15.3.15

Citato e recitato. Il Macbeth in Italia tra Ottocento e Novecento (Siro Ferrone)

Nel giugno 2013, per la ricorrenza dei 200 anni dalla nascita di Giuseppe Verdi (1813-2013), il Festival del Maggio Musicale Fiorentino ripropose, con la regia di Graham Vick e diretto da James Conlon, il Macbeth verdiano al teatro della Pergola, che ne aveva ospitato la prima rappresentazione assoluta in Italia, nel 1847.
Per l'occasione la rivista on line “Drammaturgia” propose un documentato e appassionante saggio di Siro Ferrone sulla fortuna italiana dell'opera shakespeariana. Senza le note (puntualissime e recuperabili nel sito originario del testo) al fine di una lettura più sciolta, lo “posto” qui, pensando di fare cosa gradita a qualchedun altro, oltre che a me stesso. (S.L.L.)
Adelaide Ristori
In Italia le prime significative rappresentazioni delle opere di Shakespeare sono successive alle traduzioni di Michele Leoni (1819- 22, in 14 volumi) e di Carlo Rusconi (1838, in 2 volumi). Nel 1841 una compagnia di tutto rispetto – capeggiata da Achille Majeroni – allestì Otello al teatro dei Fiorentini di Napoli. L’anno dopo la tragedia fu ripresa, senza successo, dal maggiore attore italiano del tempo, Gustavo Modena, al teatro Re di Milano. A partire dal 1843 (e fino al 1855) Giulio Carcano cominciò a pubblicare le traduzioni – destinate a una notevole circolazione – di molte opere shakespeariane.
Ma fu il felice esito del Macbeth di Verdi al teatro della Pergola di Firenze, il 14 marzo 1847, a determinare il vero e proprio inizio della fortuna del grande drammaturgo inglese. Il successo si riverberò ben presto anche sulle scene del teatro di prosa. Proprio quell’anno Adelaide Ristori e Tommaso Salvini recitarono insieme (la collaborazione resterà praticamente un unicum nella carriera dei due divi) in Giulietta e Romeo. Due anni dopo, a febbraio, fu Alamanno Morelli a rappresentare il Macbeth, prima al teatro Carignano di Torino e poi in altre città italiane, tra cui Milano, in concomitanza con la ripresa dell’opera di Verdi alla Scala.

Adelaide Ristori, attrice shakespeariana
A dispetto della crescente moda e nonostante la precedente e fortunata esperienza con Salvini, consapevole dei limiti delle compagnie di cui poteva disporre, Adelaide Ristori – all’inizio degli anni Cinquanta la più acclamata delle attrici italiane – esitò a lungo prima di affrontare da sola un’opera di Shakespeare, soprattutto in considerazione della ridotta presenza di protagoniste femminili in quel teatro. L’avvicinamento a Macbeth avvenne – secondo quanto lei stessa ebbe a rivelare nei suoi scritti – in seguito ai consigli degli impresari inglesi. Questi l’avrebbero incoraggiata, spiegandole che loro stessi, per tradizione, «operando vari tagli, adattavano la produzione non solo alla capacità ed al numero degli attori e delle diverse Compagnie, ma pure al gusto ed alle esigenze del pubblico».
Così il 3 luglio 1857, al teatro Covent Garden di Londra, l’attrice mise scena un Macbeth accorciato e adattato per l’occasione e a sua misura, sulla base del testo tradotto da Carcano. A Parigi, un mese prima (il 6 giugno 1857), dopo i tre atti della Maria Stuarda di Schiller, la Ristori aveva collaudato le sue forze interpretando una sola scena della tragedia, quella del Sonnambulismo di Lady Macbeth, destinata a rimanere una memorabile “aria” del suo repertorio e una tappa significativa dello spettacolo italiano dell’Ottocento. La messinscena londinese non ebbe tuttavia un’accoglienza trionfale, complice la proverbiale diffidenza degli isolani nei confronti della recitazione latina. E tuttavia le pose statuarie della protagonista furono molto apprezzate. Alla conclusione di ogni atto infatti la Ristori si compiaceva «to let the curtain fall on a sculptural epigram» mentre la scena del sonnambulismo le consentiva di esibirsi in un «pictorial monument» recitato «in an under-tone, never once raising her voice». Insomma una compiaciuta e applaudita galleria di «pose sceniche».
