15.3.15

Luca Ronconi. I luoghi del teatro (intervista a cura di Laura Bevione)

Luca Ronconi e Mariangela Melato
Nel 2003, nel suo ufficio al Piccolo Teatro di Milano ove dirigeva la scuola per attori, Luca Ronconi rilasciò alla rivista “Drammaturgia” una intervista, dopo la messa in scena, qualche mese prima, di Amor nello specchio (1622), una Commedia di Giovan Battista Andreini, già attore e capocomico della commedia dell'arte e, poi, poeta e autore di scenari e testi teatrali. L'allestimento era stato curato da Ronconi per il Teatro Stabile di Ferrara e per il Centro teatrale Santacristina, fondato dal regista von Roberta Carlotto, appunto in Santa Cristina, frazione di Gubbio. La rappresentazione si svolse a Ferrara per strada, nel Quadrivio degli Angeli di Corso Ercole d'Este, non lontano dal “Palazzo dei Diamanti” ed ebbe come protagonista, nel ruolo di Florinda innamorata della propria immagine nello specchio, la più grande attrice “ronconiana”, Mariangela Melato. L'intervista, qui postata, affronta tutta la tematica dei luoghi della rappresentazione teatrale in Ronconi a partire dall'indimenticato Orlando Furioso che il regista sceneggiò in combutta con Edoardo Sanguineti. (S.L.L.)
Per le strade di Ferrara. La rappresentazione di Amor nello specchio (2002)
Il teatro all’aperto offre maggiore o minore libertà d’azione? Vi possono essere strutture preesistenti che costituiscono altrettanti vincoli all’allestimento scenico…
Non si può generalizzare. Dipende dallo spazio. Ci possono essere degli spazi che sono estremamente vincolanti e degli altri che permettono una maggiore libertà. Per esempio, nel caso dell’Amor nello specchio da un punto di vista topografico lo spazio era estremamente vincolante. Per dare chiarezza era necessario seguire percorsi obbligati. Siccome, però, il luogo – non lo spazio –, l’ambiente sembrava estremamente pertinente al carattere che volevamo dare al testo, ecco che allora proprio i vincoli si rivelavano molto utili; proprio perché non sempre un eccesso di libertà aiuta la chiarezza della comunicazione.

La scelta di corso Ercole d’Este è stata anche dettata dalla volontà di avvicinarsi all’idea di Commedia dell’Arte come forma spettacolare in parte nata “sulla strada”?
Assolutamente no. Anzi, nella realizzazione scenica dello spettacolo non c’era nessun riferimento alla Commedia dell’Arte, così come non c’era nessun riferimento a un luogo urbano. Gli interventi scenografici che erano stati fatti nello spazio erano stati eseguiti proprio per togliergli qualsiasi carattere concreto e dargli un’astrazione maggiore.

Non solo l’espediente di lastricare il corso con gli specchi con il facile rimando al titolo della commedia, ma un progetto scenico più ampio di cui questo è l’aspetto più evidente ma, in fondo, il meno significativo. È stato così?
Sì, esattamente.

A proposito, invece, delle sue precedenti messe in scena di commedie di Andreini realizzate, a differenza di quest’ultimo spettacolo, in spazi “chiusi” [ndr. La Centaura, saggio dell’Accademia nazionale d’arte drammatica, Roma, Cinecittà, 29 aprile 1972; Due commedie in commedia, La Biennale-XXXII Festival internazionale del teatro, Venezia, teatro Malibran, 18 ottobre 1984; Amor nello specchio, saggio dell’Accademia nazionale d’arte drammatica, Roma, teatro dei Documenti, 19 giugno 1987]. Qual è lo “spazio” di Andreini? Come si concretizza visivamente la sua drammaturgia?
Ogni testo, o meglio ancora ogni particolare interpretazione di qualsiasi testo, presuppone o ricerca un suo spazio precipuo, non generico. Mi è capitato di fare tutte e tre le opere di Andreini in situazioni anomale rispetto al palcoscenico. Effettivamente non so quanto Andreini possa portare l’attenzione del pubblico all’interno del palcoscenico secondo le abitudini del nostro pubblico.

