2.2.15

La zuppa e le nostre radici barbariche (Alessandro Zironi)

Ho diffuso nei giorni scorsi un testo di Eros Barone, che con solide argomentazioni sottolineava come anche l'Islam abbia alimentato le radici dell'Europa moderna. L'articolo che segue – da “La lettura” del “Corriere della sera” - è di Alessandro Zironi, che insegna Filologia germanica e Letterature nordiche all'Università di Bologna e che spiega, ragionando di barbarie e opportunamente parlando di “radici barbariche”, come l'identità d'Europa sia irrimediabilmente “ibrida”. Sarebbe bene prenderne atto, per sottolineare il valore permanente dell'ibridazione come continuo arricchimento dell'identità europea. (S.L.L.)

Tanto si è discusso e si discute sulle possibili radici cristiane o greco-latine dell'Europa. A nessuno si è palesato il dubbio che le nostre radici siano invece barbariche? Questo suggeriva provocatoriamente Jean-Jacques Aillagon aprendo il catalogo della mostra veneziana Roma e i barbari (Skira, 2008).
Gli europei sono ascrivibili d'ufficio al gruppo dei «balbuzienti» (tanto, significa, in greco, barbaroi) o, ancor peggio, vanno annoverati tra le fila dei selvaggi e primitivi, come vuole l'ampliamento semantico del termine? L'accezione negativa della parola barbaro è quella corrente. Gettiamo un rapido sguardo al suo uso contemporaneo: si scopre che in un talk-show televisivo si conducono «interviste barbariche», cioè provocatorie, disinibite, al di fuori delle regole usuali del giornalismo. Oppure si pensi al film Le invasioni barbariche (regia di Denys Arcand, 2003), in cui si rappresenta la fine di un'epoca nei suoi valori portanti, schiacciati dal caos emotivo ed etico in cui la vita dell'individuo precipita. Solo qualche giorno fa, il presidente francese François Hollande denunciava a Timbuctù la «barbarie» perpetrata sui beni culturali del Mali.
In altra direzione si muovono invece gli studi storiografici: quelli più avveduti, fra i quali ricordo i lavori di Walter Pohl, stanno infatti spostando il baricentro semantico del termine «barbaro» da una connotazione profondamente e tradizionalmente negativa a un uso più neutrale, ove con barbarico si intende definire un periodo della storia d'Europa, quello tardo-antico ed alto medievale. Tempi barbarici (Carocci, 2012), è il titolo di un recente volume di Stefano Gasparri e Cristina La Rocca: in esso il confine fra civiltà e barbarie, fra dominatore e dominato non è poi così netto. Queste recenti indagini storiche sfumano anche il concetto di assimilazione con cui un tempo si intendeva l'assorbimento delle masnade barbariche all'interno della civilitas romana (e bizantina) ereditata e salvaguardata poi dalla Chiesa.
In definitiva, barbari, alle soglie dell'età medievale, lo sono un po' tutti, al di là di denominazioni etniche spesso fasulle alle quali una tradizione storica di matrice ottocentesca nazionalista ci ha abituati: Goti, Longobardi, Burgundi, Franchi, Suebi e, ovviamente, non possono mancare loro, i barbari per antonomasia, i Vandali. Queste genti, però, si muovono attraverso l'Europa non come corpi etnici impenetrabili a influenze esterne, ma raccolgono e accolgono individui e gruppi nei quali di volta in volta si imbattono: Greci, Romani, Celti, popoli delle steppe, in una parola quel melting pot che darà poi vita agli europei. In Italia tutti parliamo un po' in longobardo o in gotico. Molto spesso non lo sappiamo neppure. Chi non pronuncia, almeno una volta al giorno, la parola schiena, oppure guancia o, piuttosto, pensa che occorrerebbe arredare nuovamente la cucina in cui mangiare una zuppa magari riscaldata nel microonde? Parliamo ostrogoto? Finalmente possiamo rispondere: «Sì!». Per non dire dei Longobardi e Franchi in cui ci imbattiamo scorrendo i campanelli di ogni condominio: tutti coloro che hanno il cognome che termina in -ardi possono intraprendere una bella ricerca genealogica e sperare di arrivare a Carlo Magno; chi, invece, all'anagrafe, è registrato come Sighinolfi o Alderissi, può invece immaginare di essere parente di re Alboino.
Peccato, però, che l'indagine genealogico-etnica naufragherà, scoprendo ben presto che la discendenza non sempre può vantare antenati di pura schiatta romana o barbarica. Valga qualche esempio: a Varsi (Parma), nel 735 vive il soldato e vir honestus Berto (quanto mai longobardo) il cui figlio prende però il nome latino di Antonino; a Lucca, di contro, nel 764, un babbo Vincentius, ha un figlio dall'altisonante nome longobardo Sichipert. Viene da pensare allora che l'idea di barbaro sia più una costruzione culturale moderna, anche un po' ammuffita, piuttosto che una realtà dei fatti. Se, allora, dal barbaro non possiamo più smarcarci etnicamente e linguisticamente, probabilmente tutta la questione va addebitata allo stereotipo che si associa alla sua immagine. Come in tutti i clichés si raccolgono anche qui rifiuti e pulsioni, inconfessabili adesioni, convinte appartenenze. Già lo storico romano Tacito, alla fine del I secolo d. C., raffigura le genti che abitano al di là del Reno come uomini e donne che prediligono il bosco alla città, la casa isolata all'agglomerato, che vivono casti sino al matrimonio: un'idea di purezza di costumi a contatto con una natura primigenia che tanto infatuerà l'immaginario europeo.
