26.2.15

Le più povere donne di Berlino... Una poesia di Gottfried Benn (Berlino 1886 - 1956)

Le più povere donne di Berlino
- tredici figli in una stanza e mezzo,
- reiette, carcerate, prostitute -
il loro corpo divincolano e gemono.
Luogo non c’è dove si gridi tanto.
Luogo non c’è dove dolore e pena
vengan sì poco come qui curati,
appunto perché qui sempre si grida.

“Ma pigi, la mia donna! Lei capisce.
Lei non è qui per Suo divertimento.
Non è il caso d’andare per le lunghe.
Nel pigiare vien fuori anche la merda!
Lei non si trova qui per riposare.
Non vien da sé. Deve pur far qualcosa!”
Infin viene: piccino e azzurrognolo.
E lo ungono orina ed escrementi.

Dagli altri letti con lacrime e sangue
s’inalza un gemito come saluto.
Da due occhi soltanto irrompe un coro
pieno di giubilo su verso il cielo.

Per questo piccolo pezzo di carne
passerà tutto: affanno e gioia.
Se poi morrà nel rantolo e nel dolore
ce n’è altri dodici in questa sala.


da Morgue, traduzione di Sergio Solmi

25.2.15

I casi della vita (S.L.L.)

Poc'anzi alla coop di piazza Matteotti, in fila davanti a me c'era una sarda, magrissima. Si chiama Alice.

Itaca. Il viaggio (Eva Cantarella)

Tra le letture recenti dell'Odissea e della figura di Odisseo una delle più convincenti mi pare quella che emerge da un libro di Eva Cantarella, Itaca, studiosa e prestigiosa docente di Diritto greco e romano, che si distingue per l'approccio interdisciplinare e per il rigore dell'analisi filologica, letteraria e storica dei testi utilizzati non disgiunto dal “genio dell'interpretazione”, dalla capacità cioè di leggere tra le righe ciò che altri non sono riusciti a vedere.
La “premessa” di Itaca, intitolata Il viaggio, espone con chiarezza ed efficacia la chiave interpretativa e può rappresentare utile sollecitazione verso il libro, che, a mio parere, dovrebbe essere letto da molti. (S.L.L.)
L'immagine è la "Venere di Urbino" di Tiziano, nella Galleria degli Uffizi