Dell’interpretazione del Sonnambulismo della Ristori un ricordo nitido rimase anche nella mente di Giuseppe Verdi che così la ricordò, scrivendo all’impresario Léon Escudier, da Genova, l’11 marzo 1865: «chi ha visto la Ristori sa che non si devono fare che pochissimi gesti, anzi tutto si limita quasi ad un gesto solo, cioè cancellare una macchia che crede aver sulla mano. I movimenti devono essere lenti, e non bisogna vedere fare i passi; i piedi devono strisciare sul terreno come se fosse una statua, od un’ombra che cammini. Gli occhi fissi, la figura cadaverica; è in agonia e muore subito dopo. La Ristori faceva un rantolo; il rantolo della morte. La musica non si deve, né si può fare; come non si deve tossire nell’ultimo atto della Traviata; né ridere nello Scherzo od è follia del Ballo in maschera. Qui vi è un lamento del corno inglese che supplisce benissimo al rantolo, e più poeticamente».
Non mancarono invece, allora e in seguito, le riserve nei confronti dei protagonisti maschili che affiancarono la Ristori, spesso ridotti al rango di semplici comprimari. C’è da dubitare che la grande attrice si attardasse nella ricerca di un partner alla sua altezza, di un Macbeth degno della Lady che doveva comunque primeggiare. A proposito del primo di questi Achille Majeroni – di cui conosciamo le benemerenze shakespeariane, peraltro discretamente apprezzate dalla critica – si limitò a dire: «Majeroni è un miserabile, è un nulla, un borioso ignorante, è privo di criterio, non è neppure un istrione perché manca di spirito, non mi fa una controscena, non crea, non comprende, prova per forza. […] Non conosce che l’urlo, null’altro». Majeroni restò con lei fino al 1861, sostituito poi da Luigi Pezzana (fino al 1865), quindi da Giacomo Glech e poi ancora da Michele Bozzo: tutti vittime del vampirismo della grande attrice. A ristabilire (almeno in parte) la verità, può servire la lettura di un breve stralcio di una recensione apparsa sulla «Gazzetta Uffiziale di Venezia», giovedì 9 settembre 1858: «nel Macbeth la parte fu più del Majeroni che sua; ella ebbe non di meno anche qui momenti felicissimi; ma con tutto il rispetto, che noi al suo gran nome e alla sua grand’arte portiamo, ad onta dei vivissimi applausi, che le diedero ragione, crediamo ch’ella un tantino esagerasse nella scena del sonnambulismo e col tuon della voce e col gesto; né desse per altra parte tutto il colore ad alcune immagini, come quella bellissima, che tutti i profumi d’Arabia non varrebbero a levar l’odore del sangue a quella mano, benché tanto piccola. L’effetto talora si perde per troppo volerlo. In questa parte del Macbeth […] il Majeroni si mostrò quell’ottimo attore, che altre volte conoscemmo e ammirammo».
Liberata dei suoi partners maschili, per tutta la carriera Adelaide Ristori poté invece conservare nelle sue serate speciali (le cosiddette «beneficiate») la prediletta «aria da baule» del Sonnambulismo, recitata anche in inglese nel 1873. Nella lingua originale la versione integrale della tragedia fu affrontata dall’attrice italiana solo nel 1882 a Londra; ma anche qui il partner protagonista fu scelto badando a che non la disturbasse troppo: William Rignolt era un bell’uomo «de belle taille» ma «d’une nature un peu neutre», così privo di personalità («[il] n’a pas trop individualité») che la sua interpretazione fu un disastro; né andarono meglio i sostituti che subentrarono: ogni volta, dal confronto, Adelaide doveva e poteva uscire vittoriosa. Sempre.