L'europeo si innamora dell'Ultima Thule, dell'Islanda, isola di ghiacci e fuoco in cui andare ad alimentare il sogno delle origini, ultimo, incontaminato luogo in cui recuperare ciò che di sano vi era nell'età dei barbari. È la ricerca dell'estremo, magari da percorrere col fuoristrada, addentrandosi nei tratturi più interni e accidentati dell'isola. I sogni di molti viaggiatori alla ricerca della terra dei vichinghi si appagano anche così, sentendo una giovane donna, ai piedi della collina sacra di Helgafell — come è capitato al sottoscritto — vantarsi di discendere da Guðrún Ósvífrsdóttir, tremenda virago protagonista della Laxdæla Saga, forse vissuta alla fine del X secolo. Tanta fortuna, anche letteraria, del Nord è probabilmente legata a questa visione così radicata nel nostro immaginario di un mondo ancora intatto, arcaico, scevro dalle corruzioni della società industriale e dunque barbarico perché ancora puro e incontaminato. Con barbarie, perciò, non si intende più la distruzione della civiltà, ma piuttosto la volontà di recuperare il primigenio.
Non siamo molto distanti dalle speculazioni romantiche, che nelle genti germaniche, celtiche o slave cercavano di individuare i popoli fondanti del proprio ethnos, anche se, va detto, il legame terra-ethnos è ben più antico e si ritrova già in alcuni testi medievali. Molto del recente folclore a uso turistico (talvolta politico) che si spende nella vana ricerca delle origini approda al cosiddetto mondo barbarico. In esso si sfoggiano fittizie ricostruzioni che poco però hanno a che vedere con quello che gli archeologi medievali pazientemente portano alla luce.
Un buon viatico in questo percorso fra gli stereotipi barbarici può essere raccolto anche nelle evidenti affinità riscontrabili fra molti raduni e fiere in costume, più o meno casarecci — di cui anche l'Italia si sta popolando — e la rappresentazione che dei barbari propone una certa produzione fumettistica, che restituisce graficamente ciò che l'immaginario collettivo si aspetta da quella terra barbarica: natura estrema, una mascolinità esibita da uomini virili, spesso villosi e muscolosi, dei quali si intuiscono i successi sessuali e la consuetudine alle grandi bevute.
La donna è, di contro, figura servile, a uso e consumo del maschio, una Barbie impiantata nel corpo barbarico del medioevo nordico. Se non è accondiscendente e devota ai suoi doveri muliebri, diviene elemento di disturbo nell'ordine cosmico, spesso strega, talvolta femme fatale, comunque da eliminare.
Lo stesso avviene nei numerosi videoclip di brani musicali connessi al cosiddetto pagan metal o viking metal, in cui sono proposti i medesimi ruoli sociali: l'uomo combatte, la donna venera il maschio e custodisce la comunità. Basti prendere visione di qualche filmato dei Týr, gruppo di buon successo e capacità musicali, o dei Menhir, anch'esso di notevole diffusione e discreta bravura. Entrambe le band mettono in musica testi medievali, in lingua originale: ballate delle isole Fær Øer i Týr; il Carme di Ildebrando di età carolingia i Menhir.
Il mondo barbarico si recupera anche attraverso l'uso della lingua antica, quasi a suggellare un passato culturale che nulla ha da patire nel confronto con la tradizione musicale in lingua latina. Infatuazioni della musica gregoriana e dell'ars antiqua invadono anche gli arrangiamenti delle compilation metal, ove tutto si mescola e si confonde. Un'assimilazione senza vincitori né vinti in cui la differenza è ricchezza. Che, in fondo, questa sia la barbarie dell'Europa? Sapere di essere uguali, ma allo stesso tempo diversi, uniti ma pure divisi, fusi ma distinti? Probabilmente l'immagine più vera della barbaritas è il medaglione d'oro di Teodorico, re degli Ostrogoti, rinvenuto nei pressi di Senigallia nel 1894. Il re goto, che parlava greco e latino, sceglie di farsi rappresentare alla maniera romana con la tradizionale vittoria alata, senza rinunciare tuttavia al lungo crine e al baffo germanico: non si sa più dove finisca la romanitas e inizi la barbaritas. Che sia questa l'icona più efficace per rappresentare la nostra ibrida «europeità»?


“Corriere della Sera - La Lettura”, 10 febbraio 2013

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