Nella poesia di Kavafis posta in epigrafe a questo libro, Itaca è una metafora. È la meta di un viaggio inteso come esperienza, il percorso lungo il quale il viaggiatore prende coscienza della con-dizione umana, e pur avendone esperimentato i costi decide di accettarne i limiti, affermando l'autonomia della sua coscienza e la sua libertà di determinarsi.
Ma in questo libro, tengo subito a precisarlo, Itaca non è una metafora. È un luogo reale, una piccola comunità greca che sta dandosi le strutture fondamentali di quella che verrà chiamata un'organizzazione politica. O meglio: è il prototipo di una delle tante comunità di questo tipo realmente esistite in terra greca in un momento che non può essere successivo all'VIII secolo a.C. (dirò poi le ragioni di questa collocazione nel tempo). Una città con i suoi abitanti, le sue case, il suo porto, le sue navi, con il suo re - traduco così, per ora, il termine basileus -, con la sua piazza (agore), dove si riunisce l'assemblea del popolo. Il prototipo, insomma, di una comunità che si appresta a diventare una polis, l'organizzazione politica di cui Atene resterà il modello insuperato, o quantomeno più conosciuto, e di cui Itaca presenta già chiaramente in embrione gli elementi caratterizzanti.
In questo libro, insomma, l'Odissea non è vista come Bildungsroman. Come è giusto, quell'Odissea resta territorio di letterati e filosofi. E non è neppure vista, secondo un'altra interpretazione cara ai letterati, come ripetizione di episodi che raccontano sempre, senza fine, la stessa esperienza del protagonista.
Vero è, certamente, che le avventure di Ulisse non finiscono con il suo ritorno a Itaca. A dircelo è Ulisse stesso, nell'Odissea. Tornato finalmente alla sua isola, dopo aver ucciso i pretendenti della moglie e punito i servitori che lo avevano tradito (il capraio Melanzio, le dodici ancelle infedeli), Ulisse si appresta a godere con la moglie del "sonno soave", da lui più che meritato e dalla povera Penelope tanto lungamente atteso. Ma prima di concederselo, si sente in dovere di avvertire la moglie che a Itaca egli resterà solo per qualche tempo: nell'Ade, l'indovino Tiresia gli ha predetto che le sue prove non termineranno con il ritorno in patria (Od., 11, 119-137).
Penelope, a riprova delle sue virtù, si guarda bene dal recriminare: io sarò sempre qui ad attenderti, promette al marito, nel letto che sarà sempre pronto per te, ogni volta che "lo vorrai nel cuore". Ma una domanda, una sola, Penelope vuole farla: quale sarà la meta del prossimo viaggio? E Odisseo racconta la profezia: egli dovrà navigare sino a giungere presso genti che non conoscono il mare,/ non mangiano cibi conditi con sale,/ non sanno le navi dalle guance di minio,/ né i maneggevoli remi, che son ali alle navi. (Od., 23, 269-272)
Un'altra Odissea lo attende, insomma: sui dettagli della quale, peraltro, vi sono non poche incertezze. Nella profezia di Tiresia, egli viaggerà, portando un remo sulla spalla, fino a quando un altro viandante gli dirà che regge sulla spalla un ventilabro: in altre parole, sino a che non giungerà presso gente che non conosce la navigazione. Solo allora, dopo aver piantato in terra il remo e aver sacrificato a Poseidone, Ulisse potrà finalmente tornare a casa, e restarvi sino a quando "morte dal mare" gli verrà, molto dolce, cogliendolo "vinto da serena vecchiezza" e circondato da "popoli beati" (Od., 23, 267-284, che riprende 11, 121-137).
Ma le fonti diverse da Omero, pur confermando la notizia, di questi viaggi danno versioni differenti. Oltre a informarci sull'itinerario, questi racconti parlano di incontri femminili, che attestano quel che - del resto - risulta già chiaro dall'Odissea: a differenza di quella proverbiale della moglie (sulla quale peraltro torneremo), la fedeltà di Ulisse è quantomeno discutibile.
Secondo l'Epitome di Apollodoro, infatti, attraversato l'Epiro, Ulisse sarebbe giunto presso i Tesproti, sui quali avrebbe regnato dopo averne sposato la regina, Callidice, che gli avrebbe dato un figlio di nome Polipete. E secondo Pausania solo alla morte di Callidice egli sarebbe tornato a Itaca, ove nel frattempo Penelope gli aveva dato un secondo figlio, di nome Poliporte. Ma i suoi ultimi giorni a Itaca non sarebbero stato felici come gli aveva predetto Tiresia. Ulisse infatti sarebbe stato ucciso nel corso di una rissa da Telegono, il figlio avuto da Circe, che - sbarcato sull'isola alla ricerca del padre - sarebbe stato da questi scambiato per un ladro. Infine, dopo l'uccisione del padre, Telegono avrebbe sposato Penelope.
Le notizie insomma sono molte e contraddittorie; la morte per mano di Telegono, infatti, non si concilia con il verso omerico sopra citato, che parla di "morte dal mare". Ma l'espressione greca ivi tradotta è ex alos, che può anche significare "lontano dal mare": donde un tentativo - in verità non poco forzato - di conciliare le opposte versioni: Ulisse muore per il veleno di una razza, usata come punta della sua lancia da Telegono, il figlio "nato lontano".
Su tutto questo torneremo: come che sia, il viaggio verso Itaca non è l'ultimo viaggio di Ulisse. E, di nuovo, le interpretazioni delle ragioni che lo inducono a riprendere le vie del mare sono molte.
Secondo quella forse più scontata, il viaggio, inteso come meta da raggiungere e prove da superare, è il senso stesso della vita di Ulisse. Così lo intende, accanto a molti filologi di professione, anche Giovanni Pascoli: dieci anni sono passati dal momento del ritorno in patria (dieci è ovviamente numero topico nella storia di Ulisse: dieci anni sotto le mura di Troia, dieci in mare, sulla via del ritorno, dieci a Itaca, prima di reimbarcarsi).
Ulisse, vecchio e canuto, non trova più ragioni per vivere. Gli anni trascorsi a Itaca, senza motivazioni e senza obiettivi, hanno trasformato la sua vita in un'anticamera della morte. Sinché, un giorno, quasi ridestandosi da un lungo sonno - mentre Penelope dorme, senza svegliarla - Ulisse si reca sulla riva del mare, dove da dieci anni, appunto, lo attendono i compagni, e riprende il suo viaggio a ritroso, quasi alla ricerca di un passato nel quale ha vissuto momenti che forse rimpiange, in cui ha compiuto scelte di cui forse non comprende più il senso, di cui non sa più valutare a fondo le ragioni.
Eccolo dunque dirigere la prua verso l'isola di Circe, verso la terra dei Lotofagi, verso la dimora delle Sirene: quelle Sirene di cui, un tempo, non aveva voluto ascoltare il canto, ma che ora interroga, per sapere che senso ha la sua vita mortale. Ma le Sirene, quasi a punirlo per non averle ascoltate quando volevano rivelargli le verità che esse sole conoscevano, restano chiuse in un ostinato mutismo: come, in una bella pagina di Kafka, avrebbero peraltro già fatto nel corso del primo incontro. E Ulisse continua il suo viaggio, giungendo finalmente da Calipso, la ninfa che gli aveva offerto l'immortalità, e muore tra le braccia di lei, avvolto nei suoi capelli. Forse, chissà, rimpiangendo di aver scelto la sorte dei mortali.
Ma tante altre, e diverse, possono essere le interpretazioni dei viaggi di Ulisse, di quei viaggi che quando sembrano giunti al termine ricominciano, senza fine: in genere perché un dio è stato offeso, ma a volte anche senza una ragione (come, appunto, nel caso dell'ultimo viaggio).
Sotto questo profilo, è difficile allontanare l'immagine di un'Odissea serial, racconto a puntate antesignano dei Dallas televisivi, a loro volta caratterizzati, oltre che dalla ripetitività della trama, dalla tipizzazione dei personaggi, televisivamente ottenuta dall'abbigliamento, dal sorriso, dalla pettinatura o altri elementi che immediatamente segnalano il tipo sociale e psicologico, il loro carattere, il loro ruolo.
Pensiamo alla forma più elementare della tipizzazione omerica, i famosi "epiteti", che costantemente accompagnano il riferimento ai diversi personaggi, fino a diventare quasi parte del loro nome: Achille "piè veloce", Odisseo "dalle molte astuzie", Penelope "saggia". Era "dalle bianche braccia", e via dicendo: la tipizzazione dei personaggi televisivi attraverso gli elementi visivi, come è stato osservato, appare in qualche modo l'equivalente degli epiteti omerici.
Senonché, mentre l'interpretazione letterario-filosofica di questo "serial" (se così lo si vuole leggere) pone l'accento sulla ripetitività senza fine delle esperienze del protagonista, la nostra indagine privilegia un'ottica diversa. Della nostra storia, Ulisse è il deuteragonista: la protagonista è Itaca, la meta del viaggio.
Itaca con i suoi abitanti, le sue istituzioni, la sua storia. E la storia di Itaca non è ripetizione di eventi: è la vita in divenire di una comunità dove uomini e donne si confrontano e si affrontano, dando vita a un tessuto di relazioni sociali governate, fondamentalmente, dai meccanismi tipici di una "cultura di vergogna": di una cultura, come vedremo meglio più avanti, in cui il rispetto delle regole è assicurato dal timore di perdere l'immagine (o, come si dice oggi, la faccia).
Ma nel momento in cui il re finalmente ritorna, dopo un periodo di rottura delle convenzioni dovuto alla sua assenza e alla tracotanza dei pretendenti di sua moglie, qualcosa di molto importante accade, nell'isola. Il ritorno di Ulisse non segna solo il ristabilimento dell'ordine precostituito. Esso preannunzia la nascita di un ordine nuovo. Una volta eliminate le turbative, Itaca si riorganizza in un sistema nel quale è possibile cogliere le tracce delle prime regole giuridiche del mondo occidentale.
Itaca e la nascita del diritto, insomma: questa è la storia che vogliamo raccontare. Una storia che, intrecciandosi ovviamente con quella di Ulisse e del suo ritorno in patria, sarà composta di tre parti.
La prima parte sarà dedicata a Itaca in assenza di Ulisse: una comunità in cui vige la legge del più forte, nella fattispecie la hybris, la tracotanza senza misura dei pretendenti di Penelope; una città in cui il tempo sembra sospeso in attesa del ripristino di un ordine senza il quale non è neppur pensabile una vita civile.
La seconda parte sarà dedicata alle avventure di Ulisse lungo la via del ritorno, o quantomeno ad alcune di esse; al significato che queste hanno ai fini della comprensione dei valori eroici e del discrimine tra la civiltà, che Ulisse rappresenta, e la barbarie, nella quale si imbatte e sulla quale ha il sopravvento. Ma non è solo la barbarie il pericolo che Ulisse deve scongiurare. Non meno pericolosa, anche per i valori civici, è la seduzione, rappresentata nell'Odissea - certamente non a caso - da figure femminili più o meno mitiche.
Le avventure di Ulisse con questi personaggi femminili insegnano tra l'altro che esiste una divisione netta e invalicabile tra due categorie di donne, che hanno ruoli e, più avanti nel tempo, uno status giuridico diverso. Una distinzione presente, nella mentalità greca, ben prima del momento in cui la polis la codificherà nelle sue leggi: da un lato le donne oneste (le mogli e le donne destinate a diventare mogli: le figlie e le sorelle del capo della casa); dall'altro le seduttrici, donne libere, autonome al punto da vivere sole, belle e invitanti, ma mortalmente pericolose.
Infine, esaminate sia singolarmente, sia nel loro complesso, le avventure di Ulisse sulla via del ritorno si rivelano, in più di un'occasione, come le gesta di un soggetto - contrariamente a quanto spesso si afferma - già "intero" e compatto, capace di autodeterminarsi e di agire non solo indipendentemente, ma a volte addirittura contro la volontà degli dèi.
La terza parte, quella conclusiva, sarà dedicata a Itaca dopo il ritorno di Ulisse. Essa sarà la storia della sua riconquista del potere familiare e politico. Due poteri diversi, che Ulisse riafferma all'interno di due logiche diverse.
Il potere domestico - potere di un capo assoluto, su dipendenti che potremmo definire sudditi - viene riaffermato infliggendo castighi, a volte feroci, ma che tengono conto tuttavia di concetti etici come volontarietà o involontarietà dell'azione, presenza o assenza della colpevolezza e responsabilità dell'agente.
La riconquista del potere politico, invece, si svolge nella logica inesorabile della vendetta, retribuzione pura che non può tener conto di stati soggettivi, di gradazioni della volontarietà e di misurazioni della colpa. Ma anche all'interno di questa logica - non nel caso dei proci, ma nel corso di altre vendette - è possibile cogliere l'emergere di nuove regole, che segnalano la trasformazione della forza fisica da strumento di riaffermazione dell'onore individuale e familiare in strumento per il mantenimento di un ordine comunitario, garantito da alcune norme di comportamento che la comunità considera imprescindibili. E sempre all'interno di questa logica, è anche possibile individuare i metodi predisposti dalla nascente polis per imporre l'osservanza di queste norme. In altre parole, come abbiamo già detto, è possibile cogliere un momento fondamentale nella storia dell'Occidente: quello nel quale, in Grecia, nacquero le prime regole che oggi definiamo giuridiche.


Da Itaca. Eroi donne e potere tra vendetta e diritto, Feltrinelli, 2013 (prima ed. 2002) 

E se non puoi la vita che desideri. Una poesia di Constantinos Kavafis

Kavafis in una immagine giovanile
E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.

Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea.

Settantacinque poesie, Einaudi, Torino 1992 - Traduzione Nelo Risi e Margherita Dalmàti

La morte di André Malraux (Franco Fortini)

André Malraux
Non so se sia ancora leggibile o se tornerà a esserlo. Era una Francia da nobiltà dello spirito, intollerante e spesso intollerabile; nipote e fratello di innumerevoli, persino della «bocca d'ombra» di Hugo, e giù, da Barrès a Gide e magari a Peguy, a Camus; al di sopra delle distinzioni politiche, l'orgoglio della distinzione; l'esotismo eroto-rivoluzionario e il senso delle seicentesche foreste domestiche, del domaine avito nelle provincie regie; lo sguardo da esteta oltre Reno, Alpi e Pirenei; la fraternità virile, la sigaretta forte.
Per quelli della mia età è stato anche, o soprattutto, altro. L'intervento al primo congresso dell'Unione degli scrittori sovietici, agosto 1934; la rivelazione, allora sconvolgente, di che cosa era stata la guerra di Spagna, e la discussione esistenziale sulla violenza nelle pagine di “Espoir”, lette solo durante la guerra; e la Cina; la Shangai di La condition humaine che avrei «riconosciuta» quasi trent'anni dopo quel 1927 che aveva rappresentato. Quello che è stato per me, oserei dire per noi, Malraux; né conta troppo sapere che cosa, in quelle pagine, fosse passione nostra e che cosa retorica sua. (Altrettanto potrei dire nel dopoguerra, per i tre volumi della Psychologie de l'art). Anche chi ha letto certe crudeli biografie del personaggio può guardare, credo, al di là del personaggio: e persino al di là dei suoi libri. Nella favola superomistica delle «querce abbattute» (sua è la formula, e per De Gaulle) c'è qualcosa che non abbiamo il diritto di spregiare troppo facilmente. Soprattutto quando è anche grazie a Malraux che dall'Europa di Hitler e di Mussolini alcuni poterono levarsi a ricordare il volto vero dei propri doveri, come, nei fìlms che egli diresse durante la guerra spagnola, quel contadino che, portato tra le nuvole dall'aereo della ricognizione repubblicana, riconosce, a un tratto, i campi suoi, per i quali dovrà combattere.


