27.8.15

Gennaio 1989. Due ore con Fidel (Osvaldo Soriano)

Quanti sogni, quante speranze e frustrazioni 
simboleggia per noi l’uomo che è lì in piedi, 
vicino al marciapiede, 
mentre agita le braccia come un nuotatore solitario?
Rappresenta ancora 
l’inquietante fermento della rivoluzione
che doveva incendiare tutta l’Americalatina 
per redimere gli oppressi e gli umiliati?
La Mercedes Benz nera che ci porta 
si ferma a pochi passi 
dalla sua gigantesca figura 
vestita di verde oliva...
Fidel 1989 - Un comizio sotto pioggia
L’AVANA, gennaio.
E’ il tramonto all’Avana e il caldo è umido e appiccicoso. Fidel Castro si gira e guarda al di sopra della barba lunga e canuta. Ha le guance arrossate da un’irritazione o forse dalla stanchezza.
Gabriel Garcia Marquez apre la portiera dell’auto e scende come se fosse a casa sua. «Vieni che te lo presento» dice, e attraversa la rampa del palazzo dei convegni. Le guardie mi scrutano con curiosità e penso che per facilitare il loro lavoro sia meglio non muovere la borsa che porto sotto il braccio. Cosa sto facendo io in quel posto, mentre vado incontro all’uomo che tante volte ha commosso il mondo? Garcia Marquez dice il mio nome e il comandante mi tende una mano pesante mentre mormora: «Sì sì, ti abbiamo letto, hombre» e i suoi occhi si fanno piccoli, un po' perplessi di fronte all'intruso.
Osvaldo Soriano
Alcuni minuti prima, in uno chalet circondato da giardini, una chiamata ci aveva fatto lasciare a metà il bicchiere di rum. «Ho un appuntamento urgente», mi dice Garcia Marquez e si offre di accompagnarmi fino al palazzo dei convegni, dove erano riuniti più di 300 intellettuali latinoamericani per dibattere sull'arte, la scienza e le comunicazioni, convocati dalla Casa de las Americas.
L’autista oltrepassa la porta degli invitati, attraverso la quale avrei dovuto entrare, e gira attorno all’edificio fino a una lunga galleria di cemento e vetro. Fino a quel momento non avevo mai pensato di conoscere personalmente Fidel Castro. Nemmeno il capo della rivoluzione cubana aspettava un visitatore tremante, nervoso, che aveva saltato senza volere il cerchio della sicurezza, il protocollo e la prassi per fissare un appuntamento. Faccio un passo indietro, chiedo da dove si esce da quel pasticcio e un uomo della sicurezza mi mostra la strada verso il parco. «Dove vai? — chiede il comandante e aggiunge imperativo — vieni, hombre, rimani un momento».
Saliamo una scala e poi attraversiamo un corridoio. L'ho chiamato «comandante» e cosi mi sembra che sia meglio. Il familiare «Fidel» è per i cubani che gli mostrano le loro case distrutte dal ciclone che una settimana prima aveva squassato l’isola, o quelli che lo circondano per le strade della città vecchia per fargli lamentele o dargli consigli.

Ossessionato dalla precisione
Improvvisamente si ferma, guarda Garcia Marquez e sospira con complicità: «L’uomo ci ha già fatto innamorare», esclama. Parla di Florentino Ariza, il protagonista di L’amore ai tempi del colera che aveva cominciato a leggere la notte prima (è l'ultimo romanzo dello scrittore colombiano, pubblicato il mese scorso ndr).
«Mi sono addormentato alle sette del mattino, ma ho scoperto che usi alcune parole che non esistono, che non si trovano nel dizionario». Gabo sorride. Gli piace che l’eroe della Moncada e della Sierra Maestra si sia rivelato con le sventure di un amore fittizio e impossibile. «Tetamenta, che parola è questa?», chiede Castro. È già seduto su un modesto divano in una sala vuota, neutra. «Lo so, gli scrittori inventano altri mondi, però ti assicuro che quel galeone pieno d’oro che tu descrivi andrebbe a fondo sicuramente. Ho fatto il calcolo e non si scappa, con un peso simile si va a fondo».
Fidel Castro è ossessionato dalla precisione. I suoi discorsi e le sue chiacchiere sono piene di cifre e di dati che soprendono i suoi interlocutori. Quando domanda non tollera vaghezze: «Quanti piani ha il centro culturale di Buenos Aires? Quante stanze? Quante automobili circolano tutti i giorni sull’autostrada che attraversa la capitale argentina? E’ impossibile sfuggire a quella fine ragnatela che la sua voce tende intorno all’ospite assorto. E’ un uomo cordiale, cosciente che il suo enorme potere intimidisce fino alla paralisi. Allora, quando mi vede accendere una sigaretta, vuole mostrare una certa fragilità: «Sono quattro mesi che non fumo, ma non l’ho ancora detto ufficialmente. Bisogna vedere se sono capace di resistere. Stiamo facendo una campagna contro il tabacco e devo dare l’esempio».

