28.6.15

La Serenissima e i contadini: un feroce sistema di tasse e balzelli (Beatrice Andreose)

La syatua del Ruzante a Padova
Citata, vezzeggiata, invocata e rimpianta. La Lega Nord indica nella Repubblica Serenissima il più alto grado di civiltà raggiunto dalla storia veneta. Ma ne siamo certi? Una lettura meno superficiale e viziata da ideologia dimostra che essa fondava la sua ricchezza e la sua forza sullo sfruttamento del lavoro contadino perpetrato attraverso un sistema fiscale che impoveriva fino alla fame gli abitanti dei contadi e della terraferma in generale. Le magnifiche sorti del buon governo erano monopolio dei raffinati e ricchi cittadini veneziani, categoricamente esclusi invece i residenti dell’entroterra veneto costretti a condurre esistenze infami. Venezia città capitale. Tutte le altre, suddite. E sudditi erano soprattutto i contadini e i miserabili delle plebi urbane. Lo sottolinea un testimone eccellente di quel tempo. Rivolgendosi al potentissimo Cardinale Francesco Cornaro,
Angelo Beolco, detto il Ruzante, nella Seconda oratione scrive: «...E vi dirò di più, che quanti stanno nel Pavano sarebbero venuti anche loro, se non fosse che essi sono così secchi e così consunti dalla fame che si potrebbero soffiar via e, come si dice, sono più leggeri di un moscerino» e ancora «In conclusione, questo mondo è diventato come una terra incolta. Guardate se vedete più un innamorato. Vi so dire che la fame gli ha cacciato l’amore via dal culo. Nessuno osa più innamorarsi, per non prendersi spesa in casa; e quei singhiozzi e quei sospiri che si solevano trarre per amore, adesso si traggono per la fame».
Siamo nel 1529. Pochi anni prima era stata combattuta la devastante guerra di Cambrai che contrappose le principali potenze europee alla ricchissima Serenissima, già in possesso di un vasto impero sul Mediterraneo e impegnata in una guerra di conquista della terraferma romagnola e lombarda. Il Ruzante, l’esempio più alto e genuino del teatro veneto nel Rinascimento,svela il rovescio delle immagini idealizzate, trasmesse sino ad oggi dalla grande pittura veneta del '400-’500 e da gran parte della letteratura ufficiale dello stesso periodo. Descrive come il senso di superiore armonia della Repubblica si fondasse sui sacrifici del ceto contadino, il gruppo iniziale del successivo proletariato protagonista, alcuni secoli dopo, della lotta di classe. Fame e miseria, carestie ed epidemie accompagnavano gli anni '20 del 1500, epoca in cui la Dominante dovette far fronte a tutte le sue risorse per affrontare le orde lanzichenecche che devastavano le campagne del veronese e del bresciano arrivando fino al bergamasco. Per sostenere gli ingentissimi oneri bellici lo stato veneto ridusse le spese razionalizzando e centralizzando l'amministrazione statale, prese denaro a prestito da privati, sfruttò in tutti i modi il debito pubblico.
Non solo. Allora come oggi, quel potere alienò i beni demaniali e gli uffici. Soprattutto torchiò il più possibile i sudditi, aumentando le vecchie imposte e introducendone di nuove, costringendoli a prestare grosse somme di denaro allo Stato e a mantenere gli eserciti in armi. Spesso tutto questo non bastava, così la bancarotta fu inevitabile.
Nulla di nuovo insomma sotto il cielo. Gli aristocratici veneziani fondavano il loro privilegio e ne traevano alimento per esercitare il loro indiscusso potere. Una veloce analisi dell'imposizione fiscale rimessa in piedi dopo la guerra di Cambrai lo dimostra. Dure le imposte applicate allo Stato «da tera», ovvero ai territori dell'entro terra padano-veneto che, assieme al Dogado e allo Stato da Màr, costituivano le tre ripartizioni in cui era suddiviso lo Stato veneziano. Vi erano le «gravezze» o «angherìe» e i dazi, come quello sul sale, riscossi in funzione della ricchezza dei sudditi