1.4.15

Classici. "L'interpretazione dei sogni" di Freud (Luisa Muraro)

Una rivoluzione solo promessa.
L'interpretazione dei sogni (Vienna e Lipsia 1899) è il capolavoro scientifico di una rivoluzione culturale che andava facendosi strada nella civiltà europea. Ma che, purtroppo, doveva interrompersi brutalmente con la prima guerra mondiale. L'interpretazione dei sogni è un libro unico nel suo genere, straordinariamente ricco di pensiero scorrevole e di piacevole lettura, nonostante le sue cinquecento e passa pagine. Tratta un tema che all'epoca, così come ai nostri giorni, non aveva dignità scientifica: l'interpretazione dei sogni, appunto. E ne fa l'introduzione ad una nuova concezione del pensare e del vivere e dei loro rapporti, imperniandoli sulla potenza del desiderio. Scritto in una lingua tersa e composta, ordinato come un trattato, la sua materia è però calda e intima: materia inconfessabile, di suo, e guadagnata a questa pacata dizione attraverso una pratica allora nuova e sconosciuta, la psicoanalisi.
Anche il suo autore, Sigmund Freud (1856-1939), medico delle malattie nervose, viennese di adozione, era all'epoca uno sconosciuto. Dalla pubblicazione di quest'opera egli si aspettava la fama (che in effetti arriverà, ma più tardi).

I contenuti
Come in molti libri di carattere scientifico, il capitolo 1 (i mei riferimenti sono al vol.3 delle Opere ed. Boringhieri) è dedicato allo stato della questione. Va detto che Freud, più che cercare precedenti (che pure esistevano), sembra interessato a dimostrare che nessuno prima di lui ha capito quello che lui ha capito. Verso la fine, fa un'importante precisazione sui rapporti tra psichico e fisico: non è necessario, ed è poco proficuo, voler ridurre l'uno all'altro (pp.48-49).
Il capitolo 2 ci introduce al pensiero del nostro autore, e lo fa nella maniera più agevole, attraverso l'analisi di un sogno, il famoso "sogno dell'iniezione a lima", analisi da cui discende una prima veduta teorica: i sogni sono l'appagamento di un desiderio. E' questo l'argomento del capitolo 3.
Elvio Fachinelli (che dell'Interpretazione è il traduttore insieme alla moglie Herma Trettl mi fece notare, a suo tempo, come questa pur grande scoperta agisca di fatto come un espediente per chiudere l'analisi: trovato il desiderio, non ci sarebbe più nulla da interrogare.
Il capitolo 4 risponde alla principale obiezione contro la teoria del sogno-appagamento di desiderio, e cioè che molti sogni non sono affatto piacevoli. Occorre distinguere, risponde Freud, fra contenuto manifesto e pensieri latenti. Quello è una traduzione di questi, che altrimenti non troverebbero espressione a causa di una nostra interna censura. A questa spiegazione Freud arriva analizzando come agisce la censura vera e propria, dandoci così un ottimo esempio di quei salti da un contesto all'altro del vivere umano, che costituiscono un elemento di attrazione (ma anche un rischio di ciarlataneria) della psicoanalisi.
Il capitolo 5 dà ragione delle peculiari caratteristiche della memoria nei sogni (preferenza per cose molto vicine o molto lontane) e dell'origine infantile di molti sogni. Dalla loro analisi "abbiamo la sorpresa di ritrovare un bambino che continua a vivere con i suoi impulsi" (p.181). In passi come questo, l'opera di Freud ne è costellata, noi vediamo la cultura scientifica aprirsi al sapere antico e rigettato della poesia, della santità, della pazzia. E' un avvenimento da sottolineare.
Segue un lungo capitolo, "Il lavoro onirico", che da solo potrebbe formare un libro. Qui la scienza positivistica ha voltato pagina. Qui la realtà diventa un testo che si spiega come ogni testo, attraverso il suo senso. Su questo capitolo si sono soffermati, fra i tanti, il linguista Roman Jakobson e lo psicoanalista-filosofo Lacan. Che cos'è il lavoro onirico?
In breve, è il lavoro necessario per trasformare i pensieri latenti, direttamente innestati sui desideri, più o meno indicibili nei contenuti del sogno, ricordabili e raccontabili. Il lavoro onirico è un pensare, dice Freud, ma "si stacca dal modello del pensiero vigile". "Non che esso sia più sciatto, più scorretto, più smemorato, più incompleto del pensiero vigile; è qualcosa di interamente diverso" (p.463). A questa intima alterila del nostro pensare, è dedicato il capitolo 7, l'ultimo, che avanza una teoria della psiche; vi compare una serie di concetti che il successo della psicoanalisi ci ha reso non più chiari ma certo più correnti, come: regressione, inconscio, preconscio, rimozione, processi primario e secondario. Qui, ancora poco usati, sono più aspri e toccanti. Più veri.