Gli eccessi di Ernesto Rossi
Se Lady Macbeth aveva piegato al suo potere di mattatrice ogni pretendente partner maschile ancor prima di entrare in scena e ancor prima di piegarlo alla sua volontà omicida nella finzione, altrettanto avevano fatto, nei confronti della regina sanguinaria, i mattatori maschili che si erano vestiti dei panni del re usurpatore nel corso del secolo XIX. Così era stato per Gustavo Modena, nel 1842, così sarà per Ernesto Rossi che fu Macbeth nel 1858 al teatro Apollo di Venezia nella prima di una lunga e fortunata serie di rappresentazioni: alcune di queste si svolsero a Firenze il 4, 5 e 17 gennaio 1860 ed ebbero la fortuna di incontrare le recensioni del grande Carlo Collodi che sulle pagine de «La Nazione» mise a confronto Rossi e Shakespeare: «uno ha completato l’altro: si sono intesi, indovinati: hanno creato insieme una figura strana, insolita, un miscuglio bizzarro d’ambizione e di crudeltà; di pentimenti e di disperazione; di codardia e di coraggio»; Rossi apparve dotato di «un’intelligenza finissima, un tatto squisito, una forza d’intuizione capace di comprendere e d’indovinare le più ardite concezioni dell’arte».
Analoghi elogi l’attore raccolse in occasione della tournée viennese del 1879: «com’era impressionante […] la sua fatica nel dover varcare per la seconda volta la soglia della stanza dell’assassinio, l’inciampo sui gradini e infine il precipitarsi dentro a forza! Difficilmente un processo psichico potrà essere restituito nella sua più chiara evidenza sensibile di come è stato fatto qui». Ma sorprendentemente il critico viennese parve elogiare, più che il protagonista, la comprimaria Graziosa Glech: «un genio della raffigurazione di una donna che della donna sembra non avere nulla e che in quanto a lucida energia giganteggia sull’uomo. Figura tarchiata, tratti affilati, sguardo che fulmina, demoniaco […]. Fa gelare il sangue il modo in cui sussurra al proprio consorte i malvagi propositi; come gli si avviticchia […]; come poi, dopo che Duncan è stato ucciso e Macbeth non ce la fa a rientrare sul luogo del delitto, gli strappa i pugnali di mano e come un turbine […] si precipita a sporcare di sangue il volto delle guardie […] L’attrice è maestra nell’arte del silenzio. Ciò che ella sogna nel sonnambulismo lo si capisce ancor prima che abbia dato voce al suo sentire. E le parole che confuse escono gementi dal petto hanno un suono così soffocato, risuonano e si spengono in modo così profondamente triste».
A riequilibrare gli elogi pensò bene il critico della «Neue Freie Presse», Ludwig Speidel che apprezzò l’estensione sensuale e musicale della voce del protagonista maschile, abile nel trascorrere dalla voce tenorile a quella del basso: «tutto in lui parla e ci convince, e sebbene la mimica facciale sia meno varia di quella del corpo, pure si rivela ricca di stile e comprensibilissima nella sua semplicità. Tutte doti, queste, che ce lo fanno riconoscere come figlio di quel popolo in cui è nato il genio plastico e pittorico. Le sue mani sono piene di virtù drammatiche; le dieci dita, un alfabeto capace di comporre molte parole»: un elogio del temperamento latino che in realtà avvalora – ai nostri occhi – quanto aveva osservato qualche anno prima (1876), con sguardo ben più scettico, Henry James in occasione delle recite londinesi: «sul palcoscenico Rossi possiede una figura superba, e di quando in quando un suo grido, un movimento, uno sguardo vanno direttamente al punto; ma, nell’insieme, penso che il suo Macbeth sia un lavoro decisamente pasticciato. […] La scena dell’assassinio di Duncan era sfigurata dai più assurdi effetti di ventriloquio nella parte del tremante barone, che tentava accuratamente di dare a sua moglie un’idea di come suonassero le voci delle guardie addormentate. […] Quando lascia la stanza con la moglie, dopo la partenza degli ospiti, Macbeth s’impiglia nel lungo mantello, inciampa, cade e si rigira con i piedi in aria. […] È una capriola ben fatta, senza dubbio, ma non penso che possa essere chiamata recitare Shakespeare». Come il suo collega austriaco anche il critico inglese aveva reso omaggio all’interprete di Lady Macbeth, Graziosa Glech: «questa oscura artista meridionale è superba. Dovreste vedere il gesto con cui, nella sua richiesta alla natura di “strapparle il sesso”, pronuncia il grande “ferma, ferma!” – o quelli in cui, per far tornare in sé Macbeth prima che siano entrati gli ospiti che hanno bussato al portone, lo scuote o lo afferra per il colletto».