Parlando ancora di luoghi all’aperto, il suo spettacolo forse più famoso, l’Orlando furioso, fu riallestito in piazze diverse: con quali cambiamenti e operati secondo quale logica?
Originariamente l’Orlando furioso è stato realizzato in uno spazio non teatrale ma al chiuso, la chiesa di san Nicolò a Spoleto. Poi dopo è stato portato in varie piazze e devo anche dire che di volta in volta a seconda degli spazi in cui andava pur rimanendo la struttura la stessa – si trattava di una struttura molto forte –, alla sua invariabilità corrispondeva inevitabilmente una variazione del carattere. Lo spettacolo fatto in piazza sembrava uno spettacolo popolare. Lo spettacolo com’è nato era tutt’altro che uno spettacolo popolare.

E il cambiamento di carattere… ?
Il cambiamento di carattere era determinato solamente dallo spostamento perché la struttura dello spettacolo, ripeto, era molto forte e molto rigida e non è mai cambiata.

Era dunque una questione di percezione?
Indubbiamente. Uno spazio differente in qualche modo determina una diversa percezione dello spettacolo da parte del pubblico, qualunque sia il carattere originario dello spettacolo.

E questo non diminuisce in qualche misura il controllo del regista sul proprio spettacolo?
No, ma mi permette di fare un’ipotesi sulle diverse possibilità di percezione da parte del pubblico e dunque qualcosa imparo. Anzi è sicuramente un elemento fondante di qualsiasi tipo di drammaturgia.

Continuando la nostra riflessione sugli spazi all’aperto, vorrei parlare del teatro greco di Siracusa. Come si tratta uno spazio preesistente, con caratteristiche tanto particolari e con un sostrato storico e culturale talmente ricco? Trasformare, occultandone la storia, oppure sottolineare ed evidenziare la tradizione che lo pervade?
Il teatro di Siracusa è una specie di ricordo, una memoria del teatro greco perché strutturalmente di esso non ha più assolutamente nulla tranne la gradinata. Neanche le dimensioni, perché il teatro
greco era infinitamente più piccolo di quanto lo sia oggi. Il teatro di Siracusa può essere utilizzato come uno spazio tutto sommato molto generico.

E non si sente l’eredità del passato?
L’eredità la senti nella memoria, nelle aspettative del pubblico. La senti per esempio molto più nel clima; la senti molto più nella luce invece che nello spazio, come dire topografico o architettonico
propriamente detto. Quello architettonico praticamente non esiste.

Si tratta dunque di uno spazio molto malleabile.
Sì, sicuramente.

Parlando ancora di spazi preesistenti in possesso però di una storia rilevante e forse vincolante, mi viene in mente l’archeologia industriale. Quali problemi pongono spazi quali il Lingotto o la Bovisa in cui lei ha allestito due spettacoli come Gli ultimi giorni dell’umanità nel 1990 e, nella primavera del 2002, Infinities?
Veramente certi spazi i problemi più che porli li risolvono.

E non pongono nessun vincolo?
Premetto che i vincoli sono provvidenziali, perché c’è molta più libertà quando esistono dei vincoli forti che non quando c’è una totale discrezionalità e possibilità di agire. Indubbiamente per un tipo di drammaturgia come quella di Infinities, che programmaticamente salta alcune figure, funzioni, strutture della drammaturgia tradizionale come il dialogo, il personaggio, il racconto, ecc. ecc., un luogo fatto per far risaltare queste strutture e queste figure è improprio. Quindi ritengo che per qualsiasi figura esista uno spazio specifico – ma questo lo dico a proposito di Barrow come potrei dirlo a proposito di Beckett. Non mi dice niente a vederlo su un palcoscenico, anche se dal punto di vista letterario penso sia un grande autore e penso che il luogo ideale di rappresentazione di Beckett non sia affatto il vuoto del palcoscenico.