Radici negate
Insomma, è un libro da leggere, o rileggere, saltando in qualche modo la sua trasmissione psicoanalitica, per vederlo come a sé stante. O meglio, come radicato in una cultura venuta meno, imparentata con altri scritti, con altri nomi, con correnti di pensiero, con movimenti politici e artistici, con musiche speranze e fatti di una cultura da cui ci separano montagne di morti, di sofferenze, di errori, di tentativi falliti, forse, un intero secolo perduto. La tradizione psìcoanalitica ci presenta L'interpretazione dei sogni come un'opera quasi-giovanile che prelude agli sviluppi futuri della psicoanalisi, e le toglie così la sua caratteristica di opera matura, che si radicava nella crisi di fine secolo. Crisi difficile ma vitale e promettente.
Vero è che questo sradicamento dell'Interpretazione dei sogni fu voluto dallo stesso Freud. Due (o tre) sono le radici negate di questo libro come di tutto il pensiero freudiano: Nietzsche (e, con lui, Schopenhauer), da una parte, Ernst Mach dall'altra.
Negli scritti di Freud i riferimenti a Nietzsche sono relativamente numerosi, ma sono inadeguati se non reticenti. Il primo lo incontriamo proprio nell'Interpretazione dei sogni, dove di Nietzche compare non il nome ma il concetto, quello di trasmissione di tutti i valori psichici (p. 303, nell'originale, facilmente identificabile come suo).
Ha l'aria di un prestito linguistico, nulla più. Quanto al concetto di rimozione, non meno importante, Freud negherà di averlo ripreso da Schopenhauer. “Il mio debito verso Schopenhauer - scriverà nel 1914 - è inesistente”. Quanto a Nietzsche, aggiunge, "io mi sono interdetto l'alto godimento" di leggere le sue opere "con il deliberato obiettivo di non essere ostacolato da nessun tipo di rappresentazione anticipatoria nella mia elaborazione delle impressioni psicoanalistiche" (Opere 7, p.389). "In compenso", aggiunge, sono disposto "a rinunciare ad ogni pretesa di priorità". Bizzarro discorso: una rinuncia (all'alto godimento) compensata da una rinuncia (alla priorità), e una priorità ventilata nei confronti di un autore venuto cronologicamente prima. Un atteggiamento simile Freud prende a proposito dell'Es, dove il rapporto con Nietzsche viene ridotto a un fatto di usi linguistici: "Adeguandoci all'uso linguistico di Nietzsche ..." ( Opere 11, p.184).
Non continuò e passò ad Ernst Mach, che fu tra i più consapevoli esponenti di quella rivoluzione culturale solo promessa al nostro secolo. Non è facile illustrare in poco spazio il rapporto di Freud con Mach. Questi era un personaggio illustre nella Vienna del tempo ed era in rapporti di amicizia e stima con Joseph Breuer, nome importante nella biografia del giovane Freud. Questi, per parte sua, conosceva Mach di fama e certamente lo lesse, lo sappiamo da una sua lettera all'amico Fliess del 12 giugno 1900: dopo aver fantasticato sulla gloria che potrebbe dargli L'interpretazione dei sogni, scrive d'aver letto L'analisi delle sensazioni di Mach, seconda edizione (così precisa Freud: la seconda edizione è del 1900, l'altra era del 1886) e di essere contento che quest'opera "che ha gli stessi obiettivi che anch'io mi propongo", sui sogni non abbia scoperto quello che lui, Freud, sa. Ma il libro in questione non si occupa di sogni. Si occupa invece del rapporto tra fisico e psichico, per sostenere, contro ogni forma di dualismo e di riduzionismo, che tra l'uno e l'altro non c'è soluzione di continuità. Che è la posizione di cui Freud si fa forte, nel primo capitolo dell'Interpretazione dei sogni, posizione che gli mancava nel 1885, quando scrisse l'inedito e incompiuto, quanto ambizioso, Progetto di una psicologia.
La conclusione che suggerisco, si indovina da sé. A Ernst Mach, secondo me, Freud deve l'essersi liberato dal dogma psichiatrico secondo cui i fatti psichici possono considerarsi spiegati solo se ricondotti a cause organiche. Gli deve probabilmente anche l'idea, centrale nel pensiero di Mach come poi in quello di Freud, che l'Io non è un primum nella vita psichica, ma una formazione secondaria.
Non ho qui lo spazio per argomentare compiutamente le mie affermazioni. Voglio pero raccontare un episodio. Nel 1932 Freud sente l'esigenza di difendersi da un sospetto di plagio (la cosa non ci meraviglia) nei confronti di certo Joseh Popper, ingegnere e autore di un libro sui sogni apparso proprio nel 1899. La difesa convince ma colpisce perché echeggia altre difese simili ma meno convincenti, e perché vi appare il nome di Ernst Mach. Scrive Freud: "Non cercai di conoscerlo" (si riferisce a J. Popper e al 1900). "Le mie innovazioni nel campo della psicologia mi avevano alienato le simpatie dei contemporanei, in specie di quelli più anziani; più di una volta, avendo avvicinato un uomo che a distanza onoravo, mi ero sentito respingere dalla mancanza di comprensione da questi dimostrata per quello clic era ormai diventato il contenuto essenziale della mia esistenza. Dopo tutto Josef Popper veniva dalla fìsica; era stato un amico di Ernst Mach" (Opere 11, p.314). Queste ultime parole sono a dir poco imbarazzanti. Mach fu certo un fisico, ma fu ben più un filosofo: non era forse l'autore di L'analisi delle sensazioni e il rapporto fra fisico e psichico?
D'altra parte, si capisce sempre meno perché quest'uomo, che soffriva della mancanza di comprensione da parte dei suoi contemporanei, non ebbe l'idea di cercarla nella lettura di filosofi grandi e a lui vicini come Schopenhauer e Nietzsche. Anzi, l'idea gli venne ma la respinse, così almeno dice.

