2.5.15

Chi chiede giustizia è un criminale. Tiberio Gracco (Alvaro Belardinelli)

I popolani urlano, fuggono, precipitano dai dirupi. E' un  massacro
«La terra è di tutti», «Ai proletari le terre pubbliche»: sono gli slogan che campeggiano sui muri di Roma nei caldi giorni di luglio che precedono queste elezioni politiche. Tiberio Sempronio Gracco sta per essere eletto tribuno della plebe per l'anno 133 a.C. È figlio di un buon plebeo e nipote del grande Scipione Africano (il vincitore di Annibale), noto per le sue idee democratiche. La candidatura di Gracco porta un vento di speranza tra la plebe, che lo elegge liberamente. (Caso più unico che raro, Tiberio non ha comprato neanche un voto).
Gli aristocratici lo chiamano demagogo, ma Tiberio Gracco è onesto e valoroso: si è distinto nell'assedio di Cartagine e nella guerra in Spagna; è stato un irreprensibile questore.
Tornando in Italia ha constatato lo sfascio in cui il paese versa per colpa della rapacità dei nobili, padroni di immensi latifondi acquisiti illegalmente. Sa che la terra è proprietà dello Stato, il quale anticamente aveva suddiviso i campi tra i soldati che li avevano conquistati: ma gli aristocratici hanno illegalmente comprato quei campi a prezzi irrisori, profittando della miseria in cui i piccoli proprietari erano caduti a causa delle continue guerre in cui i patrizi stessi li trascinavano. Roma trabocca di poveri, soprattutto ex proprietari rifugiatisi in città per vivere di espedienti o di clientelismo; restando in campagna sarebbero divenuti «coloni» al servizio di un ricco, che li avrebbe pagati al massimo con l'ottava parte del raccolto! Oppure avrebbero fatto la vita del bracciante, assai peggiore di quella dei tanti schiavi che lavorano le terre dei signori. Unica soluzione è la redistribuzione dei campi. Tiberio è onesto, e lo sa. Progetta una riforma agraria coraggiosa, che non permette di possedere più di duecentocinquantaettari: le terre così rientrate in possesso dello Stato saranno date ai poveri in appezzamenti inalienabili di sette ettari ciascuno.
Le parole del tribuno infiammano il popolo: «In Italia le bestie hanno un buco per dormire. Ma chi lotta per l'Italia ha solo aria. Vaga con la famiglia senza casa; e i generali lo frodano nell'ora della battaglia, spronandolo a proteggere dai nemici la casa e la tomba dei padri; giacché nessuno dei Romani (e son tanti) ha casa né tomba! Ma combattono e muoiono per la ricchezza altrui. Non hanno una terra loro, e son chiamati padroni del mondo!». Influenzano le idee di Gracco due filosofi stoici, Diofane di Mitilene e Blossio di Cuma: essi ritengono che la terra è per natura comune, e che le persone sono per natura libere.
La riforma è approvata dal popolo con uno storico plebiscito. Ma un collega di Gracco pone il veto: è il tribuno Marco Ottavio, latifondista, «uomo di paglia» del partito degli sfruttatori che veste la toga di difensore del popolo. Che fare? Secondo la legge, il tribuno è inviolabile, non può esser deposto, e il suo veto è vincolante. Gracco tenta il tutto per tutto. Con rivoluzionario coraggio grida all'assemblea popolare: «Può un tribuno del popolo tradire gli interessi del popolo?». I Romani tumultuano. Una nuova votazione, e Ottavio è deposto. È una vittoria politica, ma attenzione: pur volendo semplicemente riequilibrare il potere in senso democratico, Gracco ha compiuto un atto illegale, porgendo il fianco alla propaganda padronale; che puntualmente lo accusa di demagogia. «Vuoi governare da solo, eliminando noi, i difensori dello Stato!».
Ma Gracco procede col suo piano : stabilisce che le ricchezze derivanti dalle nuove conquiste siano destinate al finanziamento dei nuovi piccoli proprietari. C'è però ancora un'incognita: cosa accadrà alla fine del mandato di Gracco? Egli, per legge, potrebbe ricandidarsi solo fra dieci anni!
Ma decide di violare anche questa norma, e si candida per l'anno seguente: spera così di salvare la riforma agraria da chi vorrebbe sabotarla. È l'errore politico. Ora i nobili sbraitano che Tiberio aspira alla corona, e divulgano questa calunnia. In segreto decidono la «linea della fermezza», appellandosi all'amor di patria. Fanno credere che Gracco è contro il popolo, che vuole eliminare tutti i tribuni, che si è fatto incoronare, che ha dato le terre ai suoi parenti. Giunge l'ora degli avvisi «mafiosi»: un amico di Tiberio muore avvelenato. Allora i compagni di Gracco circondano la sua casa per difenderlo. «Preparano un colpo di Stato!», dicono nel Foro alcuni aristocratici travestiti da popolani.
Arriva il giorno delle elezioni: il Campidoglio straripa di gente vociante. A un tratto giunge la notizia che i nobili tramano un colpo di mano. I partigiani di Tiberio si armano alla meglio, e lui non riesce a placare il caos che si è creato. D'improvviso la gente urla, fugge all'impazzata, si calpesta, precipita dai dirupi!... Sono arrivati i patrizi con le loro squadraece armate di bastoni, e con questi si fanno strada verso Tiberio; gli strappano la toga; lo colpiscono con una sedia; lo massacrano. Gettano il suo corpo nel Tevere, insieme a quelli di trecento suoi partigiani lapidati e linciati.
Nei giorni seguenti, invece di condannare la strage, lo Stato vieta il lutto e perseguita i «complici» del tribuno ancora vivi. Diofane è chiuso in un otre con le vipere. Blossio va in Oriente, ove morirà tentando una rivoluzione. Ancora una volta la forza ha calpestato il diritto. Dodici anni dopo Caio Gracco, fratello di Tiberio, seguirà la sua sorte.
Ma i due Gracchi diverranno un simbolo della lotta per la libertà.

“Avvenimenti”, 11 settembre 1991

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