“il manifesto”, 24 novembre 1976

24.2.15

Da Venezia a Canicattì. Il baffone e la carampana (S.L.L.)

Canicattì - Un'immagine del quartiere Borgalino nella prima metà del Novecento
Carampana, sostantivo femminile, è per i dizionari “donna volgare, sguaiata, oppure brutta e vecchia”, qualcuno aggiunge “allampanata”. Tutti fanno riferimento a un originario significato di “meretrice”, legato all'allocazione della prostituzione veneziana nell'area che era stata del palazzo e dei caseggiati della famiglia Rampani fino agli inizi del Trecento. Per questo certe calli della parrocchia di San Cassiano sono chiamate appunto Ca' Rampani.
Nel Veneto è attestato il proverbio Vecia carampana, vecia maràntega, che sconsiglia la frequentazione delle puttane vecchie, inevitabilmente orribili (marantega è sinonimo di “befana”). Eugenio Musatti (1844 -1928), un figlio della borghesia ebraica che fu, oltre che imprenditore ed economista, storico della sua Venezia ricorda: «Fin dal 3 giugno 1358, essendosi ordinato dal Maggior Consiglio ai capi di Sestiere cercassero un luogo opportuno nella nostra città per confinarvi le sacerdotesse di Venere, venne all'uopo designato un gruppo di case (nella parrocchia di San Matteo di Rialto) detto il Castelletto. Una matrona fu posta al governo d'ognuna di queste case, che teneva cassa del denaro e divideva ogni mese a tanto a testa il guadagno. Ma le abitatrici del Castelletto si sparsero col tempo in altri siti e di preferenza in Carampane». Da altre testimonianze si apprende che quelli della zona erano nel Settecento i bordelli più economici e, forse per questo, quelli ove era più facile incontrare prostitute attempate, un po' imbruttite dagli anni e dal mestiere.
Una “carampana”, in questa accezione più antica, era la “Gatina” di Borgalino (Agata all'anagrafe) che teneva casa e bottega quasi di fronte al nostro Liceo, il liceo-ginnasio Foscolo di Canicattì, accanto alla botteguccia di generi alimentari cui alcuni di noi ricorrevano per il panino della ricreazione (io lo volevo immancabilmente “ccu lu pisci all'ogliu”). 
Doveva avere una cinquantina d'anni ed era, secondo me, più consumata dal mestiere che dagli anni. E tuttavia, sarà per i prezzi bassi, sarà per una qualche speciale abilità, sarà perché il cliente s'affezionava, raccontava i suoi guai, si sfogava come la moglie con il confessore, non mancava un certo andirivieni perfino nelle ore del mattino, specie nelle giornate fredde o piovose. I clienti erano generalmente gente di campagna, anziani contadini, numerosi in quel quartiere Borgalino che ospitava il nostro liceo.
Una volta un vecchietto morì mentre era da lei. Noi ci scherzavamo su, ma per la povera donna doveva essere stata una tragedia. I ragazzi però, a volte, sono crudeli e anche a me capitò di esserlo, proprio in quella occasione. Agli amici con cui acquistai il panino suggerii di venir meco ché si sarebbero fatte “quattro risate”. Bussai con il campanello nella abitazione di Gatina e lei azionò l'apriporta dal primo piano dove abitava. Apparve in cima alle scale e chiese: “Chi è?”. Io da giù a mia volta chiesi: “Abita qui il signor Scolo?”. Mi gridò in dialetto: “Curnutu baffuni, ora ti fazzu vidiri”; e mi tirò uno zoccolo, che m'avrebbe fatto male se non l'avessi scansato fuggendo via, in classe.
Oggi me ne vergogno, ma allora un po' mi gloriai: non tanto della bravata, quanto del baffuni. Dopo averla rasata tutti i giorni, per qualche settimana avevo fatto crescere sul muso - come segno di sopravveniente maturità - la peluria, che però era rimasta molle, rada e sparuta (spana, si diceva in dialetto). Amici e conoscenti o ignoravano quei baffi (e con essi i miei sacrifici) o li definivano una porcheria; la carambana invece se n'era accorta e la cosa mi riempiva di gioia.

I Beatles e Walt Disney. La storia segreta (Francesco Adinolfi)