L'illusione del potere
Senza il leggendario sigaro sembra più vulnerabile. O forse è l’età, quei 59 anni che racchiudono una delle più formidabili volontà politiche di questo secolo. Se Nikita Kruscev e John Kennedy sono stati sul punto di far saltare il mondo, è stato perché quest’uomo si ostinava a difendere l’orgoglio di un piccolo popolo e perché iniziava a forzare il cammino della storia. Si ricorda ancora la sua sacra collera del 1962, quando l’Urss aveva deciso di ritirare da Cuba i missili puntati verso il territorio nordamericano.
A quell’epoca Che Guevara era vivo, firmava le banconote che adesso portano il suo ritratto e tutti i sogni erano possibili per la generazione dei Beatles. Gli Stati uniti avevano subito sulla spiaggia Giron una sconfitta che anticipava quella del Vietnam e il continente cominciava a bruciare di passione rivoluzionaria.
Cos’è rimasto di quella utopia fervente, spazzata via dai Pinochet, Videla, Banzer e dall'ordine militare del Brasile e dell'Uruguay? Invecchia la rivoluzione cubana con i fardelli del pragmatismo e dell’esilio?
Sarebbe troppo comodo e ingiusto affermarlo. In questo periodo, silenziosamente, Fidel Castro sta forzando un «aggiornamento» della società precomunista che pochi credevano possibile. Alti funzionari storici vengono sostituiti da altri, più aperti a una concezione moderna del socialismo.
Nei giorni in cui si è svolto il secondo incontro di intellettuali per la sovranità dei popoli, i delegati di tutta l’America hanno visto salire sul palco degli eletti sacerdoti e psicanalisti, scienziati esperti di cibernetica e sarti che hanno imparato da Dior e Pierre Cardin. Qualcosa comincia a bollire in quell’isola poverissima, che vive sul piede di guerra, minacciata, vilipesa, condannata per incomprensione, per comodità o mala fede.
Però niente di questo emerge nella nostra conversazione.
Almeno non in modo esplicito. Fidel Castro parla della vecchiaia come se volesse allontanarla. Evoca i paesi della gerontocrazia e dice, pensoso: «Speriamo che qui non ci succeda questo». Però, come lotterà contro il passare del tempo l’uomo che è andato nella sierra con undici sopravvissuti per fondare il primo stato socialista d’America? Secondo lui (e forse parla di se stesso) un uomo di settantanni che stia attento nell’alimentazione, che faccia ginnastica tutti giorni e non fumi, avrà la forza di uno di quaranta.
«La gente che vive in tensione muore giovane», dice e mi guarda con gli occhi penetranti, aggrappato al bracciolo del divano. Gli dico che la mia tensione è dovuta alla sorpresa dell’incontro e lui ride.
Qualcuno serve un bicchiere di rum e Fidel Castro non sembra avere fretta. Garcia Marquez lo guarda in silenzio, come se conoscesse tutti i suoi segreti. Frey Betto, un prete brasiliano che ha pubblicato un libro di conversazioni con Castro sulla religione, racconta i suoi incontri con i vescovi di Cuba. «Non hanno mai capito il senso della storia», replica il comandante e allora mi rendo conto che non potrò mai scrivere quello che sto sentendo perché sono un amico di un amico, qualcuno a cui si dà fiducia per procura.
Uno degli uomini più amati e temuti del mondo intero parla adesso del potere, dell’«illusione del potere», come lui preferisce chiamare la sua capacità di capire e guidare gli uomini e le idee del suo tempo. Improvvisamente si volta, mi appoggia un braccio sulla spalla e mi dice che qualcuno ha voluto ingannarlo con l’intenzione di fare del bene alla rivoluzione. Lo ripete una volta e una seconda, con calma didattica, avvicinandosi al sorpreso funzionario, alzando appena il tono della voce, facendo calcoli sugli impulsi telefonici e le frequenze della televisione, come se volesse persuaderlo per la millesima volta che può sapere tutto, leggere tutto, controllare tutto per proteggersi dalle migliori intenzioni di estranei.

