10.2.15

Cinici e disillusi. Montanelli e Prezzolini, reazionari perfetti (Alberto Asor Rosa)

Dall'alto Giuseppe Prezzolini e Indro Montanelli
Fra le tante storie singolari di questo fine secolo, bisognerà annoverare anche la notizia della prossima pubblicazione di un giornale intitolato “La voce” da parte di Indro Montanelli, estromesso da “Il giornale nuovo”, da lui stesso fondato nel 1974. Ora si dà il caso che “La voce” sia anche il titolo di un famoso settimanale fondato e diretto da Giuseppe Prezzolini fra il 1908 e il 1913, che fu organo, come si disse, dell'«idealismo militante», strumento per la creazione di una nuova classe dirigente, al tempo stesso antisocialista e antigiolittiana. Il riferimento è senza dubbio intenzionale, si tratterebbe di stabilire quanto sia fondato.
Un punto di contatto sicuramente esiste tra Montanelli e Prezzolini: il primo comincia dove l'altro finisce. È un punto di contatto, e al tempo stesso una differenza non da poco. Come si sa, il tentativo di Prezzolini, dopo aver conosciuto le disillusioni del periodo pre-bellico, approdò dopo la guerra alla proposta di fondare una Società degli Apoti, la Congregazione di «coloro che non le bevono», di coloro ai quali, nei tempi di confusione, «non sta. non conviene, non è bello fare politica... ». Il giovane Piero Gobetti. cui Prezzolini indirizzava questa proposta, gli contrappose l'intransigentismo morale, che doveva portarlo ad una contrapposizione netta, inequivocabile, fermissima al fascismo - fino all'esilio e poi alla morte. Prezzolini, invece, eretto nel momento della mischia sulla sua tribuna di marmoreo distacco, doveva scenderne negli anni successivi fino al filofascismo e di esaltazione incondizionata e apologetica del mussolinismo (ricordate? «Mussolini è una forza. Si tratta di constatare anzitutto questo fatto semplice, elementare e incontestabile. È una forza, indipendentemente dal Partito che esso capeggia, dalle idee che egli sostiene»: Prezzolini. 1927 ).
Montanelli, invece, nasce integralmente e persuasamente fascista. Si dirà: siamo nei lontani anni 30: non si può rimproverare un passato così lontano a un giovane meno che trentenne. Ma è piuttosto quello che negli anni successivi segue coerentemente a quella scelta iniziale a qualificare in senso duraturo, anzi definitivo, la personalità del giornalista. Anche nell'educazione di Montanelli produce un effetto determinante una disillusione storica, nel caso suo la disillusione del fascismo. Questo a me sembra sul piano etico-politico un tratto estremamente caratterizzante: siamo di fronte a uomini, a intellettuali, in cui la delusione delle cose del mondo, - che ad una sensibilità laica non può non apparire tanto dolorosa quanto inevitabile, - viene messa alla base di un'intera visione della storia e. direi, dell'uomo. Quando la sconfitta, vera o presunta che sia, viene registrata, la morale diventa: poiché si è smesso di credere nel meglio, ci si può accontentare di credere - e di sperare - nel peggio.
Quando Montanelli ricompare all'attività pubblica negli anni del secondo dopoguerra, egli non sarà allora, né diventerà mai un antifascista convinto, per quanto estremamente moderato, anzi decisamente conservatore, ma solo un fascista deluso. È lui stesso a dircelo con ammirabile chiarezza in un brano d'impostazione autobiografica che risale al 1953: "Quel che mi mancava era la molla che, a furia di scattare a vuoto, s'era guastata. Ciò mi aveva dato la convinzione di essere diventato un antifascista. Ma non era vero. Ero soltanto un fascista saturo e stanco, i cui entusiasmi non reagivano più ai grossolani stimoli delle oceaniche adunate e di un patriottismo verboso e di maniera. Anticipavo di qualche anno quella malinconica cosa che è l'Italia d'oggigiorno. l'Italia smaliziata e utilitaria degli italiani che non ci credono più. Fu allora che diventai, ma cautamente, scanzonato».
Come Prezzolini. anche Montanelli si iscrive dunque, ad un certo punto della sua vita, ad una sua personale Società degli Apoti: quella degli «italiani che non ci credono più». Ma, come Prezzolini. e come sempre capita in casi come questo, anche Montanelli, dall'alto del suo conseguito scetticismo, non può fare a meno di servire il potere come e quando e dove c'è, perché quello che sul piano esistenziale e storico si presenta come disillusione, sul piano morale e politico si configura come cinismo, accettazione della legge del più forte, disprezzo senza limiti del più debole. Così Montanelli entra a far parte a pieno titolo negli anni 50 e 60 di quel tipo d'intelligenza nazionale, che si costringe a viva forza a servire il potere - e lo serve in verità con cocciutaggine e fedeltà senza pari - per potersi prendere poi la libertà di dirne male e il gusto di provarne schifo: o. forse meglio, quel tipo d'intelligenza nazionale, che si prende la libertà di dir male del potere e di provarne schifo per poterlo poi servire con cocciutaggine e fedeltà senza pari. Non bisogna dimenticare che, se del quarantennio che ci sta alle spalle è suggello terribile sul piano storico la catastrofe di Tangentopoli, è inveci cifra morale caratterizzante e profonda la celebre frase montanelliana «Mi turo il naso, e invito a votare per la Democrazia cristiana».
Il prezzolinismo di Montanelli è perciò autentico, ma come degradato. di specie inferiore (bisognerebbe richiamare anche l'influenza delle fasi intermedie, come quella rappresentata da Longanesi). È venuto meno il sogno, discutibile ma generoso, di creare una nuova classe dirigente attraverso la predicazione di un nuovo verbo filosofico ed etico-politico. Resta la componente difensiva, il timor panico del nuovo che avanza, l'adesione incondizionata alle ragioni della borghesia più chiusa e retriva, il grido sempre più stanco: «Questa Italia non ci piace».
È una vera ironia della sorte che Montanelli sia stato costretto ad abbandonare la trincea onestamente difesa per tanti anni perché i suoi ultimi padroni erano talmente impossibili e impresentabili da non poterne sopportare il comando neanche turandosi il naso con ambedue le mani. Dev'essere un bel colpo per un «fascista deluso» ma d'intelligenza fina come lui ritrovarsi con un Berlusconi al posto dell'idolatrato Mussolini degli anni giovanili. Da qui, probabilmente, il ricorso alla “Voce”, alla sigla prezzoliniana ripresa di peso: come un ritorno al punto di partenza, un desiderio, forse, di tornare indietro al momento in cui tutta questa storia lunga e faticosa è cominciata. Ma Montanelli non ha fatto i conti abbastanza con il fatto che «La Voce» prezzoliniana, comunque la si voglia giudicare a posteriori, nasceva certamente da una grande speranza. Mi sembra troppo pretendere che essa rinasca dalla disillusione di una disillusione: e la nascita di una nuova classe dirigente, di cui del resto si vedono per ora pochi segnali, è cosa troppo seria perché possa tornare a passare di lì, per gli organi di formazione di una classe intellettuale borghese, che ha tante colpe nel disastro italiano presente quante ne ha il ceto politico social-democristiano.


“l'Unità”, 29 gennaio 1994

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