18.1.15

"Protest song". Cambiare il mondo con le canzoni (Guido Mariani)

Billie Holiday. Fu lei a lanciare "Strange fruit"
Incontro con Dorian Lynskey, 
autore di “33 rivoluzioni al minuto”
«Tutte le mie canzoni sono canzoni di protesta. Tutte quello che faccio è protestare». Così uno svogliato Bob Dylan, stufo di essere celebrato come la voce di una generazione, amava rispondere provocatoriamente ai reporter nel 1966 ai tempi della sua tanto criticata svolta musicale elettrica. L’immagine del giovane cantore delle battaglie civili lo aveva consumato, il pubblico gli chiedeva di essere più profeta che intrattenitore e ai concerti lo fischiava ogni volta che preferiva la chitarra elettrica a quella folk. Le canzoni sono strane armi con cui combattere le battaglie, spesso non sono destinate a cambiare le cose e rischiano di condannare un interprete a diventare un uomo politico prima che un artista. Ma le canzoni di protesta o quelle più genericamente ad argomento politico e sociale possono servire a dare voce alle speranze e a richiamare l’attenzione su tragedie e battaglie dimenticate.
Dorian Lynskey è un giornalista inglese che ha pubblicato di recente il libro 33 Revolutions per Minute (33 rivoluzioni al minuto, Faber & Faber), una ricca e informata storia della canzone di protesta. Se trentatre sono i giri che un long playing in vinile compie in un minuto, Lynskey, critico musicale di Guardian sceglie questo numero simbolico per selezionare altrettanti brani e ripercorrere una storia della musica d’impegno negli ultimi ottant’anni analizzando storie, contesti, miti e leggende di chi, anche per una sola volta, ha tentato di cambiare il mondo con la musica. Il viaggio comincia da un brano bellissimo e struggente che ancora oggi fa venire i brividi, Strange Fruit di Billie Holiday. Eseguita per la prima volta in un nightclub di New York nel 1939, la canzone aveva una melodia malinconica che poteva ricordare una dolente ballata dedicata a un amore finito, ma il testo in realtà parlava di tutt’altro: «Gli alberi del sud danno uno strano frutto/ sangue sulle foglie e sangue sulle radici/ corpi neri dondolano nella brezza del sud/ strano frutto appeso agli alberi di pioppo./ Una scena pastorale nel valoroso sud/ gli occhi gonfi e la bocca distorta/ profumo di magnolie dolce e fresco/ e poi l’odore improvviso di carne bruciata».
Gli strani frutti erano i neri linciati dai razzisti e impiccati agli alberi in uno spettacolo che doveva essere da monito per la popolazione segregata del sud degli Stati Uniti. L’autore del pezzo, che la rivista Time ha definito la canzone più importante del XX secolo, era un bianco che si chiamava Abel Meeropol, un ebreo americano di origine russa e di militanza comunista che negli anni ’50 adotterà i figli di Julius e Ethel Rosenberg, giustiziati per spionaggio. È difficile immaginare il coraggio di una giovanissima nera come la Holiday a cantare un testo di questo tipo nei club frequentati da bianchi.
Ma cos’è e come nasce una canzone di protesta? «Nel libro – spiega Dorian Lynskey - la definisco una canzone che si rivolge a un tema politico in modo tale da offrire il punto di vista della parte più debole, dell’underdog. Se fosse un contenitore sarebbe molto grande e pieno di buchi. Ho tenuto volutamente la definizione più ampia possibile poiché volevo parlare di tutti i modi in cui gli autori si confrontano con la politica, senza essere intrappolato in definizioni troppo strette. Io in genere cerco di non usare la formula ‘protest singer’. Pensiamo ad esempio a un pezzo di cui parlo nel libro, Two Tribes dei Frankie Goes To Hollywood. Holly Johnson, il cantante della band, non fu mai un protest singer. Il termine calza solo per artisti come Pete Seeger». È proprio Pete Seeger, patriarca del folk Usa, a essere una figura cardine nella storia della canzone politica. Fu lui a rendere immortale un vecchio inno battista nel tempo diventato canzone dei lavoratori, quella We Shall Overcome che si trasformò nella colonna sonora delle marce per i diritti civili e che ancora oggi fa da sfondo a tante manifestazioni di protesta.