Gli avvoltoi nel "Libro della Giungla" (Walt Disney)
Il 18 ottobre 1967 esce nelle sale cinematografiche Usa Il libro della giungla, tra i più noti film d'animazione della Disney. Sono gli anni del beat e della swinging' London e in molti si domandano perché i quattro avvoltoi – Flaps, Buzzy, Ziggy e Ziggy - presenti nella pellicola assomiglino così tanto ai Beatles senza essere i Beatles. Hanno gli stessi capelli a caschetto, parlano - nella versione angloamericana - con l'accento di Liverpool ma stranamente la loro interpretazione vocale (That's What Friends are For, in italiano Siamo amici tuoi) rimanda ai mondi del doo wop, cioè a una dimensione musicale ben poco affine ai suoni del quartetto. E ancora: se erano effettivamente ricalcati sui Beatles perché Lennon e gli altri non furono mai coinvolti nel film? La storia di quell'equivoco/rapporto irrisolto Beatles/Disney è ancora oggi estremamente affascinante. Non solo: Disney sarà paradossalmente e inconsapevolmente al cuore della carriera del gruppo. Ma andiamo per gradi.
A partire dagli anni Novanta è diventata prassi comune per un artista (da Elton John a Phil Collins al nostrano Fiorello) prestare la voce a un personaggio animato; al contrario, negli anni Sessanta era come flirtare con il diavolo, puro anatema: non sorprende quindi che i Beatles dissero no al creatore di Topolino. Nel 1965, alla fine di agosto, Brian Epstein, il manager del Beatles, si era incontrato segretamente con Walt Disney. Un incontro avvolto nel mistero di cui non esistono testimonianze certe. Così segreto che secondo alcuni nemmeno ebbe luogo, ma tant'è. Al 2850 di Benedict Canyon, Beverly Hills i Beatles avevano affittato a Hollywood la casa dell'attrice Zsa Zsa Gabor; vi abiteranno dal 23 al 31 agosto durante una pausa del loro secondo tour Usa ricevendo una sequela di ospiti (Roger Mc-Guinn e David Crosby dei Byrds, Peter Fonda ecc.) e preparandosi con ansia e entusiasmo allo storico meeting del 27 agosto con Elvis che li incontrerà nella sua abitazione di Perugia Way, Bel Air (proprio in quei giorni il rocker stava finendo di girare il film Paradiso hawaiano).
I Beatles in concerto
Di sicuro Epstein intravvedeva nella collaborazione con Disney un fondamentale punto di svolta economico, sia per sé che per i Beatles. Allo stesso tempo voleva consegnare la band alla storia immortalandola in un film che sarebbe durato per sempre. Tornato a casa, il manager aveva informato Lennon dell'incontro con il creatore di Topolino; volarono subito parolone e l’atmosfera si infuocò. Con loro c’era anche il maggiore Bill West, un venditore di ceramiche-gadget che Epstein aveva conosciuto nel 1963 e con cui stava trattando per un’importante operazione di merchandising. Questi raccontò che l'incontro con Lennon fu elettrico, bollente; evidentemente Epstein aveva scelto il momento sbagliato per coinvolgere il musicista. Si tenga conto che il quartetto era reduce da una recente una session fotografica negli studi londinesi della Tvc Films (nel 68 la casa cinematografica produrrà insieme alla statunitense King Features anche la pellicola Yellow Submarine), organizzata per il lancio di The Beatles, la serie animata che il successivo 25 settembre 1965 avrebbe debuttato negli Usa sulla Abc. La seduta fotografica era stata noiosa e interminabile, i Beatles avevano bevuto e Lennon era molto infastidito. In maniera categorica ribadì: «Non c'è nessuna possibilità che i Beatles cantino per quel cazzo di Topolino». Epstein cercò in tutti i modi di spiegare a Lennon le ragioni dell'incontro con Walt Disney, ma non ci fu verso; West dichiarerà che Lennon aveva aggiunto: «Non sono un cartone animato che puoi vendere e comprare; anzi se lo dico agli altri sei finito; di' a Walt Disney di andare affanculo, di fare un contratto a quel grassone di Elvis, lui sì che fa film del cazzo». Poi Lennon abbandonò la stanza e Epstein si scusò con West per il comportamento del musicista. Già un anno prima le trattative di Epstein con i produttori Usa (King Features) di The Beatles, avevano indispettito il gruppo a cui non era piaciuto che ogni episodio fosse costruito intorno a una loro canzone (in seguito la Apple Corps diventerà però proprietaria di quei cartoni!). Lo stesso Epstein forzerà i Beatles a scrivere quattro pezzi originali da utilizzare in Yellow Submarine, un film (d’animazione) mal visto dal quartetto a cui collaboreranno controvoglia; alla fine i Beatles cederanno prendendovi anche parte. Non a caso al debutto londinese (London Pavillion, Piccadilly Circus, 17 luglio 1968), ci saranno tutti e quattro. Non si sa se Epstein abbia mai raccontato a Paul, Ringo e George i dettagli dell'incontro con Disney, sta di fatto che per le canzoni de Il libro della giungla la casa cinematografica si affiderà ai titolatissimi fratelli Sherman. Eppure i Beatles nel cartone ci saranno comunque, caricaturizzati – a loro insaputa - in guisa di avvoltoi; non solo: come già detto parlano come si parla nelle strade di Liverpool e sembrano proprio loro. Ripensando oggi a quel film, forse la decisione di Lennon fu (politicamente) azzeccata: dopotutto sesso, Disney e rock'n'roll non sono mai andati troppo d'accordo; inoltre quattro mesi prima sarebbe uscito Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band e la fonosfera dei Beatles sarebbe cambiata per sempre.
Eppure la Disney è paradossalmente al cuore dei Beatles seguendoli fino all'ultimo istante di vita. E qui si apre un'altra storia. Quella dello scioglimento ufficiale del gruppo, il 29 dicembre 1974, proprio un decennio dopo l'incontro di Epstein con lo stesso Disney. Dieci giorni prima, il 19 dicembre 1974, i Beatles e una schiera di avvocati si erano dati appuntamento al Plaza Hotel di New York, ironicamente il primo albergo in cui il gruppo aveva soggiornato al suo esordio Usa nel '64. Bisognava firmare le carte che avrebbero decretato la fine del gruppo. Quel giorno erano presenti Paul, i suoi avvocati e la moglie Linda (armata di macchine fotografiche per immortalare l'incontro); c'era George con il suo avvocato e il suo direttore commerciale; mancava Ringo, rimasto in Gran Bretagna, ma erano presenti i suoi rappresentanti legali; c'erano anche gli avvocati inglesi e statunitensi della Apple. Tutto era pronto: mancava solo Lennon che peraltro abitava a pochi isolati dal Plaza.
L'avvocato di Harrison chiamò il musicista al telefono che al tempo viveva con May Pang, la sua segretaria (nel '73 si era separato da Yoko Ono e nel '75 avvierà le pratiche di divorzio). Lennon non volle rispondere e fu la ragazza a riferire:«John ritiene che gli astri non siano propizi per cui non si presenterà». Una scusa del genere in un'occasione così delicata sconvolse i piani del giorno e mandò su tutte le furie Harrison, già teso per un tour solista aspramente criticato dalla stampa che culminava proprio in quelle ore al Madison Square Garden (un concerto il 19 e due il 20). George se la prese con il suo avvocato - colpevole secondo il musicista di non essersi ben accordato con gli avvocati di Lennon - a sua volta attaccato da tutti i legali presenti. Poi prese il telefono e vomitò una sequela di improperi nella cornetta. Dall'altra parte c'era May Pang: «Togliti quei cazzo di occhialetti e vieni qui!». La ragazza chiese se voleva parlare con John (che peraltro ascoltava appoggiato alla spalla di Pang) e lui: «No! Digli solo che qualsiasi sia il suo problema, io ho iniziato questo tour da solo e lo finirò da solo». Harrison adorava Lennon e quella reazione dava il senso della criticità della situazione.
Il giorno dopo Paul e Linda andranno comunque a trovare Lennon rassicurandolo che tutto sarebbe finito bene; lo stesso Harrison lo inviterà al party di fine tour che avrebbe tenuto la sera stessa all'Hippopotamus club. In quell'occasione John, Paul e George si abbracceranno amichevolmente. Il 21 John, Julian (al tempo 11enne) e May Pang lasceranno New York diretti a West Palm Beach in Florida dove trascorreranno il natale. Da lì si sposteranno a Disney World, a Orlando, alloggiando al
Polynesian Village Hotel (oggi Polynesian Resort), uno dei primi alberghi inaugurati all'interno del parco divertimenti. Qui si celebrerà la vera liturgia della fine. Il 29 dicembre 1974, i documenti relativi allo scioglimento dei Beatles verranno, infatti, consegnati a Lennon da un avvocato della Apple. Il musicista telefonerà ai legali di Harrison per limare alcuni punti e poi chiederà a May Pang di preparare la macchina fotografica per immortalare il momento della sua firma. Pang ricorda che John guardò fuori dalla finestra della stanza, ed era come se in quel momento l'intera storia dei Beatles gli fosse passata davanti. Poi prese la penna e firmò John Lennon a piè di pagina.
In quella improbabile cornice disneyana, esotica e ultralounge, stavano finendo i Beatles in carne e ossa, e al contempo stavano rinascendo come icona pop senza tempo: unica, immortale. Un sogno artistico e culturale, di quelli che spesso si incontrano solo nei fumetti e nei cartoni animati.


ALIAS N. 40 - 22 OTTOBRE 2011

Le “telenovelas” specchio della società brasiliana (Lamia Oualalou)

Promosse sotto la dittatura (1964-1985) nell’ottica di saldare questo paese-continente, le «telenovelas» brasiliane sono cambiate. Seguite dall’insieme della popolazione, fanno da specchio a una società in pieno sommovimento. L'articolo qui postato fornisce un orientamento documentato sul “genere”, sulle sue modificazioni, sul significato sociopolitico di questi sviluppi. Ho tolto le note, per praticità. (S.L.L.)
COME "RETE GLOBO" HA COSTRUITO
UNA COMUNITA' IMMAGINARIA NAZIONALE
«Non ci sarà nessuno!» Il comitato elettorale di Fernando Haddad, allora candidato sindaco di San Paolo, era stato categorico: la presidente Dilma Rousseff non poteva pensare seriamente di tenere il suo comizio di sostegno al candidato del Partito dei lavoratori quel venerdì 19 ottobre 2012, proprio nell’orario in cui andava in onda l’ultimo episodio di Avenida Brasil, la telenovela di grido della rete Globo. Quella sera, decine di milioni di brasiliani avrebbero assistito allo scontro finale fra le due eroine, Nina e Carminha, per sapere chi aveva ammazzato Max. Convinta, la presidente aveva spostato l’appuntamento pubblico all’indomani.
Avenida Brasil ha segnato il ritorno dei grandi rituali che riuniscono la maggioranza delle famiglie davanti al televisore. Una pazzia se si pensa che la telenovela brasiliana, la novela, come si preferisce chiamarla qui, ha festeggiato i suoi 60 anni nel 2012.
Quando nasce la televisione in Brasile, le soap opera americane hanno già conquistato Cuba, via Miami. Ed è naturalmente agli autori dell’isola spaventati dalla rivoluzione che si rivolgono le reti, a cominciare dalla pioniera Tv Tupi. Il diritto di nascere, diffusa nel 1964, è così un adattamento dell’omonima produzione radiofonica che inondò l’isola caraibica nel 1946. Come a Cuba, la storia ha una fine, mentre negli Stati uniti può durare decenni. Per la prima volta, la vita a San Paolo e a Rio si ferma per una mezz’ora, diverse volte a settimana... ma non nello stesso momento. La novela non è ancora quotidiana, e la trasmissione in rete non esiste: non appena l’episodio è stato diffuso a San Paolo, la pellicola viene portata in aereo o in macchina a Rio (la capitale fino al 1960).
All’epoca, la trama era sovente esotica, come testimoniano titoli quali Il re dei Gitani, Lo sceicco di Agadir o Il ponte dei sospiri. Nel 1968, Beto Rockfeller segna una rottura. Per la prima volta, l’eroe vive a San Paolo. Lavora da un calzolaio, in una grande strada popolare della megalopoli, ma si spaccia per milionario a un altro indirizzo. Con un vocabolario corrente, riferimenti alle gioie e alle difficoltà di un Brasile urbano, tanto più efficaci perché alcune scene vengono girate in esterno, la novela cambia volto. «Da allora in poi, incorpora le questioni sociali e politiche che attraversano il Brasile, mentre in Messico o in Argentina si continua con i drammi di famiglia», spiega Maria Immacolata Vassallo de Lopes, che coordina il Centro studi della telenovela all’Università di San Paolo (Usp).

