8.1.15

Elsa Morante. Arturo e il mare (Alberto Asor Rosa)

Il 2015 si compiranno i trent'anni dalla morte di Elsa Morante, figura grande e sottovalutata della storia letteraria italiana. Tra gli articoli pubblicati in occasione della sua scomparsa spicca questo di Alberto Asor Rosa. Vi si ribadisce l'ingiusta e ingiustificata stroncatura che lo stesso aveva confezionato per La Storia, il romanzo che non piacque ai critici (o, almeno, ai più, fra di loro) e che piacque, invece, a molti lettori, anche “ingenui”). Ma l'analisi de L'isola di Arturo, l'altro capolavoro di Morante, mi pare puntuale e suggestiva, tale da stimolare e da arricchire una rilettura o una lettura ex novo dell'opera. 
In verità La Storia, pubblicata nei primi anni Settanta, una quindicina dopo L'isola, ne è, in qualche modo, una verifica e una continuazione. Testimonia. con la fine del mito “insulare”, la sconfitta irreparabile degli innocenti nella grande storia, fatto che contrariamente a quanto pensa Asor, è da raccontare e Morante racconta benissimo. (S.L.L.)

Al centro dell'universo immaginativo (o forse sarebbe meglio dire mitico) di Elsa Morante c'è sempre stato il problema di una diversità che non riesce a collocarsi, a risolversi in un rapporto, in una vera "storia". Com' è noto, nel romanzo che rende esemplare questo soggetto, traducendo e trasformando una "storia" ne La Storia, la Morante ha cercato di dare significazione universale alla sua tematica. Non starò qui a spiegare perché questo tentativo sia approdato ad una sovrabbondante e sostanzialmente posticcia enfiagione degli spunti creativi originari (tale causa, del resto, dovrebbe risultare in maniera abbastanza chiara ed accessibile da una lettura attenta della parte più autentica e profonda della sua personalità). Preferisco ricordare che, ad una diretta e fantasiosa corrispondenza fra motivi archetipi, originari, e la peculiare scrittura di questa autrice, si deve un libro come L'isola di Arturo, uno dei cinque o sei romanzi importanti del nostro dopoguerra. Con L'isola di Arturo risaliamo al 1957: siamo molto in là nel tempo, in una fase di caduta della ricerca neo-realista. Quando il libro apparve, sembrò - giustamente - che un raggio di luce e di fantasia attraversasse l'atmosfera già un po' opaca e polverosa della pur così recente Arcadia populista (con la quale, tuttavia, la Morante conservava allora qualche rapporto, e dirò più avanti lungo quale linea). Nell'Isola di Arturo l' universo immaginativo della Morante è già compiutamente presente. Non voglio dire che poi essa non abbia fatto nulla di nuovo; ma lì c'è già tutto l' essenziale, e fresco, vivo, fantastico, come in una illuminazione di primavera.
In Aracoeli, a distanza di quasi venticinque anni, ritorna - non so se qualcuno l' abbia già notato - qualcosa di quella tematica primitiva, ma come raggelato nelle astuzie programmatiche di una progettazione tematica, che ha perso la vivida qualità inventiva dell' opera precedente. Il fatto è che la scrittura della Morante è altamente metaforica. Non c'è nessun altro scrittore italiano contemporaneo dotato di una capacità tanto sorprendente di stendere sulle storie e sui caratteri dei personaggi questa rete di immagini allusive e di concrete simbolizzazioni.
L'isola di Arturo - mi rendo conto che è persino ovvio rilevarlo - è una metafora della vita. Ma questa metafora - per così dire - non è una Grande Metafora, una simbolizzazione di dimensioni ideologicamente molto ambiziose: è, invece, un insieme discreto di metafore, una rete di metafore, un labirinto di metafore, non sempre collegate esplicitamente da una volontà superiore, ma piuttosto affidate, al contrario, alla casualità un po' entusiasmante e un po' disperante delle coincidenze e dell'imprevisto. Il "luogo" del romanzo è, per l' appunto, un'isola, Procida: spazio circoscritto, anzi recluso dal mondo; dove l'avventura del protagonista, prima bambino poi adolescente, ha modo di svolgersi senza intoppi storici, relazionali, in una sua purezza mitica e naturale insieme. Non a caso, l'isola è sovrastata dalla mole cupa del Penitenziario, simbolo della reclusione; e circondata dal fremito senza confini e senza soste del mare, simbolo di una libertà, che però è anche partenza, distacco, privazione (il padre che lascia periodicamente l'isola, per i suoi misteriosi ma in realtà squallidi viaggi in terraferma).