L’impegno può tuttavia assumere molti volti e anche molti stili musicali. Per Lynskey la storia della canzone impegnata ha molte varianti: «Volevo scrivere di canzoni che considero genuinamente buone, e non solo di quelle che hanno un giusto significato. Desideravo però scegliere pure alcuni esempi inusuali appartenenti a stili musicali sottovalutati. È il caso di Carl Bean (che negli anni ’70 portò al successo l’inno disco-dance antiomofobia I Was Born this Way), ma anche di una formazione come i Prodigy. Certamente ci sono delle canzoni e delle personalità assolutamente imprescindibili: We Shall Overcome, Bob Dylan, i Clash. Ogni scrittore ha però la facoltà, anzi il dovere, di compiere una scelta personale».
Cambiano però le epoche, gli interpreti, i linguaggi e i gusti del pubblico, la stagione d’oro della canzone di protesta è definitivamente conclusa? «Questa è la questione che sollevo al termine del libro. Chiaramente vengono composte anche oggi centinaia di canzoni impegnate, ma nessuna di esse sembra essere in grado di guadagnarsi sufficiente impatto culturale e così vengono dimenticate in fretta. L’epoca in cui le canzoni di protesta erano prese sul serio e celebrate, in cui la politica veniva considerata parte integrante della musica pop è senza dubbio chiusa, ma certi temi continuano a riguardare i musicisti. Solo quest’anno possiamo citare esempi estremamente diversi come il singolo di Lady Gaga Born this Way o l’album di PJ Harvey Let England Shake. Penso che il brano Written on the Forehead di PJ Harvey sia a oggi la protest song migliore dell’anno. L’età dell’oro è finita, ma la forma prosegue, ed è giusto che accada così, perché gli artisti si confronteranno sempre con temi politici in un modo o nell’altro».
Le rivolte di questi mesi del Maghreb stanno facendo emergere una serie di giovani artisti, soprattutto rapper, che vogliono accompagnare con la loro musica i movimenti di massa, un po’ come negli anni ’60 e ’70 i cantautori cercavano di dar voce all’angoscia dei giovani americani e europei. Sembra quindi che i momenti di crisi siano un fattore fondamentale per ispirare gli artisti, dando ragione al detto che la cattiva politica genera grande arte. «Sicuramente - spiega Lynskey - un senso di rischio politico nutre il bisogno per le canzoni di protesta. Se sei in marcia per i diritti civili nell’Alabama del 1963 o devi obbedire alla cartolina di precetto dell’esercito a Berkley nel 1968, se fuggi dalle molotov e dai proiettili nella Giamaica del 1976 o sei un disoccupato della Londra del 1977, se ti batti contro la minaccia della guerra nucleare nel 1984, allora desideri che questi temi siano trattati nella musica che ascolti. Se vivi tranquillamente, come è accaduto in molti paesi occidentali dal 1989 al 2008, allora non hai certamente lo stesso anelito. Le canzoni di protesta fioriscono quando il pubblico le richiede e questo di norma accade quando qualcosa nella società non funziona più».
Un pregiudizio che il libro smentisce è il fatto che le canzoni di protesta facciano riferimento solo a determinati generi. Non c’è solo il folk e il rock, c’è anche la dance, il rap, la techno, il pop. Intrattenimento e impegno possono andare mano nella mano? «Ogni genere è per certi aspetti intrattenimento. Non mi piace distinguere tra pop e rock. Non c’è alcuna ragione per cui un artista dovrebbe evitare di combinare impegno e divertimento. La sfida è proprio questa, farlo in un modo che sia agile ed eccitante tanto da conquistare il pubblico. È questo il motivo per cui il mio libro parte da una canzone come Strange Fruit per esplorare le diverse reazioni che i nightclub ebbero di fronte a una canzone di argomento così potente e serio. Il conflitto tra i due mondi può essere importante e stimolante, e così la penso io. Potrebbe però essere solo un cattivo accostamento che stempera sia il messaggio che l’intrattenimento».
