4.2.15

Complessi e band. Le vibrazioni dei Beach Boys (Antonio Scavone)

Da un raffinato sito che richiama Calibano e dà spazio a tutte le arti riprendo la prima parte di un articolo d'argomento musicale. (S.L.L.)

Negli anni ’60 li chiamavamo “complessi” ed erano formazioni strumentali che ricalcavano l’assetto dei “Fab Four”: batteria, basso elettrico, due chitarre elettriche, di cui una era lead, guida o solista. Si formarono innumerevoli complessi ma molti dei loro componenti trasmigravano da un gruppo all’altro, fondandone di nuovi, sconfessando gli originali. La denominazione “complesso” andò in disuso – troppo semplicistica e in fondo anonima – ma da noi era difficile accettare quella di “band”, che configurava un assetto dalla vocazione pluri-strumentale e con un repertorio molto più articolato e identitario. Alle chitarre elettriche si aggiunsero col tempo sassofoni e trombe, tastiere e sintetizzatori elettronici: anche la batteria si ingrandì, divenne monumentale (si pensi alla postazione super-accessoriata di Carl Palmer del “trio” Emerson-Lake-Palmer).
La band si impose non solo per il numero cospicuo degli strumentisti o per l’eterogeneità timbrica del suono, ma anche e soprattutto per la contaminazione dei repertori (dal country al rock, dal folk al pop) e l’innovazione nell’orchestrazione, requisito indispensabile e coessenziale per una formazione strumentale così ampia e diversificata.
In Inghilterra gli eredi o gli epigoni dei Beatles cominciarono ad ampliare formule, contenuti o elementi della band (dagli Yardbirds ai Led Zeppelin, ai Genesis), ma il vero boom si verificò negli Stati Uniti dopo le esibizioni di Woodstock e i concerti “Live Aid”. Una band composita doveva comprendere chitarre e ottoni, tastiere e percussioni (come quella assortita nel film The Blues Brothers).
Sui palchi dei concerti rock si presentavano dai dieci ai quindici strumentisti per creare e diffondere una particolare sonorità (il cosiddetto sound), affidata a nuove o rivisitate invenzioni cromatiche e realizzata con l’avvento di inusitati strumenti elettronici (moog, mellotron, theremin fino alla chitarra sintetizzatore di Pat Metheny). Le band americane – piccole orchestre “live” – furono di grande o media qualità negli anni ’80 e ’90 (Grateful Dead, Jefferson Airplane, Chicago, Beach Boys, Mamas and Papas), che registravano non solo musica ma anche smembramenti e distacchi, rinnovamenti e ritorni, per non parlare di crisi personali (alcoolismo, droghe) e di morti premature.
Una band che si rinnovò nel repertorio (da una fase adolescenziale e canzonettistica) e nei suoi componenti (sostituiti, rifiutati, ripresi) fu quella dei Beach Boys, fondata nel 1961 da Brian Wilson con i fratelli Dennis e Carl (morti nel 1983 e nel 1998), il cugino Mike Love e il batterista Al Jardine. E' del 1966 Good Vibrations… Il testo della “song” è scontato ed elementare: parla come è facile immaginare delle vibrazioni, delle eccitazioni provocate dai preliminari di un contatto sessuale ma non sono né semplici né elementari la composizione e l’esecuzione del riff che dà il titolo al brano. Per rendere musicalmente attendibile l’idea delle vibrazioni la band fece ricorso ad un non-strumento, il theremin, cioè un apparecchio che dilatava il suono come in un oscillografo e che ricreava credibilmente l’intensità e la mutevolezza della vibrazione sonora, prossima a quella fisica. Una vibrazione corporea veniva tradotta con una vibrazione sonora, modulando le note musicali in uno spettro acustico di sorprendente impatto emozionale. Quello che sembrò solo un effetto speciale da studio di registrazione (e quindi un trucco da banco di missaggio) divenne negli anni seguenti un modello da riproporre e intensificare, influenzando molte altre band nella ricerca di sonorità sempre più sconvolgenti e talvolta ridondanti (techno, house, metallic). […]


dal sito “La dimora del tempo sospeso” - https://rebstein.wordpress.com

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