Una lotta fra maschi
Può sembrare che io voglia fare su Freud il gioco della psicoanalisi inventato da Freud. No, non ho intenzione di psicanalizzare Freud. Voglio capire le caratteristiche dei rapporti fra uomini impegnati nel lavoro del pensiero, non come essi li dipingono (per esempi, quando dissertano di etica della comunicazione) ma come li praticano. Sono rapporti molto marcati dalla rivalità e dalla ricerca del primato, talvolta al punto da violare gli ideali più condivisi di correttezza. Quello che Freud ci da da vedere non è un caso patologico né limitato ad un minoranza. Un filosofo oggi tenuto in conto da molti, Richard Rorty, ha tracciato la stori della filosofia come un susseguirsi di pensatori dove, chi viene dopo, lotta "per non restai un epigono" e per diventare, anzi, "superiore" a chi lo ha preceduto, impedendo però, con le sue trovate, a chi verrà dopo, di fare lo stesso nei suoi confronti (La filosofia dopo la filosofia, Laterza, 1989). In tanta esplicitezza, resta da esplicitare soltanto una cosa piuttosto trasparente, e cioè che questa è la pittura di una lotta fra maschi.
In effetti, quello che Freud ci da da vedere e Rorty teorizza, è un diffìcile regolamento delle posizioni rispettive fra uomini. Suppongo che ciò risponda a qualche bisogno simbolico del loro sesso. Lo suppongono perché in me non lo avverto, anzi: le situazioni di rivalità e le questioni di primato mi mettono in grave disagio e così è per molte mie simili - ma basterebbe guardare i giochi dei bambini, per accorgersi di questa differenza maschile.
Di cui però Freud non è consapevole in generale, non c'è nei pensatori della nostra tradizione nessuna consapevolezza della differenza maschile.
Si illudeva Freud quando, sbarcando negli Usa, disse: vengo a portare la peste. Si illudeva circa la forza dirompente del sapere psicoanalitico nei confronti della civiltà borghese. Ma lui stesso gli aveva tolto la forza, tagliando le radici che lo collegavano a i grandi pensitori critici della civiltà borghese, quelli stessi che pure lo avevano nutrito. Per non parlar degli altri, come Marx. Lo aveva fatto non per opportunismo, ma per una ragione più insidiosa, più interna: per poter lavorare con lo sprone di sentirsi il primo e di poter restare tale. Torsione debilitante di un pensiero che sa la secondarietà dell'io, ma non sa praticarla.


In Il crac della Banca Romana,supplemento de “il manifesto”, maggio 1993

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