L’impegno non sempre è una scelta facile. Il cantautore cileno Victor Jara pagò con la vita le sue idee politiche di sinistra celebrate in canzoni come Plegaria a un labrador, Te recuerdo Amanda e Manifiesto («Là, dove tutto si compie/ e dove tutto comincia/ una canzone che sia stata coraggiosa/ sarà per sempre nuova»). Nel settembre 1971 a pochi giorni dal golpe di Augusto Pinochet venne arrestato, internato nello stadio di Santiago che era stato trasformato in campo di concentramento, venne poi torturato e ucciso. Il regime proibì la diffusione delle sue canzoni e distrusse i suoi dischi e tutte le incisioni della sua musica. Per altri artisti la colpa di essersi impegnati è stata pagata con isolamenti, fraintendimenti, boicottaggi o ironie. Dylan ha passato gran parte della sua carriera a fuggire lo stereotipo cucitogli addosso nei primi anni ’60. Il boss dell’etichetta Motown, Berry Gordy, descrisse la canzone di Marvin Gaye sulla guerra del Vietnam What's Going on come «la cosa peggiore che abbia mai ascoltato». L’amaro sarcasmo patriottico di Bruce Springsteen in Born in the Usa fu trasformato in un proclama nazionalista. Nel 1987 il cantautore inglese Billy Bragg si impegnò alla guida di un collettivo di artisti che scelse il nome di Red Wedge (il cuneo rosso) e di cui facevano parte anche Paul Weller, i Madness, gli Smiths e Jimmy Somerville. Il loro scopo era sostenere il partito laburista e impedire a Margaret Thatcher di ottenere un terzo mandato consecutivo come primo ministro. La Lady di ferro trionfò alle elezioni, il movimento si sciolse e Bragg l’anno dopo diede alle stampe una delle sue canzoni più celebri Waiting for the Great Leap forward: «Mi chiede che senso abbia/ mischiare pop e politica/ rispondo con imbarazzo e con le mie solite scuse (…) Un passo avanti, due indietro/ perché la politica mi dà il benservito?». «A mio parere - dice Lynskey - l’impegno da anni non aiuta più la carriera degli artisti. Negli anni ’60, lanciò artisti come Dylan e Country Joe Mc Donald perché le loro canzoni parlavano di quello che pensavano tante persone. Nel caso di Public Enemy o dei Rage Against The Machine si tratta di artisti così dirompenti e carismatici che la loro musica avrebbe avuto successo indipendentemente dal messaggio. Alla fine ha rappresentato più che altro un handicap. Non sarebbe stato forse assai più semplice la vita degli U2 se Bono non avesse mai parlato di politica? Oggi, quando sei conosciuto come un musicista politico attiri tantissime critiche e le aspettative diventano altissime per ogni cosa che fai».
Ma esistono anche dei veri e propri flop nelle canzoni impegnate? «Earth song di Michael Jackson è magniloquente, incoerente e sostanzialmente ridicola. Bosnia dei Cranberries è imperdonabilmente grossolana e paternalista. Una canzone di protesta fallimentare è quella che è così brutta da sminuire il tema di cui parla».
