14.1.15

Elsa Morante, una donna estrema. A colloquio con Graziella Bernabò (Bia Sarasini)

Prende il titolo da un verso della poesia Alibi, pubblicata nella raccolta omonima – una frase poi ripetuta nell’ultimo romanzo Aracoeli – la biografia di Elsa Morante La fiaba estrema, di cui è autrice Graziella Bernabò: «Ho scelto questo titolo soprattutto perché restituisce una figura di donna e poeta che si consegna alla vita e alla scrittura al di fuori di ogni schema. Una fiaba estrema per una donna estrema. Cioè lei, Elsa». «Nella poesia Alibi», ricorda Bernabò, che in precedenza si era dedicata tra l’altro alle opere di Antonia Pozzi, «compare la figura idolatrata di un giovane uomo, un rappresentante di quel maschile efebico in cui, secondo la mia interpretazione, si profila quel motivo del materno che caratterizza la scrittura di Morante. Motivo del materno che trova un’esplicitazione drammatica nell’ultimo romanzo, Aracoeli, che a differenza di molti considero il suo capolavoro».

Come si potrebbe definire la sua biografia?
«Il mio è un viaggio attraverso la scrittura di una donna che esprime un universo femminile. Seguo il nodo madre/figlia, ma anche figlio, da cui si diparte tutta l’opera, tutta la sua costruzione letteraria»

Il primo capitolo, come è naturale, è dedicato alla giovinezza di Elsa. Lei mette ordine in molti fatti, eppure rimane molto di misterioso.
«Sono partita da quello che c’era. Prima di tutto le memorie pubblicate dal fratello Marcello, Benedetta maledetta. Elsa e sua madre, in cui erano rivelate alcune gravi problematiche della famiglia Morante. Molto importanti sono stati anche i colloqui con la sorella Maria. Lei è nata dieci anni dopo, Elsa era nata nel 1912 e se ne era andata via di casa a diciotto anni. Si tratta quindi della memoria parziale di una bambina che può non avere compreso del tutto i fatti a cui ha assistito. In ogni caso è una testimonianza preziosa. Per esempio nel ricordare il legame di Elsa con la madre, soprattutto nei primi anni, quando tornava a casa regolarmente, con gioia. Come quando arrivò con un enorme albero di Natale, così grande che dovettero lasciarlo fuori dalla porta»

E le tracce lasciate da Elsa?
«Ho utilizzato, per esempio, certe sue pagine pubblicate su “Oggi”, su cui negli anni ’39-’40 tenne la rubrica Giardino d’infanzia. Lì racconta di sé stessa bambina: sono pagine utili per entrare nella sua fanciullezza. Importantissimi i diari, soprattutto il resoconto di sogni Diario 1938 (Lettere ad Antonio) e alcune annotazioni ai suoi manoscritti. Molto interessanti sono anche i sogni di Elsa annotati da Adriano Sofri negli appunti relativi al tempo in cui lei era ricoverata in clinica, pubblicati in Festa per Elsa. Lei sognava molto la madre. Una figura con cui nella vita non ha mai fatto i conti fino in fondo. E naturalmente sono di grande rilevanza le annotazioni ai manoscritti delle sue opere e le lettere finora pubblicate. A parte qualche anticipazione, non ho però avuto accesso all’epistolario curato dal nipote Daniele Morante, che sta per uscire».

Un problema della vita di Elsa Morante è stata la presenza di due padri?
«Sì, c’era un padre finto, il marito della madre, Augusto Morante. Un siciliano che, impotente, chiese alla moglie Irma di non lasciarlo, di non chiedere l’annullamento del matrimonio. Per ottenere questo acconsentì che lei avesse figli, cinque (considerando anche il primogenito, morto poco dopo la nascita), con un altro, Francesco Lo Monaco. anche lui siciliano. Un uomo bello, simpatico e molto superficiale, che andava a trovarli circa una volta al mese. Una storia tremenda. Anche per il disprezzo con cui Irma prese a trattare il marito, con cui convisse tutta la vita».

Elsa amava il suo padre naturale?
«Lei era la figlia più grande, fu la prima a sapere la verità sul padre naturale. Per certi aspetti lo detestava, ma fu molto colpita quando, nel 1945 con qualche ritardo, la famiglia venne a sapere che Francesco si era ucciso con un colpo di pistola. Le sue annotazioni a questo proposito, presenti nel manoscritto di Menzogna e sortilegio, testimoniano momenti di profondissima malinconia. A riscattarla, a farla uscire da quello stato, fu il forte desiderio della scrittura».