Nessuno degli eccessi di Rossi macchiò invece le interpretazioni del contemporaneo Tommaso Salvini che superò indenne il severo giudizio degli inglesi, secondo il resoconto di un critico d’eccezione come Robert Louis Stevenson che parlò di «emphatic success» e paragonò quella ad altre brillanti interpretazioni (Otello, Amleto) dello stesso artista. Eppure non mancarono alcuni goffi incidenti: come quando, «al termine della scena delle apparizioni l’adattamento italiano ha fatto cadere Macbeth svenuto sulla scena» e – ancora peggio – volendo colmare il vuoto di azione si è provveduto a far uscire «un gruppo di ballerine vestite di verde che ha danzato sulle punte attorno al re disteso per terra. Una danza di prelati religiosi o un ballo di marinai […] non avrebbe stonato di più […]: in un teatro di Londra una simile irruzione di fatine natalizie avrebbe scatenato un’irrefrenabile risata dalla platea alla galleria».
Carmelo Bene e Vittorio Gassman
È, questo, l’inconfondibile marchio di fabbrica del teatro mattatoriale italiano, destinato a durare anche nell’epoca della regia novecentesca fino al nostro contemporaneo Carmelo Bene che tra il 1961 e il 1997 ha interpretato numerose volte Shakespeare: oltre ad Amleto (sei edizioni), Romeo e Giulietta (una edizione), Otello (una edizione), Macbeth è stato allestito due volte (nel 1982 e nel 1996). In entrambe le occasioni l’attore pugliese curò anche il disegno delle scene e dei costumi, oltre che la scelta dei brani musicali. Come si può vedere dai copioni conservati e dalle registrazioni video, in quei casi il testo venne triturato, smozzicato, a lungo deformato, fino a essere ridotto, in alcuni luoghi, a puro fonema (l’attore parlò di «variazione fonetica umorale»). Il sofisticato impianto di amplificazione da una parte riecheggiava il caos mostruoso delle streghe shakespeariane e dall’altra intendeva evocare il confronto con il campione verdiano. Gran parte delle musiche di scena furono infatti ‘cavate’ dal melodramma per enfatizzare l’estasi e il tormento esibiti dall’attore che – con estenuate controscene e un roteare d’occhi che avrebbe fatto invidia a Rossi, Salvini e Ristori messi insieme – se ne serviva per mostrare la sua inadeguatezza di epigono ultimo di quella tradizione. Era il controcanto del melodramma, il congedo, l’ammissione di un fallimento, ovviamente compiaciuto, secondo la poetica postmoderna. Alla miserevole e catastrofica ambizione dei due sovrani parvenus corrispondevano i conati del primo attore abusivo. Il suo delirio non era solo dettato dal rimorso per l’omicidio, ma anche dall’angoscia di chi, invano, insieme alla partitura verdiana, inseguiva i fantasmi dei grandi attori ottocenteschi; senza riuscire a replicarli, disegnando semmai l’inevitabile parodia di una tradizione irripetibile.