Molti autori provengono dal teatro
Poi appare Tv Globo, che s’impadronisce del format. A tal punto che, secondo Bosco Brasil, un ex autore della casa, «quando si dice “novela brasiliana”, si pensa “novela di Globo”». Nata nel 1965, un anno dopo il colpo di stato militare, la rete è inizialmente frutto del genio politico di Roberto Marinho, che eredita un giornale importante, Globo, ma privo di influenza a livello nazionale. Egli capisce quanto sia strategicamente importante per la giunta realizzare l’integrazione del territorio. Mentre per Juscelino Kubitschek (1956-1961), quest’ultima passava per la costruzione di una rete stradale, i militari – al potere tra il 1964 e l’85 – scommetteranno sui media. E, in questo campo, Globo sarà un pezzo centrale: «Da un punto di vista economico, ha giocato un ruolo essenziale nell’integrazione di un paese dalle dimensioni continentali, attraverso la formazione di un mercato di consumatori. Da un punto di vista politico, la sua programmazione ha portato un messaggio nazionale di ottimismo legato allo sviluppo, cruciale per sostenere e legittimare l’egemonia del regime autoritario», sostiene Venicio de Lima, ricercatore in comunicazione all’Università nazionale di Brasilia.
Col tempo, la rete ha creato «un repertorio comune, una comunità nazionale immaginaria», spiega Vassallo de Lopes. Nel 2011, 59,4 milioni di famiglie, ossia il 96,9% del totale, hanno la televisione, e ogni brasiliano consuma in media 700 ore di programmi di Globo ogni anno. Mentre il gaucho (abitante dell’estremo sud del paese), più vicino agli argentini nel modo di vita, non ha molto a che vedere con un pescatore dell’Amazzonia o un’agricoltrice del nordest, tutti condividono ormai il sogno di conoscere Rio, principale contesto delle storie di Globo, oppure di portare la camicia bianca e la cintura dorata di Carminha. L’identificazione è tanto più facile in quanto la frontiera tra fiction e realtà è labile. Quando i brasiliani festeggiano il Natale, i loro eroi sul piccolo schermo fanno lo stesso. Il crollo, reale, di un edificio a Rio de Janeiro nel gennaio del 2012 è commentato dai personaggi di Figura fine il giorno dopo. E quando, nel corso di un episodio, si seppellisce un finto deputato, degli uomini politici reali accettano di farsi filmare intorno alla bara.
Giovani e vecchi, ricchi e poveri, analfabeti e intellettuali: tutti devono potersi contemplare in questo specchio. Secondo la psicanalista Maria Rita Kehl, «queste immagini uniche che percorrono un paese così diviso com’è il Brasile contribuiscono a trasformarlo in una parodia di nazione la cui popolazione, unita non tanto come popolo, ma come pubblico, parla lo stesso linguaggio».
L’innegabile benevolenza dei militari non spiega da sola come Globo abbia potuto imporre questa sintassi. Nelle ore di maggiore audience, la rete riesce a fare la prodezza di diffondere le sue produzioni; in Francia, in quelle fasce orarie, sono spesso le serie americane a imporsi. «Tutto questo si deve a un vero talento artistico e tecnico, che si è concentrato sulla novela», insiste Mauro Alencar, professore di teledrammaturgia brasiliana e latinoamericana all’Usp. Quando decide di fare della novela il cuore della rete, Marinho assume a tutto spiano. Paradossalmente, la dittatura gli facilita il compito, perché la censura proibisce a buoni attori di teatro, spesso di sinistra, di portare in scena le loro pièces. È così che scrittori come Dias Gomes, Braulio Pedroso o Jorge Andrade si ritrovano a lavorare per il «dottor» Marinho e per la televisione, che prima disprezzavano.
Contro ogni aspettativa, questi grandi nomi si vedono offrire una vera libertà dai dirigenti della rete, che accettano di tener testa ai censori. Globo aveva già girato 36 capitoli di Roque Santeiro, di Dias Gomes, quando fu proibita la diffusione della novela. Roque Santeiro conoscerà un successo strepitoso quando verrà girata di nuovo, dieci anni più tardi, nell’85, dopo l’avvento della democrazia. Nel 1996, Il re del gregge di Benedito Ruy Barbosa, un’elegia della riforma agraria, dà una visibilità inedita al Movimento dei senza terra (Mst).
«Sono 35 anni che lavoro per Globo, sono autore di 17 novelas e non mi hanno mai detto cosa dovevo fare. Sono sempre stato totalmente libero», afferma Silvio de Abreu, uno dei principali autori della rete. Per Maria Carmen Jacob de Souza Romano, docente di comunicazione all’Università federale di Bahia, «i grandi autori hanno un potere di negoziato, certo. Danno prova di buon senso e non possono trasformare la novela in un volantino su temi sociali, ma hanno la possibilità di affrontare i temi a cui tengono, se hanno successo».
Dal centro di Rio, ci vuole un’ora buona di macchina, quando il traffico scorre, per arrivare alla Projac, una fabbrica di sogni messa su da Globo a Jacarepaguá, nella parte ovest della città. Oltre un milione e mezzo di metri quadrati, al 70% foresta, consentono alla rete di concentrare, dal 1995, le tappe di produzione di una telenovela. «Prima, le riprese venivano effettuate in diversi studi sparsi per tutta la città. Concentrarle consente un’enorme economia di tempo e di denaro», spiega Iracema Paternostro, responsabile delle relazioni pubbliche, mostrando una pianta delle istallazioni.
Per fare tutto il giro, serve l’automobile. Qui, un edificio raggruppa le squadre di ricerca incaricate degli archivi e degli studi di mercato. Un po’ più lontano, i costumi vengono disegnati, cuciti e accuratamente conservati, per essere utilizzati in seguito. Poi si entra in un gigantesco laboratorio di falegnameria in cui vengono elaborati mobili e allestimenti ideati a pochi metri da lì: un salone del XIX secolo, una rampa di metro – il tutto in pezzi componibili pronti per essere montati in qualche ora in uno dei quattro studi di mille metri quadrati in cui le novelas vengono girate tutti i giorni dell’anno. I pezzi verranno poi smontati e conservati per le riprese future, o distrutti per essere riciclati.
All’est del territorio si trova la città cinematografica, con qualche impianto permanente, come una curiosa chiesa che dispone di una triplice facciata, una barocca, l’altra italiana, la terza portoghese. «Abbiamo sempre bisogno di una chiesa», dice divertito Paternostro, riferendosi all’inevitabile matrimonio dell’episodio finale. Dietro, ci sono dei veri angoli di città, che vengono allestiti per nove mesi, la durata media di una novela. Poiché la metà dell’azione di Salve Jorge, diffusa all’inizio del 2013, si svolge in Turchia, la direzione artistica ha ricostruito una piccola Istanbul, fin nei minimi dettagli: un poster strappato, un libro caduto da una biblioteca, una teiera tradizionale. Per montare l’allestimento, sono state scattate sul posto migliaia di foto, ed è stato portato a Rio un carico di oggetti tipici. Delle squadre hanno anche filmato per ore la vita di tutti i giorni, i venditori ambulanti, il flusso delle auto. Al momento del montaggio, le immagini, sempre in grand’angolo, vengono inserite nelle scene girate nella città cinematografica. L’illusione funziona a meraviglia. E il procedimento non riguarda solo le destinazioni lontane: vicino alla piccola Istanbul, c’è un dedalo di strade che riproduce su 1.800 metri quadrati l’Alemão, una delle più grandi favelas di Rio de Janeiro. E di nuovo, sembra di starci. Globo ha persino assunto Adriana Souza, venditrice di empadas (calzoni ripieni di carne o di gamberetti) perché venda i suoi prodotti nell’allestimento di cartapesta come fa nella favela.
Il segreto del successo di Globo è la sua capacità di produrre su scala industriale tutte le tappe della creazione, per riuscire a diffondere ogni giorno almeno tre novelas, ognuna delle quali conta tra 140 e 145 episodi di una quarantina di minuti, e dura da sei a nove mesi. Ogni orario ha il suo stile, secondo un modello stabile dal 1968: la novela delle 18 affronta un tema leggero; quella delle 19 è spesso comica; le questioni sociali e i drammi sono riservati a quella delle 21, l’orario «nobile». Quanto alla narrazione, riprende spesso le ricette tipiche del melodramma, che ruotano intorno alla questione della famiglia, dell’identità e della vendetta.
Produrre una novela costa caro: intorno ai 200.000 dollari per episodio, secondo le stime di Vassallo de Lopes. «Una forte tendenza di questi ultimi anni è il remake dei grandi successi del passato», spiega Nilson Xavier, autore di Almanaque de telenovela brasileira (Panda Books, 2007). «Una scelta imbecille» agli occhi di Gilberto Braga, uno degli autori più corteggiati di Globo. Per lui, «non esistono ricette». Una volta che è stata approvata la sua proposta, l’autore si circonda di un gruppo di assistenti, che scriveranno una parte dei dialoghi e delle scene a ritmo forsennato. Prima del lancio, viene girata una trentina di episodi. Fin dai primi giorni della diffusione, viene accuratamente monitorata la reazione del pubblico, sia mediante inchieste o attraverso le reti sociali. «La novela è un’opera aperta - spiega Flavio Rocha - uno dei direttori di Globo. Una coppia può apparire poco convincente agli occhi del pubblico e scomparire, mentre un personaggio che era secondario può diventare centrale se incontra più successo. L’autore si adatta.»
Il discorso sull’«opera aperta» è un mito coltivato da Globo. Prima di lasciarsi andare alla propria immaginazione, gli autori sono infatti pregati di pensare ai costi di produzione: idealmente, le scene che si svolgeranno in un salone devono essere scritte prima, per essere immesse nel giro, prima che un’istallazione venga distrutta per essere sostituita da un’altra nello studio. In questo modo, gli attori inanellano nello stesso pomeriggio le riprese di scene degli episodi 8, 22, 24, e 42. Solo chi ha l’abitudine a questo tipo di riprese riesce a raccapezzarsi nell’intreccio.
Lavorare con una star è un rompicapo per l’autore: certi attori fanno mettere nel contratto che andranno alla Projac solo il martedì e il giovedì, oppure esigono una fortuna per cambiare la loro agenda. Vogliono anche concentrare le scene che li riguardano nella stessa giornata. «È per questo, per esempio, che i grandi personaggi non divorziano mai: questo potrebbe costringerli a uscire dalla loro casa, la loro scenografia principale, e a girare in moltissime altre», dice divertito un autore che preferisce mantenere l’anonimato. La scrittura deve essere semplice, sufficientemente ripetitiva perché lo spettatore possa riannodare il corso della storia se ha perso alcuni episodi. I personaggi hanno tuttavia una loro complessità e la narrazione – che rimanda spesso a un ricco patrimonio letterario – è abbastanza elaborata da ossessionare la società per anni dopo la sua diffusione.
Per di più occorre raggiungere tutte le classi sociali: «È l’imperativo della novela, come del telegiornale di Globo. E tuttavia scrivere per tutti è in apparenza un controsenso. Quelli che ci riescono sono rari», afferma Bosco Brasil. Essere autore di novela non è mica da tutti: «Tra il 1989 e il 2004, 25 novelas sono state diffuse nell’orario nobile, ed erano firmate soltanto da sei autori, che si alternavano», conferma Souza Romano. Il salario dei membri di questo piccolo club supera spesso i 100.000 euro al mese.

