serie di scritti ivi compresi un paio di voluminosi trattati. C’era Thomas Edison, che gli mandò un fonografo perché Tolstòj incidesse le proprie tirate profetiche e il suo pubblico, in tutto il mondo, potesse ascoltarne la voce (e la registrazione - del 1908 - si è conservata: è una voce netta, energica, sferzante, con una vezzosa pronuncia aristocratica della lettera «zh»: “Nel'zjà tak zhit!” - “Non si può vivere così!”, comincia il brano registrato). C’erano i cattolici modernisti italiani, che inviarono una delegazione a Tolstòj (Semeria e Minocchi, nel 1903), e Tolstòj li trattò malissimo. Malissimo fu trattato anche Rilke, quando andò lui pure in pellegrinaggio nella tenuta di Tolstòj, insieme a Lou Salomè: aspettarono il loro turno, tra decine di visitatori illustri e di pellegrini russi (che ai primi del Novecento avevano messo la casa di Tolstòj nel loro itinerario abituale tra i luoghi santi della Rus’), e quando finalmente li si fece entrare, Tolstòj dedicò loro soltanto qualche minuto, e poi se ne andò sdegnato. C’era Pascoli, che gli dedicò un intero poemetto ( Tolstòj, in Poemi italici): cominciava
Cercava sempre, ed era ormai vegliardo:
Cercava ancora, al raggio della vaga
lampada, in terra, la caduta dramma...
e finiva con un ideale incontro tra San Francesco, Dante, Garibaldi e Tolstòj.
La caduta dramma (cfr. Luca 15,8-9).
Tolstòj cercava sostanzialmente due cose: cambiare il mondo, e cambiare se stesso. Dedicava a entrambe la medesima passione, e ansia, ed energia, e alla prima cosa giunse ben più vicino che non alla seconda. Non soltanto per quel che riguardava la pars destruens delle sue polemiche (giacché è indubbio che il fenomeno Tolstòj, la presa che gli attacchi tolstoiani ebbero sulle masse russe contribuirono alla destabilizzazione che sfociò poi nella rivoluzione), ma anche per la pars construens. Tolstòj ebbe infatti una quantità considerevole di discepoli. È un episodio poco noto della storia russa, reso noto nei dettagli solo di recente con la pubblicazione del volume Vospominanija krest'jan-tolstovtsev, 1910-1930 gg. (Memorie di contadini tolstoiani, 1910-1930,
Mosca 1989). In Russia presero forma, fin dai primi del ’900, numerose comuni tolstoiane, impegnate cioè nella realizzazione dei precetti economici, morali, sociali, che Tolstòj aveva tratto dal Vangelo: le prime di queste comuni ebbero breve durata, pochi anni, le altre, dal 1910 in poi, prosperarono - nella Russia centrale e in Siberia. Divennero grosse comunità autosufficienti, pacifiche, ospitali - fino a che lo stalinismo ne fece piazza pulita, negli stessi anni in cui l’enorme produzione saggistica tolstoiana cessava di venir ripubblicata in Occidente, dove né gli Stati fascisti, né quelli «liberi» potevano più permettersi di lasciarla circolare.
La seconda cosa, invece - cambiare se stesso - fu sempre il suo tormento. Tolstòj era, in tutto il suo essere, un aristocratico russo vecchio stile, altero, viziato come un bambino e smisuratamente ricco, e tutto ciò gli ripugnava. La ricchezza, la fama, il titolo nobiliare, lo rendevano parte integrante di ciò che la sua fede furibonda nel Vangelo gli faceva detestare: voleva e doveva diventare povero, e non ci riusciva. I suoi sforzi per riuscirci, i suoi progetti di fuga da casa, che a tanti suoi lettori paiono ipocriti, suscitano in realtà molta pena e molta tenerezza. Morì, come si sa, la prima volta che provò a realizzare davvero quel progetto di fuga, lo stroncò una polmonite, in una stazioncina ferroviaria - nella casa del capostazione. Il 7 novèmbre 1910, a 83 anni. Quasi che il suo immenso amore per sè stesso fosse insorto disperatamente contro quell’estremo, disperato tentativo dell’io di cambiare sè stesso per amore del Vangelo.
Altro che ipocrisia. Lo dice così bene Elias Canetti, in Potere e sopravvivenza (Adelphi, Milano, 1974. pag. 138): «Proprio le contraddizioni di Tolstòj lo rendono sommamente credibile. È l’unica figura del passato che nei tempi nostri si possa prendere sul serio». È uno specchio che ereditiamo: Russia a parte, in Tolstòj si esprime la contraddizione fondamentale che chiunque si trova ad affrontare quando riflette con onestà ai guai, allo sfacelo del mondo in cui vive: la disperante fatica di cambiare sè stessi alimenta la volontà di cambiare il mondo - e questa volontà non esiste senza quella fatica disperante. È uno specchio, Tolstòj, un'espressione del limite della natura umana: espressione che in lui prende forma di perenne ricerca di superamento, più ancora: prende forma di sfida - e si infrange contro se stessa. Fin qui noi siamo, ancor oggi. (Igor Sibaldi )

l'Unità, 9 novembre 1990

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