Lo penso anch’io. Credo sia sempre stato sottovalutato il lato “comico” di Beckett…
Certo. Quindi, secondo me ogni tipo di drammaturgia presuppone il proprio spazio ideale. Ripeto, il palcoscenico beckettiano è sempre stato una specie di passepartout ma in qualche modo si è costituito più per l’uditorio che per l’opera. Un luogo di comodo per gli spettatori.

Tornando a Infinities, mi piacerebbe riflettere sulla posizione del pubblico: esso è spodestato del suo spazio canonico, la platea, e magari costretto a stringersi in strette panche oppure, addirittura, a stare in piedi. Lo spazio disorienta e smuove dalla passività. Gli spettatori sono costretti a muoversi e con le innumerevoli combinazioni possibili derivanti dalla posizione da essi scelta concorrono alla stessa definizione dello spazio.
Io il pubblico non lo costringo. In Infinities specialmente. Anzi, il pubblico una volta seduto in un posto potrebbe anche rimanere lì. Essendo Infinities una cosa sul tempo, sembrerebbe una specie di tempo ciclico, per cui lo spettatore vedrebbe la stessa cosa fatta in un modo diverso, quindi con delle funzioni diverse e anche dei significati diversi. Ecco, abbiamo parlato di Beckett; se il pubblico si mettesse nelle condizioni di un personaggio beckettiano, ossia di non muoversi mai, avrebbe di fronte un dramma di Beckett in cui le cose vengono continuamente ripetute sia pure in forma diversa.

Forse è sbagliato il verbo “costringere” o forse no, nel senso che lei costringe il pubblico a crearsi un proprio percorso all’interno dello spazio scenico…
Anzi, mi piace. E questo mi piace perfino quando faccio uno spettacolo in teatro. L’obiettivo non è quello di prendere il pubblico per la cavezza e obbligarlo a seguire quello che voglio io ma di costruire dei fatti teatrali per cui lo spettatore possa essere abbastanza libero di rimontarseli nella mente, nella fantasia, mentre si svolgono, in quello stesso tempo.

Per raggiungere questo obiettivo lei ricorre a espedienti scenografici? Mi viene in mente il costante utilizzo di pedane mobili nei suoi spettacoli…
Sì, probabilmente sì. Secondo me, sono molto portato a cercare di strutturare in palcoscenico quella attitudine alla discontinuità che c’è nella percezione dello spettatore. Per fare un esempio, sono straconvinto che, oltre che presuntuoso, sia anche illusorio pretendere un’attenzione costante da parte dello spettatore.

È impossibile, credo…
È impossibile, però la maggior parte degli spettacoli presuppone un rischio. Quello che adombra è la duplicità di un’opera che di fronte a sé ha l’obbligo di essere coerente ma rispetto alla percezione deve avere anche la civiltà di poter essere frammentaria.

Dunque, come lei crea il “suo” spazio così il pubblico può ricreare per se stesso quel medesimo spazio, rimontandolo…
Certo. Tuttavia, questo è possibile soprattutto in uno spazio non così coercitivo come è invece quello del teatro “all’italiana” – che poi deriva dalla tragédie-classique francese, per cui presuppone quasi ostinatamente una focalizzazione, una messa a fuoco attraverso l’arco scenico. Il teatro “all’italiana” già nelle sue forme, in cui molto spesso i due lati, nel ferro di cavallo, sono privilegiati rispetto al palcoscenico perché è uno spazio nato soprattutto come un luogo di incontro per gli spettatori, esplicita questa specie di contraddizione nettissima che è destinata a venire sempre più fuori man mano che cambia la necessità sociale del teatro.
Lei però si è trovato spesso a dover lavorare in un teatro “all’italiana”…
Sì, sì, fa parte del mio lavoro e lo faccio, però, ripeto, quasi sempre faccio fatica ad accettare le regole del palcoscenico, proprio perché mi sembrano delle regole oramai, non direi logore, ma che soffrono di un’imprecisione all’origine.

