27.5.15

Il corpo, il tu, la comunità. Feuerbach e la fondazione dell'ateismo moderno (Donatella Di Cesare)

Riprendo dal “manifesto” un articolo pubblicato in occasione del centenario di Feuerbach, nel 2004, giacché mi pare contenere solide motivazioni per una (ri)lettura. (S.L.L.)
Nella nostra età secolarizzata conviene dedicare almeno un ricordo a Ludwig Feuerbach, approfittando del bicentenario della nascita, caduto alla fine della scorsa settimana.
La sua critica alla religione, e all'essenza del cristianesimo, segna una svolta nel pensiero filosofico, dischiudendo quella prospettiva nella quale - come osservava Karl Lowith già nel 1941 - tutti noi, consapevoli o no, ci troviamo. Il nostro sguardo disincantato all'aldilà e all'oltre, l'assenza quasi scontata di fede, l'impossibilità di credere che attraversa il mondo contemporaneo, prima ancora di diffondersi nelle proporzioni attuali, hanno trovato espressione chiara e decisa nella filosofia di Feuerbach. E i suoi problemi restano i nostri: il corpo, il tu, la comunità.
In una lettera da Parigi del 1844 Karl Marx, riconoscendone i meriti, gli scrive: «la sua Filosofia dell'avvenire e la sua Essenza della religione, malgrado il numero ridotto di pagine, hanno più peso di tutta l'attuale letteratura tedesca. Non so se lo abbia fatto intenzionalmente, ma in questi scritti lei ha dato una base filosofica al socialismo e i comunisti hanno inteso in tal modo questi suoi lavori». Punto di riferimento non solo per Marx, ma anche per Stirner, per Freud, per Bloch, il fondatore dell'ateismo moderno fa ancora discutere per le sue tesi originali e per la radicalità con cui le difende, talvolta per noi forse ingenua, ma non per ciò meno incisiva. Per questa radicalità Feuerbach pagò con una carriera universitaria troncata sul nascere grazie alla ostilità incontrata dalle sue idee sulla religione - esposte in uno dei suoi primi scritti Pensieri sulla morte e l'immortalità del 1830, evento che ne segnò per sempre la vita trascorsa, da allora, ai margini, nella solitudine e nello studio, e terminata negli ultimi anni in miseria. L'unica interruzione felice furono le lezioni tenute all'università di Heidelberg nell'inverno del 1848-1849 su invito degli studenti. Per il resto Feuerbach scrisse instancabile sino alla fine e l'edizione, non ancora completata, delle sue opere conta già quasi venti volumi (ne sono previsti ventidue in tutto).
La filosofia non è un pensiero puro, è sempre legata e vincolata a un soggetto concreto che non è separato e assoluto, ma - a sua volta - ha sempre di fronte a sé un altro soggetto concreto. Perciò Feuerbach prende di mira anzitutto l'idealismo hegeliano di cui propone un completo rovesciamento. L'inizio della filosofia non può più essere l'Assoluto. Tanto meno l'Assoluto di Dio. Così la svolta verso l'uomo, la svolta antropologica che Feuerbach imprime alla filosofia, si coniuga con una critica alla religione. Il suo ateismo non è, né vuole essere, una semplice negazione dell'esistenza di Dio. Piuttosto Feuerbach, sulla scia dell'illuminismo tedesco, decostruisce il costrutto, tutto umano, dell'idea di Dio. A differenza dell'animale, l'uomo ha coscienza della propria finitezza e dunque ha anche coscienza dell'infinito. Ma l'infinito è quello del proprio essere, cioè dell'essere umano. L'uomo singolo si sente limitato rispetto all'infinità del genere umano. L'errore è fare dell'infinito umano un infinito divino proiettando in un essere apparentemente altro e distinto dall'uomo tutti gli attributi perfetti dell'uomo. Ecco svelato per Feuerbach il mistero della religione. Ma ecco svelato pure il mistero della alienazione. Perché l'uomo sposta il suo essere fuori di sé invece di ritrovarlo in se stesso e preferisce al proprio un mondo altro e alienato. Per superare l'alienazione occorrerà allora restituire all'uomo gli attributi che la religione gli ha tolto mostrando che è l'uomo ad aver creato Dio e non viceversa.
Questa critica, divenuta famosa anche grazie a Marx, sfocia in una filosofia che, pur nella disillusione e nel disincanto, insiste sull'esigenza che l'uomo ha dell'altro da sé senza cui non potrebbe neppure esistere, dato che non a se stesso ma all'altro deve la propria vita. Il pericolo della religione sta appunto nel sostituire con un amore fantastico, vagheggiato nell'al di là, l'amore concreto vissuto nell'al di qua. È così che Feuerbach fa la scoperta del «tu» che - come suggerisce Buber - dopo il cogito cartesiano, isolato e monologico, costituisce il nuovo inizio della filosofia. «La vera dialettica - scrive Feuerbach - è un dialogo tra l'io e il tu».
La filosofia dell'avvenire, la filosofia del futuro, sarà lo sviluppo di questo dialogo in cui l'uomo è presente nella sua integralità: nella sua ragione, ma anche nei suoi sentimenti e nelle sue passioni. L'uomo della nuova filosofia è un essere naturale, concreto, sensibile. Non stupisce che la parola-chiave sia qui l'amore: «tu sei solo in quel che ami e al di fuori non sei nulla». Ed è l'amore che, soprattutto negli ultimi anni, anche attraverso il confronto con Schopenhauer, offre le linee per interpretare il rapporto tra corpo e anima, dunque quello tra istinti e volontà. Come non c'è volontà senza istinti, così non c'è anima senza corpo, e alla fine è la sensibilità materiale del corpo il fondamento di tutto ciò che avviene nell'anima. Resta però da chiarire allora la reciprocità di un amore non-empirico che spinge oltre sé, che fa desiderare anche la felicità di un altro lontano ed estraneo: resta insomma da chiarire la questione politica ed etica della comunità per la quale l'ultimo Feuerbach introduce, non senza difficoltà e contraddizioni, il concetto di «coscienza» intesa come «con-scienza», sapere che si condivide con gli altri.


“il manifesto”, 4 agosto 2004

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