o del loro numero e imposti con una quota fissa alle comunità ai corpi del contado o alle arti. Per le sue guerre Venezia chiedeva ai sudditi della terraferma una imposta diretta come la «dadia delle lance», calcolata in base al valore dei beni posseduti e pagata da ognuno insieme al «corpo» a cui apparteneva che poteva essere il corpo della città o quello del territorio. Ad essa le comunità si opponevano in tutti i modi tanto che all'inizio del ‘500 il gettito annuo dell'imposta era molto ridotto e, comunque, non più adeguato alle necessità della Serenissima. Sino al 1446 i veneziani la evadevano sistematicamente, obbligando gli abitanti dello «stato da tera» a contribuire al loro posto. I contadini e i piccoli proprietari, cosi magistralmente rappresentati dal Ruzzante, erano stati rovinati dagli eserciti in lotta che avevano devastato le campagne tanto che i più poveri si trovavano costretti a vendere a prezzi bassissimi molta terra ai cittadini facoltosi. Ed al danno si aggiungeva la beffa perché la campagna, causa i vecchi estimi, continuava a contribuire anche per le proprietà passate alle città tanto che nel 1516 si registrarono tumulti e sommosse per il riaggiornamento degli estimi stessi.
In quell'anno a Treviso il Podestà e Capitano Nicolò Vendramin avvertiva, ad esempio, l'urgenza di una riforma degli estimi poiché «li poveri contadini lo quali hanno alienato il suo, hanno etiam perso gli animali, et bona parte de lor famiglie son mancate e minate. Et butandose sopra l'estimo vechio, seguiria questo grandissimo inconveniente che bisogneria astrenzer dicti contadini a pagar de cose che non hanno, che seria un meter tuto el paese sotosopra».
Il territorio chiedeva che i proprietari dei beni venduti dopo il 1509 pagassero regolarmente le imposte col comune nel quale abitavano eliminando così il tradizionale predominio della città sulla campagna che aveva nel privilegio fiscale uno dei suoi cardini. La città di Vicenza fornisce un esempio. Su un totale di 14000 ducati, nel 1518, il riparto attribuiva 1539 ducati della dadia al clero, 4166 alla città e ben 8322 al territorio.
Una palese ingiustizia tanto che la Serenissima intervenne aumentando d'autorità la quota della città di più del 30% e riducendo quella del distretto del 25%.
Oltre alla dadia delle lance venivano imposti anche oneri personali come i lavori pubblici o gli obblighi militari. I contadini erano reclutati come rematori, soldati o guastatori. Scavare canali, realizzare gli argini o portare legna giù dai boschi, erano lavori imposti esclusivamente ai contadini che li dovevano svolgere gratuitamente. Se un Contarmi, patrizio veneziano, o uno Zabarella, nobile padovano, possedevano a Pernumia campi irrigati dall'acqua dei fossi che i distrettuali tenevano puliti e che avevano eretto, ebbene quei signori non pagavano alcuna moneta per quei lavori! Non bastassero le gravezze, i Consigli cittadini, incaricati di rilevare la capacità contributiva di ciascun residente del centro urbano e del distretto, aggiungevano anche la tassazione locale.
Questa la panoramica dunque, per quanto concisa, delle condizioni in cui versavano i residenti dei contadi (leggermente diversa quella dei residenti nelle città, soprattutto se nobili), nel corso della lunga dominazione veneziana.
Nel 1997 i Serenissimi occuparono il campanile di San Marco. Alcuni di loro provenivano dalla pancia del più profondo nord-est, il basso padovano. Una cosa è certa. I loro antenati, contadini padani, facce arse dal sole, cappello di paglia in testa, abiti grezzi, bifolchi insomma, spesso davanti al giudice per far valere i loro diritti contro gli aristocratici veneziani, non avrebbero gradito la ribalderia dei loro insipienti pronipoti!


“alias il manifesto” 14 gennaio 2012

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