E nel caso delle regie di spettacoli lirici, nella maggior parte dei casi realizzati in teatri “all’italiana”?
Ma la regia lirica è tutt’altro. Fino a quando – speriamo presto – non verrà in qualche modo codificato un diverso modo di intendere il teatro musicale – dico codificato perché solo attraverso le codificazioni si può arrivare a una diversa drammaturgia dello spazio, che non sia precaria, che non sia occasionale, una volta e via – non cambierà neanche il suo spazio precipuo. D’altra parte ritengo che in buona parte è il vincolo dato da altri spazi l’elemento capace di determinare una diversa drammaturgia.

Lei ha messo in scena quattro drammi di Ibsen – L’anitra selvatica, il Borkman, Spettri e scene tratte dal Peer Gynt. Mi interessava saperne di più proprio per le peculiarità della drammaturgia del norvegese che, semplificando, potremmo definire “psicologica” e dunque assai lontana dalla poetica ronconiana che rifugge ogni psicologismo. Il particolare trattamento dello spazio poteva essere un mezzo per superare questa presunta incompatibilità?
Ogni testo teatrale, che è scritto per essere rappresentato, è scritto per essere rappresentato secondo le convenzioni teatrali del proprio tempo. Ma molti testi presentano una sorta di “nocciolo” che,
viceversa, eccede le convenzioni teatrali del proprio tempo. Un classico è soprattutto questo. Ora un testo di Ibsen è provvidenzialmente ambiguo, e qualche volta confuso, fra una volontà di naturalismo e un elemento assolutamente fantastico. C’è sempre, in tutto il suo teatro, un conflitto fra l’angustia delle possibilità di rappresentazione e l’impulso verso un’uscita. Il personaggio tende sempre a evadere.

A partire da Nora…
Sì. C’è nel teatro di Ibsen un’identificazione fra palcoscenico e Casa di bambola. Il personaggio di Nora, ma anche il personaggio di Peer, come Borkman, ecc., cerca continuamente di uscire e di evadere dalla sua realtà. Come capita per esempio nell’Anitra selvatica, si tratta di ritrovare una coerenza nella drammaturgia “sconocchiando”, scardinando completamente i canoni della rappresentazione tradizionale.

E realizzando così il desiderio nascosto di Ibsen di uscire dal palcoscenico tradizionale…
In qualche modo sì.

Lei ha lavorato spesso con architetti: quali sono state le caratteristiche di queste collaborazioni? Si è forse verificato un prevalere del regista sull’architetto, oppure il contrario?
Non saprei dire. Generalmente quando ho lavorato o con degli architetti o anche con degli artisti, ho chiesto loro la libertà di utilizzo dei loro materiali. Ossia, più che la definizione di una continuità stilistica – a un architetto non chiedi di fare lo scenografo tanto lo so che non è capace di farlo –posso chiedergli di utilizzare in senso scenografico alcuni dei suoi elaborati preesistenti.

Non ha mai chiesto nulla di specifico per un particolare spettacolo?
Mai nulla di specifico.

Prendiamo come esempio il nuovo auditorium di Roma progettato da Renzo Piano: quanto un architetto di oggi può aiutare il teatro a sostituire con nuove convenzioni quelle vecchie? Ed è la persona adatta?
L’auditorium di Piano l’ho visto quando era ancora in cantiere e dentro non ci sono mai entrato, quindi non posso dare un giudizio. Secondo me la funzionalità è un elemento fondamentale. Per un auditorium, come per un teatro, un esito infelice è dato dall’acustica cattiva e dalla visibilità mediocre. Un teatro è legato a un modello di drammaturgia. Molto spesso, invece, tende a diventare un monumento o a far parte della storia di un architetto. Prioritariamente, invece, ci devono essere dei canoni drammaturgici tali da imporre delle regole, altrimenti si hanno risultati come, per esempio, il teatro Regio di Torino, che può anche essere un bell’oggetto ma è un assurdo teatro. Dal punto di vista architettonico non è una cosa spregevole, anzi è una cosa interessante.

