10.12.14

Sciascia. I risvolti sequestrati (Giuseppe Traina)

Il libro di cui, nella recensione che segue, scriveva Traina, un buon italianista a quel tempo sotto contratto dell'Università di Catania, fu subito ritirato dal commercio, per una controversia giudiziaria tra la casa editrice e gli eredi di Leonardo Sciascia sulla titolarità dei diritti. 
Sono passati ormai più di dieci anni e il libro non è ancora disponibile. E' tempo che qualcuno trovi una soluzione: il contributo alla produzione di libri è un aspetto importante dell'attività del maestro di Racalmuto e bisogna che siano in tanti a conoscerlo. (S.L.L.)
A Racalmuto. Leonardo Sciascia, Elvira Sellerio, Gesualdo Bufalino
Scrive il curatore di questo libro importante che Leonardo Sciascia "i libri li pensava vestiti": si riferisce al gusto quasi ineguagliabile che Sciascia ebbe per la cura dei libri che faceva pubblicare ai suoi editori, prima Salvatore Sciascia poi Elvira Sellerio (ma potremmo aggiungere che il suo parere molto influì, nei suoi anni estremi, su molte scelte editoriali di Bompiani e Adelphi). Nel caso, poi, della collana "La civiltà perfezionata" di Sellerio, i libri erano lussuosamente vestiti da copertine appositamente richieste ai maestri contemporanei del disegno e dell'incisione.
La metafora del libro vestito (non sarà inutile ricordare che Sciascia, da ragazzino, fu apprendista sarto) si arricchisce di ulteriori risonanze etiche se pensiamo a quel che egli una volta scrisse del Settecento: "Direbbe Giraudoux: il secolo che ha vestito l'Europa (evidentemente conferendo al vestirsi più civiltà che al denudarsi: debol parere anche mio)". Vestire un libro, dunque, così come vestire se stessi, è innanzitutto un atto di civiltà, quasi un dovere etico per un editore. Di questo dovere etico (verso il lettore, verso se stessi) è parte integrante la stesura del risvolto di copertina, il mezzo con cui il libro si presenta al lettore, anzi all'acquirente che lo sfoglia in libreria. La stesura del risvolto, se non è affidata all'autore stesso del libro, è competenza del direttore editoriale o del direttore della collana: Sciascia fu entrambe le cose, e mai ufficialmente, per Sellerio. Fu soprattutto, attingendo alla sua sterminata memoria di lettore e di cultore della memoria, uno straordinario suggeritore di libri da pubblicare: tanto che, fino a due mesi prima di morire, ricordò a Elvira Sellerio che si sarebbe dovuto stampare la Germania di Tacito, tradotta da Marinetti, nella collana che più sentiva sua, cioè "La memoria" dall'impareggiabile copertina blu (plagiata da altri editori, e da Bufalino, in Qui pro quo elevata a comparsa di romanzo).
Scopriamo adesso, grazie al libro Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero La felicità di far libri (a cura di Salvatore Silvano Nigro, pp. 315, € 10, Sellerio, Palermo 2003) - la distribuzione del quale è stata bloccata dagli eredi di Sciascia che lamentano di non averne autorizzato la pubblicazione -, che lo scrittore racalmutese non si limitava a suggerire libri da pubblicare o a scrivere i risvolti di copertina per le collane da lui ideate ("La memoria" e "La civiltà perfezionata", ma anche "La diagonale" e "Quaderni della Biblioteca siciliana di storia e letteratura"): apprendiamo dalla Testimonianza di Maurizio Barbato, successiva al saggio introduttivo di Nigro, che arrivava a occuparsi personalmente degli aspetti più tecnici della nascita di un libro, dalle schede per la stampa e i venditori alla stesura dei rendiconti commerciali.
Veniamo ora ai risvolti, per dire subito che è innanzitutto opera meritoria che in tal modo siano raccolti quelli della "Memoria" (ad essi sono aggiunti quelli stesi per le altre collane nonché i testi scritti per due importanti antologie selleriane: La noia e l'offesa e Delle cose di Sicilia), dopo che già l'editoria italiana ha saputo conservare quelli di altre importanti collane fortemente legate al loro ideatore, come i "Gettoni" o la "Biblioteca delle Silerchie". Perché, scrive Nigro, "un libro da pubblicare è un atto di critica": al momento della sua scelta e nell'estensione di uno scorciatissimo giudizio critico, che deve anche sinteticamente informare, com'è il risvolto. E ben nota ai lettori di Pirandello e la Sicilia o di Cruciverba la finezza di Sciascia critico letterario; ma i suoi risvolti ne fanno apprezzare la capacità di far critica con le armi più squisite della scrittura, con un aggettivo o un avverbio, con un ammiccamento trasversale (si veda la scelta di spiegare Max Beerbohm con Rene Clair) o con una citazione, ma di quelle che "non hanno le unghie dipinte", per dirla con la prosa fantasiosa di Nigro. Tutto sciasciano era poi il dono di sapere riportare i libri meno recenti alla loro valenza politica d'attualità, talché ripubblicarli assumeva una valenza pedagogica o polemica sintonizzata sui suoi crucci per le vicende italiane e qui testimoniata da alcuni testi pubblicati negli anni della sua esperienza parlamentare: dal bellissimo Procuratore della Giudea di France (che Sciascia stesso tradusse) al Jonathan Wild di Defoe, dal Villaggio di Stepàncikovo di Dostoevskij alla sempiterna Colonna infame.
Ma "una biblioteca d'autore è un autoritratto d'artista: un'autobiografia culturale e autorizzata, che si dà tutta insieme in ogni numero della collana e in sequenza" (Nigro). Le scelte per "La memoria" confermano in buona parte il ritratto d'artista che conosciamo, ma ne allargano i contorni ad aspetti meno noti, come l'interesse per la cultura anglosassone (ben nutrita, in gioventù, dai saggi critici di Cecchi prima ancora che da Americana) o l'attenzione alla cultura classica (che si rapprende nella figura di una fine saggista, Lidia Storoni Mazzolani); e alle altre "vene" che scorrono all'interno di quel corpo pulsante che è una collana: la scrittura femminile, l'evocazione di microcosmi paesani ormai confinati nel passato, la rappresentazione degli orrori della guerra, la godibilità della lettura come valore assoluto; e la vena forse più utile a capire la scrittura dello Sciascia narratore in proprio, voglio dire l'attrazione per libri scritti con vivissimo il gusto dell'intreccio o, come scrive a proposito di un poco noto racconto lungo di Moravia, "racconti di intreccio o - per usare un suo titolo - d'imbroglio. D'imbroglio, si capisce, magistralmente seguito e dipanato; e cioè inventato con divertimento e con divertimento raccontato e risolto". 


“L'Indice”, anno XX n.9 settembre 2003

Nessun commento:

statistiche