Lei riporta quello che racconta Alberto Moravia, che Elsa in gioventù si è prostituita, ma non aggiunge altro.
«Renzo Paris dice che Moravia ne parlava, precisando però che erano «amori a pagamento, ma non professionali”. La stessa Elsa ne ha parlato a Enrico Palandri, come lui mi ha testimoniato quando l’ho incontrato. Ma, se su questo posso dire che le due testimonianze combaciano, per ora, non sono in grado di aggiungere altro. Tutto il periodo in cui Elsa andò via di casa, tra il 1930 e il 1937, è piuttosto misterioso. Lei era poverissima, viveva in squallide camere ammobiliate e spesso faceva letteralmente la fame».

La vita sentimentale – e anche sessuale – di Elsa Morante, non fu semplice né felice. Non è facile raccontarla.
«Lei, una donna libera, non parlò tuttavia molto di sé ufficialmente, anche se le sue opere sono intessute delle sue vicende, magistralmente trasfigurate. Sappiamo del matrimonio con Alberto Moravia, un uomo che lei pensava non la amasse e che le è stato sempre infedele, anche se hanno vissuto insieme per venticinque anni».

Poi ci furono gli amori per gli uomini giovani e/o omossessuali
«Sappiamo dell’amore per Luchino Visconti, su cui circolano fin troppe leggende. E sappiamo di Bill Morrow, il giovane pittore di 23 anni definito da Adele Cambria, che lo conobbe, “somigliante, in bello, a Alain Delon”. Il giovane per Elsa fu una specie di incrocio tra un amante e un figlio. La sua morte – cadde da un grattacielo a New York il 30 aprile 1951 – fu una tragedia. Anche perché lei la interpretò come un suicidio. Carlo Cecchi, l’attore-regista suo grande amico, che mi ha parlato più volte e a lungo di lei, mi ha detto che questo tragico evento “la gettò nella disperazione e nell’orrore di vivere”».

Il giovane androgino è una figura ricorrente della narrazione di Elsa Morante.
«Certo, dai racconti giovanili a Menzogna e Sortilegio, a L’isola di Arturo, ad Aracoeli. Per non parlare delle poesie di Alibi. Come dice la sorella, lei amava il femminile dell’uomo. E il tema percorre tutta la sua opera inquietante e complessa: lì, tra i testi e le diverse stesure, possiamo seguirne le tracce. Più difficile ricostruire in modo preciso questo aspetto sul piano biografico. Ci sono dei vuoti. Quando si potranno leggere tutte le lettere, forse si potrà capire qualcosa di più».

Chi era la madre di Elsa? Perché è così importante?
«Irma Poggibonsi era una donna ebrea, colta, socialista, che aveva scritto sulla rivista “Il cimento”, soprattutto sulla questione femminile. Capì da subito il genio della figlia, che scriveva filastrocche, fiabe e raccontini fin da bambina. Irma portò i suoi scritti alla rivista “I diritti della scuola” e al “Corriere dei Piccoli”, le spianò la strada. Certo fece un terribile compromesso con il marito, mettendo i figli in una posizione insostenibile. Elsa se ne andò di casa, oltre che per dedicarsi totalmente alla scrittura, anche per il disgusto».

Perché pensa che Elsa Morante non abbia fatto i conti con la madre?
«Da un certo momento in poi non l’ha considerata adeguatamente, l’ha sempre più allontanata da sé. Anche se andava a trovarla una volta al mese a Viterbo, dove era ricoverata. In Aracoeli la figura della madre viene sdoppiata. C’è l’incanto, la melodia di Aracoeli giovane, ma c’è anche l’altra in cui si è trasformata, una strega. Temi inquietanti».

Come si scrive la vita di una donna pubblica ma poco presenzialista come Elsa Morante?
«Nel costruire questa biografia, oltre all’utilizzazione di tutte le possibili fonti scritte, ho cercato tutte le testimonianze che ho potuto ottenere, e mi sono attestata sui fatti su cui esse combaciavano. E poi è vero. Elsa Morante non compare molto sulla scena pubblica. A casa sua, a via dell’Oca, si incontravano in molti, discutevano, si confrontavano e certo Elsa non taceva il suo pensiero, stimolava la discussione. Poi erano altri, come il suo amico carissimo Pasolini, a scrivere sui giornali. Anche per lei vale quello che dice Carolyn G. Heilbrun dello “scrivere la vita di una donna”, e che, come gruppo di ricerca sulla “storia vivente” della Libreria delle donne di Milano, usiamo come metodologia di base. Per “raccontare” una donna, contano le relazioni».


“Letterate magazine”, agosto 2012

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