25.2.15

La morte di André Malraux (Franco Fortini)

André Malraux
Non so se sia ancora leggibile o se tornerà a esserlo. Era una Francia da nobiltà dello spirito, intollerante e spesso intollerabile; nipote e fratello di innumerevoli, persino della «bocca d'ombra» di Hugo, e giù, da Barrès a Gide e magari a Peguy, a Camus; al di sopra delle distinzioni politiche, l'orgoglio della distinzione; l'esotismo eroto-rivoluzionario e il senso delle seicentesche foreste domestiche, del domaine avito nelle provincie regie; lo sguardo da esteta oltre Reno, Alpi e Pirenei; la fraternità virile, la sigaretta forte.
Per quelli della mia età è stato anche, o soprattutto, altro. L'intervento al primo congresso dell'Unione degli scrittori sovietici, agosto 1934; la rivelazione, allora sconvolgente, di che cosa era stata la guerra di Spagna, e la discussione esistenziale sulla violenza nelle pagine di “Espoir”, lette solo durante la guerra; e la Cina; la Shangai di La condition humaine che avrei «riconosciuta» quasi trent'anni dopo quel 1927 che aveva rappresentato. Quello che è stato per me, oserei dire per noi, Malraux; né conta troppo sapere che cosa, in quelle pagine, fosse passione nostra e che cosa retorica sua. (Altrettanto potrei dire nel dopoguerra, per i tre volumi della Psychologie de l'art). Anche chi ha letto certe crudeli biografie del personaggio può guardare, credo, al di là del personaggio: e persino al di là dei suoi libri. Nella favola superomistica delle «querce abbattute» (sua è la formula, e per De Gaulle) c'è qualcosa che non abbiamo il diritto di spregiare troppo facilmente. Soprattutto quando è anche grazie a Malraux che dall'Europa di Hitler e di Mussolini alcuni poterono levarsi a ricordare il volto vero dei propri doveri, come, nei fìlms che egli diresse durante la guerra spagnola, quel contadino che, portato tra le nuvole dall'aereo della ricognizione repubblicana, riconosce, a un tratto, i campi suoi, per i quali dovrà combattere.


“il manifesto”, 24 novembre 1976

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