Donne delle pulizie come eroine
Una fortuna per gli uni, ma una somma trascurabile rispetto a quanto frutta questo prodotto artistico e commerciale. Si calcola che una pubblicità di trenta secondi durante la novela in orario nobile costi intorno ai 350.000 real (circa 115.000 euro). E per l’ultimo atto di Avenida Brasil il prezzo è raddoppiato. Quella sera, l’episodio durava 70 minuti, quasi due ore con la pubblicità. Tra gli spot regionali e nazionali, sono stati venduti 500 spazi.
Lo specchio della modernità funziona ancora meglio se integra un discorso pedagogico sulle grandi cause assunte dalla rete. Secondo studi della Banca interamericana di sviluppo (Bid), le novelas hanno giocato un ruolo nella forte riduzione delle nascite – il tasso di natalità è sceso del 60% dagli anni ’70 – e nel numero dei divorzi, di cinque volte maggiori (3). La leucemia di Camila, personaggio di Legami di famiglia, diffuso nel 2000, ha provocato un’esplosione di donazioni d’organi. «Alcune novelas hanno anche contribuito molto a fare accettare l’omosessualità», aggiunge Silvio de Abreu, ricordando che Globo dispone di un dipartimento incaricato di suggerire temi sociali.
Spesso politicamente corretta, l’evocazione di dibattiti sociali costituisce una caratteristica della novela brasiliana. Per Globo, pezzo centrale delle Organizzazioni Globo, il primo conglomerato mediatico dell’America latina, controllato solo dalla famiglia Marinho, «c’è anche un modo di darsi una buona immagine, quella di una rete privata che si preoccupa di una missione di utilità pubblica», rileva Souza Romano. Dal canto suo, Alencar vuole credere che l’antico motto di Globo, «A gente se vê por aqui» («Qui, si ritrova la propria vita»), e quello attuale, «A gente se liga em você» («Siamo collegati con voi»), «non sono solo slogan pubblicitari; dimostrano l’intensa relazione di identificazione del pubblico e l’interesse della rete per i grandi temi nazionali».
Mantenere questa relazione non è semplice. Da una parte perché anche se Globo resta la regina incontestata della novela – le altre reti si ostinano a copiare il suo modello di produzione senza dotarsi dei mezzi per metterlo in pratica –, soffre la concorrenza di internet e del disinteresse di una parte della gioventù. Fino agli anni ’70, il punteggio medio dell’audience raggiunto dalle novelas superava spesso il 60%. Oggi, catturare l’interesse del 40% delle famiglie rappresenta un successo. Nel 2012, l’audience totale di Globo ha raggiunto il livello più basso della storia, con una caduta del 10% – che certo ha colpito tutti i canali. «Il problema è che si guarda la novela sul proprio computer, sul telefono, e noi non disponiamo ancora di alcuno strumento di rilevazione per questi supporti», lamenta Alencar.
Di fatto, contro ogni previsione, la caduta dell’audience non ha significato riduzione dei guadagni: le novelas fruttano più che mai. Nelle agenzie di pubblicità, si ammette che questo è in parte il risultato di una certa inerzia. Come per la carta stampata, è più facile spingere gli inserzionisti a concentrare il loro budget su qualche titolo, senza tener conto del loro impatto minimo. E questa illusione è alimentata dal fatto che la novela ha contaminato tutti gli spazi: le sono dedicate decine di riviste, le reti sociali alimentano la suspense, per non parlare degli specialisti di ogni genere invitati a parlare del fenomeno in altre trasmissioni della rete, ma anche nelle colonne del giornale O Globo, e così nelle radio e negli altri canali legati al gruppo – una sinergia ancora poco studiata nelle università. «Si parla e si sente sempre più parlare della novela senza necessariamente vederla», afferma Brasil.Tanto più che la società brasiliana è profondamente cambiata nel corso degli ultimi dieci anni, con l’uscita dalla povertà di oltre cinquanta milioni di persone, che hanno avuto accesso al mercato del consumo di massa, e una sensibile riduzione delle disuguaglianze. «Sono famiglie il cui potere d’acquisto è aumentato considerevolmente. Diventa quindi più interessante investire in pubblicità», precisa Alencar.
È peraltro una delle ragioni dell’enorme successo di Avenida Brasil, che deve il suo nome alla via a scorrimento rapido che collega i quartieri periferici del nord alla zona sud di Rio de Janeiro, ricca e turistica. Decisivo non è stato tanto l’intreccio – una giovane cresciuta su una discarica municipale vuole vendicarsi per essere stata abbandonata dalla matrigna diventata ricca – quanto la comparsa di un nuovo tipo di protagonista. Le tradizionali scene sulle spiagge di Ipanema o di Copacabana, i quartieri più altolocati di Rio, sono state rimpiazzate da un’immersione in un quartiere fittizio, il Divino, tipico della piccola classe media della zona nord della città. Non è la prima volta che i poveri vengono messi in scena; ma, generalmente, il loro solo sogno, che si realizzava nel momento dell’happy end, era quello di accedere alla Rio ricca e distinta. Non così in Avenida Brasil: Jorge Tufão, l’eroe, diventato milionario grazie al football, resta nel quartiere della sua infanzia. Lì si parla ad alta voce, non si sanno usare le posate, ma lui si trova bene. Enorme successo presso quella che il governo s’impegna a descrivere come una «classe media emergente» (in realtà più una «frangia povera» della popolazione attiva), che si vede per la prima volta in scena, come presso i più ricchi, che hanno in questo modo accesso a un mondo sconosciuto.
Questo mix di fierezza per gli uni e di curiosità per gli altri spiega anche la risonanza di Piene di fascino (2012), in cui le eroine sono tre donne delle pulizie: mai visto. «Fino ad allora, era un personaggio secondario, e spesso caricaturale: la donna di servizio che si occupa di tutto nella vita della padrona, senza avere un’esistenza propria», spiega Xavier. Tra l’aumento del salario minimo, passato da 70 a 240 euro tra il 2002 e il 2013, e l’aumento del livello dell’istruzione – la proporzione di giovani di 19 anni che sono andati a scuola per almeno 11 anni è passata da 25,7% nel 2001 al 45% nel 2011 –, il rapporto di forze è iniziato a cambiare nella società, spingendo gli autori, Filipe Miguez e Izabel de Oliveira, a immaginare questa sceneggiatura. «Prima, la donna di servizio appariva solo attraverso le sue funzioni. Noi abbiamo deciso di seguirla nella sua vita, nella sua casa, nella strada, nei suoi sogni», racconta Miguez. Ancora una volta, la prodezza è stata quella di essere riusciti a non aizzare i più ricchi, dalle idee ben poco progressiste, come ha precisato l’autore: «Abbiamo fatto un sondaggio che poneva domande del tipo: “È appropriato che una domestica salga sul vostro stesso ascensore?”, e la maggioranza ha risposto di no».
Mentre negli uffici della Projac sono in molti a riflettere sulle trasformazioni economiche e tecnologiche che scuotono il paese, de Abreu si sente filosofo: «Che la si guardi su Internet o su un telefono, per me, questo non cambierà niente: dovrò sempre svegliarmi presto e scrivere fino a mezzanotte, per produrre un capitolo al giorno».