Ma risulta interessante per la storia dell’architettura, non per quella del teatro…
Questo perché quell’accordo fra committenza, società e artisti che è in qualche modo il patto fondante della drammaturgia in questo momento non c’è. E questo rende assolutamente improbabile la possibilità di un’architettura teatrale che in qualche modo superi la pura e mera funzionalità – l’acustica e la visibilità.

Non è possibile nulla di più?
In questo momento non è possibile niente di più. Se, facciamo conto, un modello tipo quello dell’Orlando furioso oppure il più recente Infinities o quello de Gli ultimi giorni dell’umanità – tre spettacoli che in qualche modo hanno inciso notevolmente nella storia scenica contemporanea – diventa il modello dominante per il prossimo decennio, ne consegue che la molteplicità degli spazi diviene un elemento fondante dell’architettura in quanto lo è della drammaturgia. E la risoluzione di problemi di sicurezza, praticabilità, insonorizzazione, visibilità, ecc., verrà come conseguenza secondaria.

Quegli spettacoli forse sono già diventati modelli, dato il frequente riutilizzo di spazi industriali, malgrado la sensazione sia quella che si tratti soprattutto di una moda senza sostanza concreta…
Infatti bisogna stare attenti, perché io sto parlando di necessità drammaturgiche e non di contenitori. Nel momento in cui il teatro diventa un contenitore perde la sua funzione, poiché deve sempre essere in rapporto a una drammaturgia. Un esempio riguardante il teatro musicale: fare un’opera barocca alla Scala è un inferno, non viene mai bene, perché è uno spazio costruito per un altro tipo di spettacolo.

I molti allestimenti in aree industriali fanno tuttavia pensare che l’esigenza di nuovi spazi sia particolarmente sentita…
La necessità di altri spazi è sentita ma sarà sempre una fuga senza approdo se non cambieranno le esigenze della drammaturgia. Mi è capitato molto spesso di dire che la mia insofferenza verso alcune forme di teatro belle, necessarie e importanti nasce non da una loro valutazione negativa ma dagli equivoci che creano. Per esempio, abbiamo parlato di Beckett: ecco che un teatro che in realtà nasce per creare dei problemi diventa invece il vessillo dei teatranti che i problemi non se li vogliono porre, perché si può fare dappertutto, ecc. ecc. Questa è una trivializzazione di un modello che era nato in opposizione a un modello già logoro. Al contrario, alcuni spettacoli che ho fatto e in particolare i tre che ho già citato, hanno dimostrato di essere un modo di fare teatro estremamente reciproco, diretto e in cui il pubblico di oggi si riconosce. Ma, per motivi molto precisi, stentano a diventare dei modelli canonici. Non sono suscettibili non dico della, ma di una canonizzazione. Ciò per una ragione molto semplice: è che Infinities incide perché chi scrive sa, conosce la materia di cui sta scrivendo. Scrive di ciò di cui sa. Non è un teatro della scienza, ma un teatro della sapienza, ossia l’autore non è un drammaturgo ma sa di che cosa scrive. Non si è andato a documentare per scrivere di scienza. La stessa cosa vale per Karl Kraus che scrive di ciò che sa. È un concetto di autore drammatico che non riguarda la letteratura. Sarebbe possibile fare un grande teatro di letteratura – Beckett lo è – ma resterebbe in primo luogo letteratura.

da “drammaturgia.it” 

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