Alla stessa tradizione si era accostato, aspirando a imitarla, ovviamente a modo suo, in un sottaciuto spirito di competizione – se non di antagonismo – nei confronti di Carmelo Bene, un altro grande attore, Vittorio Gassman. Nella produzione realizzata in occasione del 46° Maggio Musicale Fiorentino del 1983, il principe dei «mattatori», oltre che protagonista, fu anche traduttore del testo e regista. La prima analogia con la prova di Bene, ovviamente anche sollecitata dal contesto del Maggio, riguardò l’impianto sonoro. Gassman predispose – con la collaborazione del musicista Gianandrea Gazzola – un «fiume di irrazionalità fonica» – sono parole del migliore critico teatrale del secondo Novecento, Roberto De Monticelli – orchestrato in maniera tale che la voce di Macbeth e delle streghe arrivasse «da diversi punti della sala, contratta e come sintetizzata in fonemi, misti a percussione (…) un fiume oscuro (…) che [continuava] a lampeggiare, a tratti, per tutta la durata dello spettacolo, con riprese di battute, voci misteriose provenienti da zone remote dello spazio in cui siamo immersi, percussioni, musicalità e ritmi anomali». La seconda analogia riguarda la messa in rilievo e l’isolamento dei grandi pezzi «per attore solista» che anche Gassman volle sottolineare in forma di «arie». Non mancò neppure l’esplicito omaggio al teatro della tradizione ottocentesca: come quando Macbeth «ormai privo di vita, manichino grottesco, viene in qualche modo recuperato dalle streghe come un reperto macabro e inabissato in un crepaccio della terra tra fumi infernali».
Questa e altre scene parvero avvicinarsi agli effetti di un teatro di grana grossa, da grand guignol: come la grottesca apparizione di Banquo, l’inabissarsi in un crepaccio del cadavere del tragico eroe o la trasformazione a vista di re Duncan che, una volta ucciso, risorgeva e si trasformava nella figura del Portiere del Castello. Ma l’interesse maggiore dello spettacolo fu forse la prova di Anna Maria Guarnieri come Lady Macbeth, capace di recuperare e innovare la lezione della Ristori: oltre che nella scena del sonnambulismo, anche nel resto della sua interpretazione, fu straordinariamente moderna perché passionale e sincopata, viscerale e mentale a un tempo, elettrica e nevrotica. Eppure, a dispetto di queste qualità, non essendo più il tempo di Adelaide Ristori, allora non si parlò altro che del «mattatore» che pure rispetto a Carmelo Bene aveva concesso, se non le «pari opportunità» un certo maggior rilievo alla partner femminile.
Il Macbetto di Testori per la regia di Franco Parenti (il primo a destra)
Nuove messe in scena
Pretese di collocarsi piuttosto dalla parte di Carmelo Bene, Gabriele Lavia avendo al suo fianco – come Lady Macbeth – nel 1987 Monica Guerritore e poi, nel 2009, la più giovane Giovanna Di Rauso, in un’altra reincarnazione della tradizione «grand’attorica». Qui Lavia fu infatti ridondante, fluviale e barocco come Bene, disponendo, dentro una cornice musicale incessante (solita allusione al melodramma), tutto il trovarobato di quinta, camerino compreso. Ma fu anche epigono di Gassman, alludendo alla figura del protagonista come a un mattatore teatrale (etimo, del resto, derivato dallo spagnolo matador: assassino) pronto ad esibire tutte le pose sceniche previste dal prontuario ottocentesco, dall’inizio alla sequenza delittuosa fino alla narcisistica catastrofe, celebrata in gloria.