"Le Monde diplomatique - il manifesto" Luglio 2013 - Traduzione di E. G.

Dal transistor all'iPod. Parola chiave “persona” (Franco Carlini)

Anche per ricordare Franco Carlini, lo scienziato che era una delle colonne del manifesto e fu l'inventore del fortunato inserto “Chips and salsa”, ecco un suo articolo da un inserto del “quotidiano comunista”. Contiene, indiretto ma non troppo, un messaggio politico forte: il comunismo che si farà (perché bisognerà pur farlo se si vuol sfuggire agli istinti distruttivi del capitale) non potrà più occuparsi soltanto delle masse, ma dovrà mettere al centro le persone. (S.L.L.)

Dalla Regency di Indianapolis alla Apple di Steve Jobs, come sono cresciuti idee e prodotti ormai senza fili né cavetti

Era giusto 50 anni fa, il 18 ottobre 1954, quando una piccola società di Indianapolis, la Regency, mise in commercio il TR1, la prima radio tascabile al mondo. Era la radio a transistor che avrebbe cambiato drasticamente le modalità di fruizione della musica e della voce, in mobilità come oggi si direbbe, e in tasca. Il transistor al germanio era prodotto dalla Texas Instruments e le dimensioni dell’oggetto erano assai contenute: 12 x 8 centimetri circa. Dunque quella radiolina non era molto diversa per dimensioni dal nuovo iPod della Apple (10 x 6 centimetri circa) ed era altrettanto portatile, ovviamente. Simili anche il design rettangolare su cui campeggia un cerchio per i comandi. Solo che iPod non è una radio, ma un riproduttore di musica digitale, anzi ormai un oggetto di culto.
Tra i due oggetti c’è mezzo secolo di distanza, ma anche molto in comune, ovvero l’idea di un consumo personale, ma talmente personale da portarselo addosso in ogni luogo, e poco importa se il Regency TR1 uscì dal mercato già nell’anno successivo e se la fiaccola delle radio a transistor venne raccolta dai costruttori giapponesi che da lì cominciarono a costruire un impero nell’elettronica di consumo che ancor oggi dura e prospera (sia pure con alterne vicende e alterni brand, magari coreani).
Ma in questi 50 anni sono successe un bel po’ di altre cose e spiccano altre due date che entrambe finiscono per ‘4’. L’una è il 1984, e siamo ancora in casa Apple, quando Steve Jobs butta in mezzo al SuperBowl di febbraio il Macintosh, vera rivoluzione nell’interattività. Quelle finestre che si aprono e si chiudono, quel mouse che agisce come un agile prolungamento della mano, quei caratteri nitidi su schermi ad alta definizione oggi appaiono la norma, ma tali non erano nell’informatica di quegli anni abituata ai monitor neri o blu e ai comandi testuali. E attenzione, non si trattava di puro design (una dote per la quale la Apple va giustamente famosa), ma Interaction Design, come oggi si direbbe, ovvero progettazione delle modalità d’uso e di relazione tra uomo e macchina, perché fosse questa seconda ad adattarsi all’uomo (e alla donna), non viceversa. Che poi l’annuncio avvenisse attraverso uno spot leggendario di Ridley Scott, ispirato a Orwell 1984 non è certo secondario. Quella meraviglia dell’advertising (visibile in formato QuickTime  - http://www.uriah.com/apple-qt/1984.html) convogliava la stessa idea di fondo: nella radio a transistor come nell’odierno iPod e nel Mac di allora era di mettere a disposizione delle persone una tecnologia abilitante, ovvero una che ne estendesse le capacità di comunicazione e di creatività. 
La parola chiave è “persona” e infatti “personal computer” vennero chiamati i Pc, anche se per molto tempo essi furono installati soprattutto negli uffici, a sostituire i precedenti terminali. E i software di successo per lungo tempo, furono delle combinazioni di programmi per scrivere, far di conto e archiviare. Non per caso sovente vengono chiamati “Office productivity tools”, e cioè strumenti per la produttività individuale, negli uffici.
L’altra data è il 1994, anno in cui si può grossolanamente datare l’esplosione di massa della rete Internet, in forma di World Wide Web. Qui si innesta un’altra novità concettuale, prima impensabile: gli apparati digitali, anzi il Pc prima di tutto non è più concepibile (e non risulta nemmeno così utile) quando sia scollegato: deve almeno trovarsi all’interno di una rete locale (LAN), condividendo risorse di calcolo e documenti con gli altri appartenenti a quella rete; meglio ancora se è nell’Internet. Contemporaneamente i software che prendono piede sono quelli per navigare e per fare posta (nelle loro molte varianti) e il fine d’uso non è più solo lavorativo; al contrario cresce l’uso personale: per sapere, conoscere, entrare in contatto. Il fatto che il famoso motore di ricerca Google abbia lanciato, nell’ottobre scorso, un software per cercare i documenti là dove essi sono, indipendentemente nell’hard disk del proprio personal computer o nella rete, conferma che anche dal punto di vista dell’utilizzatore non fa più alcuna differenza: Pc e Rete, Rete e Pc fanno tutt’uno.
A maggior ragione quando si utilizzi delle connessioni a larga banda, le quali sono importanti non solo per la quantità di bit che possono riversarsi velocemente dalla rete, quanto perché prevedono quasi sempre una tariffa piatta e un collegamento sempre attivo: a quel punto il computer è strumento d’uso naturale, che si tratti di trovare le risposte ai quiz di Gerry Scotti come di consultare l’orario dei treni.
Ancora un salto tecnologico e siamo infine a questo 2004: è un salto senza fili, ma con la rete. Può esserci il cavo, ma può anche non esserci e l’oggetto che ci collega al mondo e agli altri nel mondo non è necessariamente il Pc: magari sarà un cellulare potenziato oppure un palmare che fa anche da telefono. Potrà essere in rete con tecnologie wireless tipo Wi-Fi, ma anche con le reti Umts di terza generazione. E l’aspetto colloquiale e ludico diventa eventualmente dominante, rispetto a quello strettamente lavorativo. Ma senza fili né cavi né cavetti sarà anche la casa: tutti gli apparati al suo interno devono essere tra di loro compatibili (amplificatori, televisori, radio, registratore, computer, cellulari) e tutti fruibili in maniera facile come se fosse un’unica rete casalinga. Il Media Center è la proposta e l’oggetto del desiderio eventuale dei prossimi acquisti natalizi, ma anche in questo caso i processi di integrazione sono appena agli inizi e presto diventeranno ben più spinti. E saranno comunque gli utenti a decretare successi e insuccessi delle scatole del lego multimediale di casa, anche se la guerra degli standard che già va emergendo rischia di compromettere i possibili buoni risultati. Guerra degli standard significa che ogni produttore cerca di valorizzare se stesso, rendendosi unico, ma come la storia dell’Internet dovrebbe avere ampiamente insegnato, una piattaforma tecnologica unica e aperta permette a tutti di crescere e diventa una vera autostrada anziché un groviglio di viottoli e sentieri recintati.


in Pensieri e parole, supplemento a “il manifesto”, novembre 2004

Così. Una poesia di Constantinos Kavafis (Alessandria d'Egitto 1863 -1933)

Un  busto di Kavafis ad Atene
   In questa foto oscena - fu venduta
per la via, di nascosto dalla guardia
- in questa foto pornografica, com'è
che c'è un viso di sogno come questo,
com'è che ci sei tu.

Chissà che vita grama e sordida farai:
in che trucido ambiente ti sarai
fatto fotografare;
che anima da nulla è mai la tua.
Pure, ancora di più resti per me quel viso
di sogno, la figura
fatta e donata per piaceri greci -
così resti per me, così ti canto.