La rivoluzione più insonne
In pochi minuti ho avuto l’opportunità di ascoltare quello che non avrei voluto. Mi chiedo di nuovo che cosa sto facendo lì, sorridendo di fronte a un uomo che non smette di aizzare le belle coscienze di questo mondo e mi sento un intruso che per sbaglio è entrato in una camera da letto sbagliata. Il comandante capisce la situazione e la risolve con una battuta che affonda come un coltello nell’acqua. Ci sono sei persone nella stanza e alcune non hanno dormito durante la notte. Quella cubana è la rivoluzione più insonne della storia perché il suo capo vuole essere dappertutto contemporaneamente. Sentire, vedere e giudicare su qualsiasi cosa che tocchi il destino del suo popolo ribelle. In qualunque angolo dove c’è qualcuno che dorme, Fidel Castro vigila. Miami è a sole cinquanta miglia e il nemico ha il braccio lungo e minaccioso. Per questo il comandante va a dormire quando sorge il sole, quando è sicuro che anche l’ultimo cubano si è buttato giù dal letto disposto a lavorare per la sopravvivenza.
Però non tutti pensano che lo sforzo valga la pena. «Non c’è dio che distrugga questa rivoluzione, né dio che la sistemi», scherzano alcuni scontenti che avvicinano gli stranieri nella strade dell'Avana. Per loro, la burocrazia ha creato un sistema di privilegi che neppure lo stesso Fidel Castro potrebbe eliminare.
Radio Marti, finanziata dalla Cia, trasmette una versione idillica della vita nel capitalismo. Non paragona Cuba agli altri paesi dei Caraibi, o all’America centrale, ma alle società consumistiche più avanzate.
Per un cubano che trionfa a Miami mille sono sotterrati in un immondezzaio di umiliazione e miseria, però né Radio Marti né gli esiliati si si diffondono sul tema. In realtà, lo scontento di molti ha a che vedere con lo stallo di un’economia monocolturale che permette appena l’uguaglianza delle opportunità nella scarsità e a volte nella penuria.
Risolti tutti i problemi dell’istruzione e della salute (due orgogli della rivoluzione), persistono gravi carenze negli approvvigionamenti, nell’impiego del tempo libero e nel pluralismo delle opinioni, come lo si interpreta nelle democrazie liberali.
Però se non ci sono dei che rovescino questa rivoluzione, molti cubani sono convinti che l’uomo che adesso mi sta parlando della finzione letteraria potrà risolvere l’inerzia burocratica e fare un salto verso una tappa che metta in marcia nuovi meccanismi di partecipazione. A differenza di altri leaders, Fidel Castro non ha incoraggiato il culto della personalità. All’Avana non ci sono monumenti prematuri né slogan che lo presentino come esempio di tutte le bontà rivoluzionarie e umane. Quest’uomo è nel cuore della gente e questo neppure il più esasperato avversario oserebbe negarlo.

Un enorme gatto insoddisfatto
Pochi giorni dopo il nostro incontro, la televisione brasiliana ha girato un lungo reportage e, all’improvviso, gli ha proposto di uscire per strada, mescolarsi con la gente. Lo spettacolo è impressionante: riconoscendolo, i cubani si buttano su di lui, espongono le loro lamentele, propongono soluzioni per questo o quel problema, chiedono una casa o gli fanno vedere l’abito bianco della sposa. Il comandante si ferma, spiega, discute, cerca di convincere, persuadere. Nel suo atteggiamento non c’è il paternalismo né la compiacenza dei caudillos. Sa dire di no e anche spiegare fino alla noia le difficoltà dei rivoluzionari indigenti.
Sono passate due ore da quando è iniziata la conversazione. Si è alzato perché ha un appuntamento e si attarda sulla porta come se volesse rimanere. Potrò raccontare di questo sorprendente incontro soltanto se dimentico le parole e disegno una silhouette nella penombra, un volto nello specchio umido. Litigando con gli spettri della mia gioventù e il pesante carico del tempo che ci ha segnato la faccia e indurito il cuore.
Garcia Márquez parla un’altra volta della vecchiaia e della morte, così presenti nel suo nuovo romanzo. Fidel Castro fa un gesto noncurante : ha visto morire molti, è sopravvissuto con tanto impegno agli attentati, che è sicuro di incarnare la buona fortuna. Sembra così solitario, così asettico nella divisa verde e gli stivali lucidi, che sorprenderebbe vederlo estrarre addirittura un fazzoletto.
Porta ancora con lui la nostra utopia, il pezzo di storia che ancora non abbiamo percorso per sconfitta o fatica ideologica? In ogni modo, quest’uomo ha incarnato gran parte di una speranza fatta di rumore e di furia. Anche se da vicino sembra un enorme gatto insoddisfatto che vede avanzare, nella notte e nella nebbia, il fantasma trasparente dei nostri sogni distrutti.


il manifesto, 12 gennaio 1989

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