Il protagonista, che ha il nome di una stella, compie, crescendo, una ricerca; ma i poli del suo stesso mondo lo fronteggiano, ostili, nella loro superba astrattezza. I poli sono quelli che ci si aspetterebbe, ovviamente, di trovare in una qualsiasi storia d'iniziazione: Paternità e Maternità, innanzitutto; e poi Sessualità e Amore. Non è qui la novità vera dell'invenzione, non è nella struttura pura e semplice, schematica, della vicenda; bensì nel variegato e articolato disporsi delle "figure" secondo una logica fantastica particolarmente prensile e concreta, e molto molto ricca dal punto di vista immaginativo. Tutti i personaggi risultano, infatti, ad una osservazione più attenta, spaccati in due, presenti e assenti al tempo stesso, e al tempo stesso ostili ed amici, sfuggenti e persuasivi, fonte di piacere e fonte di dolore. Il padre è amatissimo, e sempre lontano, collocato dal fanciullo in un luogo immaginario al di là dell'orizzonte; mezzo tedesco e mezzo procidano; molto superbo e autorevole come maschio, e in realtà omosessuale. La madre, scomparsa, sovrasta da universi lontani: è una tomba non più visitata, una nostalgia incalcolabile di oggetti perduti. La supremazia del padre è apparentemente incontrastata; in realtà, predominante è la Maternità-femminilità pervasiva e indeterminata, manifestazione estrema dell'"oscuro popolo delle donne" - per cui, secondo il padre, bisogna essere contro l'amore delle madri, e dunque anche contro "l' amore delle donne". La giovanissima matrigna, prima detestata e poi amata, provoca l'esplosione del sesso, e poi si ritira anch'essa, dolente, nel mondo appartato e solitario, misterioso, della maternità, producendo al padre omosessuale un secondo figlio, che ha i capelli biondi del genitore e gli occhi neri del fratello (e infatti finirà per chiamarsi anche lui Arturo). Questo intreccio di relazioni hanno una dimensione in quello che potremmo definire il "reale svolgimento dei fatti" e una, più profonda e sicuramente più significativa, in una zona dell'esistenza dove i sentimenti e le passioni si presentano sotto forma di pulsioni elementari e l'umano si confonde spesso con l'animale e il naturale. Questo è veramente l'aspetto poetico più propriamente morantiano, inconfondibile, dove si recupera persino la tradizione neo-realistica del personaggio umile (la matrigna Nunziatella), per influenzare (ed essere influenzata) - ne sono assolutamente certo - gli esperimenti narrativi pressoché coevi del giovane Pasolini. Gli idioti, i fanciulli, gli ignoranti, le donne semplici, vivono in un mondo i cui tratti non sono stati ancora disegnati dal regolo spietato degli adulti e dei maschi (l'omosessualità resta sospesa a mezz'aria, come una presenza inquietante, un'infrazione non completa, una specie di verginità irrisolta e dolorosa: il padre di Arturo viene definito "un animale doppio", "un cavallo grifone", una "sirena").
La prosa della Morante è una costellazione di microscopiche metafore, che mettono in congiunzione l' estremità semplice del genere umano con il mondo degli animaletti e dei fiori. La matrigna Nunziatella ha lo stesso sguardo della cagna Immacolatella, il cuore che batte "simile a un uccellino appena rubato dal nido", è sollecita come una "gallinella", sembra "una bestiola selvatica dalla pelliccia nera". Questi "frammenti di fiaba" si compongono in un "teatro mitico", in una "fantasia", in una alata immaginazione, che rinuncia volutamente ad ogni pretesa di verisimiglianza narrativa, per immergersi in una dimensione del racconto in cui sembra davvero di udire "lo scorrere presente dei minuti, attraverso le distanze favolose del tempo, come un grande respiro calmo", che è poi quello della natura, del mare. Non a caso, l'ingresso del protagonista nell'età adulta, mentre segna il suo distacco dal padre, dalla Maternità, dalla matrigna e dall'Amore, comporta al tempo stesso l'uscita dall'Isola, la fine del regno incantato chiuso in un cerchio dal mare e concluso dalla sua impossibilità di svilupparsi in "storia".
Quando la "storia" di Arturo davvero comincia, l'isola è scomparsa all'orizzonte e il romanzo s'interrompe. Scrittrice mitica per eccellenza, la Morante non aveva molti spazi al di fuori di quelli disegnati dalla mappa archetipica, che abbiamo cercato di descrivere. La nostra opinione è che "l'isola" ne rimanga l' espressione suprema: per definizione, come Arturo, uscire dall'isola significa non avere più una storia significativa da raccontare. Ma il mito, appunto, non ha bisogno di valenze storiche per espandersi ed esprimersi: detto una volta, è difficile ripeterlo; ma, ove sia stato detto, può bastare a riempire una carriera intera di scrittore.


“la Repubblica”, 26 novembre 1985  

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