Emulo della stessa tradizione fu anche Glauco Mauri (la prima volta nel 1971, poi nel 1981), che non a caso apparve – come scrisse un critico in occasione della prima rappresentazione – «spaventosamente solo». La sua prova venne assottigliando lo spessore di tutti gli altri personaggi, a cominciare da Lady Macbeth (interpretata la prima volta da Valeria Moriconi per la regia di Franco Enriques; la seconda volta da Maddalena Crippa per la regia di Egisto Marcucci): conseguenza, in entrambi i casi, di una debole direzione dell’ensembe rispetto al primo attore. Mauri attirava su di sé tutto il fuoco dello spettacolo mediante una tecnica “in levare”: una follia teatralizzata dal viso esageratamente sbiancato dal trucco faceva esplicito richiamo alla più ingenua convenzione ottocentesca; e tuttavia, rispetto a questa, una voce ostentatamente agra, quasi “stonata”, apriva un baratro di lontananza, con un’accentuazione nevrotica opposta a quella ottenuta da Carmelo Bene.
La lettura antimelodrammatica venne spinta alle estreme conseguenze nel 1974 dal protagonista Franco Parenti al salone Pier Lombardo di Milano nell’interpretazione del Macbetto di Giovanni Testori, traduzione e adattamento del testo shakespeariano in un bizzarro e fantastico linguaggio in cui risuonano le parlate della Lombardia orientale. A pareggiare i “soprusi” del mattatore maschile – nel Novecento troppo spesso indisturbato protagonista scenico rispetto alla complice sanguinaria – la regia fu di una donna (Andrée Ruth Shammah) la quale volle enfatizzare «con forti blocchi narrativi il lungo duello tra la femmina-maschio e il maschio-femmina: Francesca Benedetti, fulva e torva», apparve «animata dalla forza di un elemento sradicatore» ma anche contrassegnata da tratti parodici («immagine parodistica di una furia»), mentre Franco Parenti «in un travestimento grottesco» colmava da par suo la scena con «una valanga di parole, di volta in volta ossessiva, ritmica, spezzata, secondo i canoni di una fanatica musicalità sofferente» ancora in linea, quest’ultima, con la tradizione italiana inaugurata dai grandi dell’Ottocento.
La coloritura italiana delle riletture shakespeariane è ancora più evidente se la si confronta con i risultati di spettacoli allestiti in Italia da registi e attori stranieri. Si tratta spesso di visioni del tutto antitetiche rispetto alla cultura del grande attore. Può bastare osservare quanto fatto, più di recente, dal regista lituano Eimuntas Nekrosius operando tanto sul testo shakespeariano (Macbetas è andato in scena prima a Vilnius in Lituania e poi al teatro Biondo di Palermo, nel 1999) quanto sul libretto e sulla musica di Verdi (allestimento del Maggio Musicale Fiorentino del 2002). Nella versione recitata, in coerenza con la sua poetica in azione, il regista dava forma alla tensione drammatica mediante uno stile plastico (e coreutico) notevolmente alleggerito dei toni cupi e sanguinari di cui la tradizione circonda i crimini dell’usurpatore scozzese. Alla versione light collaboravano non poco le tre attrici che – a differenza del costume abituale che le vuole vecchie e laide – incarnavano tre streghe giovani e belle incaricate di preannunciare il tragico destino al protagonista: comparivano perciò non solo le due volte previste da Shakespeare, ma più di frequente, con una funzione di vere e proprie «serve di scena», tracciando un filo conduttore dell’azione nient’affatto lugubre o lamentoso – come spesso è dato di vedere –, annacquando la densità sanguinaria del testo, peraltro così abilmente tagliuzzato da assumere i caratteri di uno svelto libretto d’opera.
La successiva regìa lirica dello stesso Nekrosius al Teatro del Maggio Musicale ricalcò gli stilemi dello spettacolo di prosa anche se con una vistosa dilatazione degli effetti scenografici: due colline costituite di corda di canapa di lunghezza spropositata, mille metri di cavi di metallo contro un fondale nero sfregiato da uno squarcio luminoso.


© drammaturgia.it Pubblicazione sul web 14 giugno 2013

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