Anche l’ipocrisia è in agguato, Lynskey nel suo libro ricorda come Fela Kuti, straordinario musicista africano, «parlasse come l’attivista nero Huey Newton, vivesse come Hugh Hefner e avesse un regno privato degno di un capo villaggio» oppure di come l’impegno di John Lennon fosse spesso approssimativo. Giudicare però la vita degli artisti a partire dalla musica è, per lo scrittore, un grave errore:«Si pensa comunemente che se un artista ha un messaggio politico allora deve comportarsi senza peccato. Non è così, a parte un paio di errori di presentazione come il video di Imagine (in cui Lennon canta ’imagine no possessions' seduto su un pianoforte a coda in una lussuosa casa di campagna), non penso che le vite private di Fela o dello stesso Lennon abbiano in alcun modo sminuito il loro messaggio. Mi piacciono le contraddizioni e non mi interessano le persone esemplari. Va però riconosciuto che alcuni musicisti e attivisti quali Pete Seeger, Chuck D, Billy Bragg o Tom Morello si sono sempre tenuti su alti standard e si sono dedicati apertamente e completamente all’attivismo. Non penso che nessuno di questi sia mai stato spinto dal desiderio di essere famoso, come potevano magari esserlo Lennon e Fela Kuti. Ma questo non li rende superiori, li rende solo diversi. Il punto del mio lavoro è quello di mostrare al lettore che ci sono diversi modi in cui i musicisti si impegnano nella politica e non di esprimere giudizi».
I linguaggi cambiano e oggi ci sono i social media, è più difficile o più facile per gli artisti comunicare il proprio messaggio? «Non penso sia più difficile, anzi è più facile. Riescono infatti ad avere un accesso al loro pubblico non mediato dalla radio o dalla tv. Quello che è cambiato è il bisogno del pubblico di fare questo. Facebook, Twitter, YouTube, i blog sono tutti modi di esprimersi, sfogarsi e relazionarsi con persone che la pensano come te. A questo punto potresti non avere più bisogno di un artista che esprime le tue preoccupazioni al posto tuo. Questo non avveniva nel 1963 o nel 1977».
La speranza è che le canzoni di protesta possano cambiare il mondo. Per Lynskey alcune canzoni ci sono quasi riuscite: «We Shall Overcome fu enormemente importante per il movimento dei lavoratori e per i diritti civili e il suo ruolo fu riconosciuto da Martin Luther King e Lyndon Johnson. Più tardi la canzone degli Special Aka del 1984 Nelson Mandela giocò un ruolo importante nel tenere viva l’attenzione sulla prigionia di Mandela e riuscì a incrementare le pressioni internazionali per la sua liberazione».
Alcune battaglie forse si possono davvero vincere solo con una voce e uno strumento musicale. Nel gennaio del 2009 il vecchio menestrello Pete Seeger che con il suo banjo aveva scandito le marce per i diritti civili si è esibito a Washington all’insediamento del primo presidente afro-americano della storia. Anche in quest’occasione si è comportato da ribelle, cantando (accompagnato da Bruce Springsteen) uno dei classici della canzone folk This Land Is Your Land di Woody Guthrie in una versione integrale, spesso censurata, che ha versi di pura impronta socialista: «C’era un grande muro e hanno tentato di fermarmi/ una scritta diceva proprietà privata/ ma dall’altra parte non c’era scritto nulla/ questa terra è stata fatta per voi e per me». Nel maggio del 2009 Bruce Springsteen, esibendosi in concerto per festeggiare il novantesimo compleanno di Seeger, disse: «Pete, sei sopravvissuto ai bastardi!»; la vita del decano dei protest singer è durata così tanto da avergli permesso di assistere alla fine di tutti i drammi contro cui aveva cantato: la segregazione, il Vietnam, la guerra fredda, la dottrina Bush. Brani come Only a Pawn in Their Game di Bob Dylan, Feel like I'm Fixing to Die di Country Joe McDonald, oppure la più recente Sunday Bloody Sunday degli U2 oggi si ascoltano come testimonianze di vecchi drammi e di guerre concluse. Per ogni battaglia che finisce ne nasce però sempre una nuova e se il vero scopo delle canzoni di protesta è quello di essere la voce di una causa, la loro rivincita è quella di durare nella memoria collettiva più a lungo dei loro nemici.

ALIAS – IL MANIFESTO N. 23 - 11 GIUGNO 2011

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