24.2.15

Da Venezia a Canicattì. Il baffone e la carampana (S.L.L.)

Canicattì - Un'immagine del quartiere Borgalino nella prima metà del Novecento
Carampana, sostantivo femminile, è per i dizionari “donna volgare, sguaiata, oppure brutta e vecchia”, qualcuno aggiunge “allampanata”. Tutti fanno riferimento a un originario significato di “meretrice”, legato all'allocazione della prostituzione veneziana nell'area che era stata del palazzo e dei caseggiati della famiglia Rampani fino agli inizi del Trecento. Per questo certe calli della parrocchia di San Cassiano sono chiamate appunto Ca' Rampani.
Nel Veneto è attestato il proverbio Vecia carampana, vecia maràntega, che sconsiglia la frequentazione delle puttane vecchie, inevitabilmente orribili (marantega è sinonimo di “befana”). Eugenio Musatti (1844 -1928), un figlio della borghesia ebraica che fu, oltre che imprenditore ed economista, storico della sua Venezia ricorda: «Fin dal 3 giugno 1358, essendosi ordinato dal Maggior Consiglio ai capi di Sestiere cercassero un luogo opportuno nella nostra città per confinarvi le sacerdotesse di Venere, venne all'uopo designato un gruppo di case (nella parrocchia di San Matteo di Rialto) detto il Castelletto. Una matrona fu posta al governo d'ognuna di queste case, che teneva cassa del denaro e divideva ogni mese a tanto a testa il guadagno. Ma le abitatrici del Castelletto si sparsero col tempo in altri siti e di preferenza in Carampane». Da altre testimonianze si apprende che quelli della zona erano nel Settecento i bordelli più economici e, forse per questo, quelli ove era più facile incontrare prostitute attempate, un po' imbruttite dagli anni e dal mestiere.
Una “carampana”, in questa accezione più antica, era la “Gatina” di Borgalino (Agata all'anagrafe) che teneva casa e bottega quasi di fronte al nostro Liceo, il liceo-ginnasio Foscolo di Canicattì, accanto alla botteguccia di generi alimentari cui alcuni di noi ricorrevano per il panino della ricreazione (io lo volevo immancabilmente “ccu lu pisci all'ogliu”). 
Doveva avere una cinquantina d'anni ed era, secondo me, più consumata dal mestiere che dagli anni. E tuttavia, sarà per i prezzi bassi, sarà per una qualche speciale abilità, sarà perché il cliente s'affezionava, raccontava i suoi guai, si sfogava come la moglie con il confessore, non mancava un certo andirivieni perfino nelle ore del mattino, specie nelle giornate fredde o piovose. I clienti erano generalmente gente di campagna, anziani contadini, numerosi in quel quartiere Borgalino che ospitava il nostro liceo.
Una volta un vecchietto morì mentre era da lei. Noi ci scherzavamo su, ma per la povera donna doveva essere stata una tragedia. I ragazzi però, a volte, sono crudeli e anche a me capitò di esserlo, proprio in quella occasione. Agli amici con cui acquistai il panino suggerii di venir meco ché si sarebbero fatte “quattro risate”. Bussai con il campanello nella abitazione di Gatina e lei azionò l'apriporta dal primo piano dove abitava. Apparve in cima alle scale e chiese: “Chi è?”. Io da giù a mia volta chiesi: “Abita qui il signor Scolo?”. Mi gridò in dialetto: “Curnutu baffuni, ora ti fazzu vidiri”; e mi tirò uno zoccolo, che m'avrebbe fatto male se non l'avessi scansato fuggendo via, in classe.
Oggi me ne vergogno, ma allora un po' mi gloriai: non tanto della bravata, quanto del baffuni. Dopo averla rasata tutti i giorni, per qualche settimana avevo fatto crescere sul muso - come segno di sopravveniente maturità - la peluria, che però era rimasta molle, rada e sparuta (spana, si diceva in dialetto). Amici e conoscenti o ignoravano quei baffi (e con essi i miei sacrifici) o li definivano una porcheria; la carambana invece se n'era accorta e la cosa mi riempiva di gioia.

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