2.2.15

Veli. Il suicidio annunciato di Pilar Donoso (Filippo Fiorini)

José e Pilar Donoso
BUENOS AIRES - Pilar non ha mai sopportato di essere la figlia di un genio della letteratura. Suo padre lo sapeva anche prima che lei imparasse a leggere. Lo aveva visto così chiaramente che scrisse un libro in cui immaginava la storia di una bambina che trova i diari del padre e scopre di essere stata adottata. Scopre che suo padre è gay, paranoico e ubriacone. Scopre che dietro alla foto sorridente della sua famiglia c’è uno scarabocchio incomprensibile e poi si uccide. Così si scrisse e cosi fu. Suo padre, Josè Donoso, era stato troppo intelligente anche in questo.
Pilar ha preso il sonnifero e se n’è andata, abbracciata alla morte lenta e silenziosa degli stanchi. «Ha guardato le pastiglie che teneva nella palma quasi fossero monete barbariche, da pagarsi come pedaggio attraverso un ultimo, astruso confine» ed è partita, come altrove disse d’Arturo un altro monumento all’inchiostro su bianco, Elsa Morante.
Quant’è fonda la desolazione dei suicidi? Lo sa solo chi ha seguito il consiglio di Camus e Kurt Cobain, come ha fatto quella ragazza splendida nella forma e nella sostanza, che dalla vita ha voluto tutto meno che la letteratura e il suo cognome e che finì per usare il suo nome e la sua lingua scritta per difendersi da entrambi.

Biglietto per il silenzio
Spostando lo spesso velo è il titolo dell’unico libro che scrisse la stessa mano che ha pagato ieri il suo biglietto per il silenzio. Non è una velleità letteraria, ma un testo autobiografico basato sui diari del padre, intitolati Lucertola senza coda e pubblicati quest’anno in Italia da Cavallo di Ferro. Il libro che Pilar ha scritto perché «la smettano di farmi domande su di lui», dopo tutto quello che è stato detto sul controverso autore di una prosa unica, che fu amico di Gabriel Garcia Marquez e Mario Vargas Llosa. Ma anche dopo che l’importante quotidiano cileno La Tercera dedicò un vergognoso speciale a puntate sull’omossessualità di Josè Donoso. Uno scoop da figli di puttana con un terzo d’anima in sconto in edicola e il resto già regalato in volantini sgualciti.
Pilar era rimasta sola a 28 anni. Il 7 dicembre del 1996 il Cile perdeva il padre della cosiddetta corrente del Boom Latinoamericano, uno che aveva rinunciato alla borghesia per vivere adolescente
con i pescatori del sud e scrivere un libro sui nobili di Santiago del Cile. Uno che si era dichiarato esiliato della dittatura di Pinochet, nonostante fosse già in Spagna da anni, perché aveva voglia di viaggiare, e che aveva saputo chiudere la condanna al regime militare in una metafora coerente e bella (Marulanda,la dimora di campagna, Feltrinelli 1985). Pilar, invece, perdeva un padre "frocio", bugiardo a fin di bene, maledettamente intelligente e bravo a scrivere, ma che giudicava pessimo come genitore ed egocentrico come uomo. Due mesi dopo poi, il Cile restava senza una delle cento cittadine qualunque che muoiono ogni giorno, mentre Pilar perdeva anche la madre e restava completamente orfana.
Quando glielo chiesero, disse che non le importò nulla. Era una tipa orgogliosa. Per scrollarsi di dosso il mantello dei Donoso, si era sposata a 19 anni. Con ironia, ricordava che la sua fuga da casa era finita a due quarti di nobilità di distanza: il marito era un cugino, di cognome ancora una volta Donoso, come un serpente urovoro, che si morde la coda e si avvelena solo.
Chi siamo se scopriamo da grandi che i nostri genitori non sono i nostri genitori? Chi siamo se scopriamo che nostro padre non è nostro padre e che il suo amore per nostra madre non è uguale all’amore che non fa dormire, ma è l’amore degli amici? Siamo sempre gli stessi. Perché noi siamo solo ciò che ricordiamo d’esser stati e ci inventiamo d’essere.

Reiterare la parola fino al mito
Il sangue di Pilar Donoso non era lo stesso di Josè Donoso, già che era stata adottata, eppure, lei ha saputo scrivere un capolavoro della letteratura cilena, che va in biblioteca subito dopo quelli del padre, secondo per ordine alfabetico, pari per quel di merito.
Fu un libro che volle soprattutto far smettere di parlare, ma che con la notizia del suicidio del suo autore otterrà proprio l’effetto contrario: reiterare la parola fino all’esasperazione, fino al mito. D’altronde, il segno mitologico ha marcato la fronte dei Donoso da tempo. Oltre al manoscritto mai pubblicato in cui Josè Donoso prevede la tragica sorte della figlia, c’è L’osceno uccello della notte (Bompiani, ’97), che conquistò il cuore della critica, poi, il ritratto scritto dalla moglie, con un libro sull’esperienza di esser teste di ponte di una corrente letteraria dal punto di vista del salotto familiare.
Addirittura, si dice che Josè sul letto di morte volle che gli si leggessero poesie, come ultimo ingrediente segreto di una follia a parole, troppo bella per non essere raccontata, quanto troppo vera per essere sopportata. Pilar in spagnolo vuol dire pilastro, ma la colonna che resiste alla tempesta, magari, cede alla consunzione della goccia.
Correr el tupido velo (Spostando lo spesso velo) resta la sua unica, tormentata opera letteraria. Un libro che per le rivelazioni, i giudizi, le riflessioni non proprio tenere sul grande scrittore cileno e sul rapporto che la legava a lui ha suscitato aspre polemiche. E soprattutto le è costato la rottura dei rapporti con la famiglia Donoso. Incluso quindi il marito, ovvero il cugino, Sebastian, e i figli che sono rimasti a vivere con lui.


“il manifesto” 24 novembre 2011

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