(Aprile 1915, trad. di E.M. Pontani)

Globalizzazione. Il vino dal territorio al marchio (Sebastien Lapaque)

«I Romani sono stati i primi globalizzatori», osservava non molto tempo fa Pierre Legendre. A loro, dunque, il regno, la potenza e la gloria, come si rallegrava Plinio il Vecchio, naturalista di lingua latina nato nel 23 dopo Cristo, con l’entusiasmo di un Jacques Attali in toga e sandali: «Chi non crede, in effetti, che, unendo il mondo, la grandezza dell’Impero romano abbia fatto progredire la civiltà, grazie agli scambi commerciali e alla diffusione di una pace felice, e che tutti i prodotti, anche quelli che prima erano sconosciuti, non abbiano visto il loro uso generalizzarsi?». È il XVI libro della Storia naturale, dedicato alla vigna, al vino e alla vinificazione, che Plinio apre così, su un panorama di una prima mondializzazione felice.
Il commercio del vino era una pratica molto antica nel Mediterraneo. Dopo la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero, l’Italia ne esportava tanto quanto ne importava. Molto presto, mercanti e agronomi presero l’abitudine di classificare i vini distinguendone l’origine. Alla fine del II secolo avanti Cristo, si conveniva sul fatto che la qualità di un vino dipendeva più dal terroir (territorio) e dal paese d’origine (patria) di produzione che dal modo di prepararlo – essendo quest’ultimo importante soprattutto nell’elaborazione di innumerevoli vini corretti, profumati e aromatizzati per ritoccare una coltura pigra e una vinificazione difettosa. Plinio evoca i grandi vini italiani, gallici e spagnoli, poi i vini greci, asiatici ed egiziani, la cui consumazione era un segno distintivo a Roma. Non erano ancora stati inventati i crus bourgeois (prestigiosi vini della zona bordolese del Médoc, ndt), ma si apprezzavano già i vini d’oltremare. Il naturalista si rammarica di questa tendenza. A proposito del vino, egli prende in considerazione i mali della moda e la minaccia che l’estensione del commercio fa pesare sull’arte degli uomini, soprattutto su un’arte così delicata come quella di fare il vino.
«Un tempo, essendo gli imperi e gli uomini d’ingegno confinati del tutto nei propri territori, a causa della mancanza di occasioni si era costretti a coltivare le facoltà dell’animo (…). L’estensione del mondo e l’ampiezza delle ricchezze furono causa di decadimento per le generazioni successive». In materia di viticoltura, Plinio deplora le conseguenze pratiche di questo cambiamento di costumi: «La nostra epoca ha mostrato solo pochi esempi di perfetti vignaioli».
Per comprendere la posizione del vino nell’economia globalizzata, risulta sempre inquietante ricordarsi di ciò che osservava il naturalista romano al momento di una prima unificazione del mondo attorno al Mediterraneo. Ed è stupefacente trovare in lui il testimone antico di una «battaglia del vino» che è nostra oggi più che mai: vini naturali contro vini truccati, vini di territorio contro vini di vitigno, vini artigianali contro vini commerciali, vini di qui contro vini di altrove.
Non si beveva soltanto vino all’epoca romana. Ma si capiva già che non era una bevanda come le altre; si sapeva che esistevano dei vini più gradevoli di altri e che «due vini provenienti dalla stessa cuvée» potevano essere differenti, «a causa del recipiente o di qualche circostanza fortuita»; ci si stupiva dell’importanza del terroir; si distinguevano i vini del Piceno, di Tivoli, della Sabina, di Aminea, Sorrento, Falerno; si bevevano anche birra e idromele, ma si riconosceva al vino privilegio e mistero.
Nato dalla convergenza di un vitigno (o di un assemblaggio) particolare, di un territorio dato, dell’arte di un vignaiolo e delle condizioni climatiche dell’annata, un vino è sempre il fiore e il frutto di un equilibrio unico e non riproducibile. Gli antichi se ne stupivano, la società industriale ci perde la testa. Per le multinazionali dell’agroalimentare che amano imporre una bevanda universale sul mercato, un alcol di cereali – whisky, vodka o gin – sarebbe più adatto: nessun obbligo geografico di produzione, nessun problema di approvvigionamento di materia prima, nessuna angoscia meteorologica, nessuna difficoltà di adeguamento dell’offerta alla domanda. È probabile che George Orwell ne abbia tenuto conto facendo del «gin della vittoria» l’unica bevanda alcolica disponibile nell’universo totalitario del suo romanzo 1984. Un liquore acido e trasparente ma consolatore che Winston Smith beve alla fine del libro, dopo aver accettato il potere del Grande fratello.
Il vino ha l’inconveniente di porre un problema territoriale. La tenuta Romanée-Conti è di 1,8 ettari e produce seimila bottiglie all’anno. Per un gruppo mondiale che questo gioiello del vino di Borgogna farebbe sognare, una tale restrizione della produzione è particolarmente vincolante. Piuttosto che di un appezzamento cinto da mura – fosse anche il più prestigioso del mondo –, ci si concentrerà dunque sull’acquisto di un marchio. Per esempio, nella regione della Champagne, dove nessuno si interroga sull’esplosione nella quantità dei prestigiosi Krug o Dom Pérignon dopo il loro acquisto da parte di Louis Vuitton-Moët Hennessy (LVMH), incontestabile leader mondiale del lusso. Educatamente, la stampa specializzata parla di «approvvigionamenti d’eccezione». Un marchio ha del resto il vantaggio di servire nel mondo intero. Vedrete Chandon e i suoi effervescenti prodotti in Argentina, California, Brasile, Australia, ma anche in India e Cina. In Champagne, si producono trecentocinquanta milioni di bottiglie all’anno. La domanda della nuova classe media mondiale in «bolle» è dieci volte superiore. Ciò che il territorio non può dare, lo dà il marchio approvvigionando il mercato di sparkling wines (spumanti). Siamo onesti: questi Chandon tecnologici, di laboratorio, sono perfettamente bevibili, addirittura piuttosto buoni. Certo non vi si trova traccia di ciò che Francis Ponge chiamava il «segreto del vino». Ma come sarebbe possibile su così grande scala? Il segreto del vino ha in sé qualcosa di fragile e di mutevole che non si accorda con la globalizzazione degli scambi. Affinché il vino sia meno fragile, vogliono che sia ben «protetto» dai solfiti, come reclamano i critici Bettane & Desseauve, questi Stanlio e Olio del discorso enologico dominante; affinché sia meno mutevole, i laboratoristi pazzi della viticoltura industriale dispongono di tutta una gamma di prodotti cosmetici.
Nel suo film documentario Mondovino, presentato al Festival di Cannes nel 2004, il regista americano Jonathan Nossiter ha mostrato che il vino era diventato un prodotto come un altro nella società della concorrenza totale. La tecnoscienza economica globalizzata ha esteso il suo dominio su tutti i vigneti del mondo per mezzo dei marchi. Nelle cantine piastrellate del Médoc, di Mendoza (Argentina) e della Nappa Valley (California, Stati uniti), si inseminano i mosti, si corregge l’acidità dei succhi, si colora o si decolora, si elaborano e si filtrano i vini prima di commercializzarli in bottiglie bordolesi con un’etichetta internazionale. Allo stesso tempo, vi è qualcosa di irriducibile nella logica del territorio. Il cineasta lo ricorda filmando dei vignaioli ribelli nei Pirenei, in Sicilia e in Argentina. Delizioso paradosso della globalizzazione: è in Brasile, Cile, Uruguay, Grecia, Georgia, Serbia, Giappone e Cina che un domani appariranno altri artigiani renitenti agli ordini dell’agroindustria. Perché il movimento dei vini naturali, che acquista ogni anno nuovi domini, diventa anch’esso globale e mondiale. Come all’epoca di Plinio il Vecchio, una ruvida battaglia oppone quelli che considerano il vino come un prodotto agricolo e quelli che lo vedono come un prodotto commerciale. Niente è cambiato, se non in termini di scala, con l’apparizione dell’industria, lo sviluppo del marketing, l’apertura infinita dei mercati.
Esistono certo dei Dottor Stranamore del capitalismo totale che sognano un vino unico, così come vorrebbero un’acqua unica, demineralizzata per cancellare ogni traccia della sua origine, poi rimineralizzata e venduta nei cinque continenti. «Ciò che vogliono, è cancellare la memoria del gusto», ci ha confidato una volta Marcel Lapierre, apripista improvvisato di una guerriglia gioiosa condotta contro i vini tristi nel Beaujolais. Il loro potere nel mondo ci inquieta, la loro volontà di potenza ci allarma, i loro obiettivi ci terrorizzano. Allo stesso tempo, detestiamo questi esseri senza patria né memoria capaci di far dimenticare ciò che osservava Plinio il Vecchio: «Ognuno tiene al suo vino e, ovunque si vada, è sempre la stessa storia».


“Le Monde diplomatique – il manifesto” - Ottobre 2013

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