9.12.14

Nascita, vita e morte della III Internazionale (Rossana Rossanda)

Il testo che qui propongo, breve e sugoso, fu pubblicato all'interno di uno speciale del “manifesto” dal titolo L'Internazionale e i suoi fantasmi. Occasione dell'inserto e dell'articolo furono i 40 anni dallo scioglimento dell'Internazionale, ma non bisogna scordarsi dell'articolo della “Pravda” che qualche giorno prima aveva duramente condannato l'eresia di Berlinguer, che a quel tempo era ancora vivo e lottava insieme a noi. (S.L.L.) 
VII Congresso Mondiale dell'Internazionale Comunista a Mosca: seduti Georgi Dimitrov (Bulgaria) Togliatti (Italia), Wilhelm Florin (Germania), Van Minh (Cina), in piedi Kuusinen (Finlandia), Klement Gottwald (Cecoslovacchia), Wilhelm Pieck (Germania) e Dimitri Manuilsky (sovietica Ucraina), 07-08/1935, Ullstein Bild / Archivi Alinari, fotografo Abraham Pisarek
L'idea che sta alla radice dell'Internazionale comunista, come era stata all'origine della I Internazionale, è quella d'un principio unico del processo rivoluzionario. Non aveva scritto Marx, in epigrafe al Manifesto dei comunisti, il famoso «Proletari di tutto il mondo, unitevi»? E non perché in tanti si vince, ma perché comune era la condizione e quindi la causa; e comune era resa dall'estendersi su scala mondiale di quella forma di produzione capitalistica che valicava le frontiere, si colorava in modo diverso qua e là, ma aveva al suo centro un meccanismo unico di estorsione del plusvalore, di sfruttamento e di alienazione. Il proletario era internazionalista perché la sua condizione era non simile, ma identica — nella sua forma strutturale — a quella degli sfruttati d'un sistema mondiale. Mondializzazione del capitale, mondializzazione del proletariato — e la rivoluzione come problema mondiale.
Questa radice viene, dunque, da lontano: da Marx, e Lenin la eredita dalla II e dalla I Internazionale. La prima rapidamente finita, la seconda organizzatrice di tutta una fase del movimento operaio, formatrice di cultura e di quadri, specie in Europa e tuttavia — quando esplode la prima guerra mondiale — quasi frantumata dalla «causa nazionale», incapace di mantenere l'internazionalità della sua origine.
Questa è la prima grande accusa che la sua sinistra le lancia, qui avvengono le scissioni. La III Internazionale nasce nel crogiolo di questa fiammata terribile, in una fase di capitalismo già «imperialista» e quindi portatore di guerra, e sotto il rivelarsi folgorante in una zona non prevista dalla teoria - non l'occidente avanzato, ma la Russia zarista — delle condizioni «oggettive» d'un rovesciamento dell'autocrazia che si sviluppi in processo di rovesciamento rivoluzionario globale. Chi vuol sapere come questa precipitazione avvenga, deve andare a Lenin; chi vuoi sentirne l'aria, l'odore, la passione, la «contaminazione» della storia sul pensato, deve andare ai Dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, o, in una cineteca, ripescare La corazzata Potemkin o l'Ottobre di Eisenstein.

Un fiume bollente corre per il mondo
Succede dunque che la prima rivoluzione comunista avviene non in continuità ma in rottura con il movimento operaio internazionale, che è organizzato dai grandi partiti socialisti e nei primi grandi sindacati; e non in tutto il mondo, ma in un solo paese. Questa ultima condizione è teoricamente così scandalosa, che già divarica il dibattito dei bolscevichi (come si sa fu uno dei punti di frizione con Trotzki); perché la rivoluzione russa, che dovrebbe accendere l'Europa non l'accende, o accende fiamme presto spente in repressioni sanguinose. Forse un sospetto di questo isolamento, e non tanto dei pericoli per una sola rivoluzione in un paese solo di fronte a un mondo tutto contro di essa, ma d'un qualche suo fatale snaturamento se sola fosse restata, fa nascere la III Internazionale. Che non è solamente spaccatura della precedente, attraverso la formazione dei partiti comunisti in genere dalle scissioni socialiste (ora maggioritarie, come in Francia, ora minoritarie, come in Italia); ma il correre d'un fiume bollente per il mondo, là dove i partiti socialisti non erano mai esistiti o appena si formavano movimenti democratici e antimperialisti, la prova che la rivoluzione era possibile, era avvenuta, aveva un suo grande luogo, una patria, e anche uno stato (si sarebbe estinto dopo, nel passaggio vero e proprio dal socialismo al comunismo). Dunque poteva avvenire dovunque, se il proletariato si organizzava e prendeva quella rivoluzione come modello. Quella rivoluzione, dunque la sua teoria e la sua organizzazione, il suo partito.
La III Internazionale nasceva definendo i 21 punti richiesti ai proletari di tutto il mondo per farne parte; il centro era, naturalmente, la sua prima zona vittoriosa, il fronte più avanzato — ma era una Internazionale. Democratica, centralizzata. Somigliava a un grande partito leninista su scala mondiale, con le sue federazioni nazionali e un suo esecutivo rapresentativo dei trentacinque partiti che l'avevano fondata. I suoi membri ne erano membri nel mondo, si spostavano da un paese all'altro, costruivano la loro rete con lo stesso spirito – seminavano i partiti comunisti. La storia dei primi anni Venti è il dilagare nel mondo di questa idea, speranza, aggregazione, superpartito. Non credo che esista in questo secolo un processo altrettanto rapido e univoco e sicuramente entusiasmante.

Da un principio a un luogo
Quanto durò, questa immagine originaria? Forse quanto il cadere delle illusioni, l'esperienza dello spessore e della durezza dello scontro. I secondi anni venti sono anni di grandi repressioni, non solo in Europa, dove covano i fascismi. Se penso alla storia di Gramsci, ad alcune sue note, già nei primissimi anni venti, già prima della rottura del gruppo dirigente bolscevico, l'ipotesi è lucidamente cambiata: la rivoluzione mondiale è fallita,.certo lo è in Europa, resta uno stato comunista, garanzia della sua possibilità, crogiolo di esperienza, cuore d'un grande partito mondiale di cui la storia concreta si incarica di ridefinire presto i poteri. Essi sono molto più grandi dove il partito è forte, e dove è forte se non dove ha già il dominio d'un grande paese? La centralizzazione del processo rivoluzionario si è spostata da un principio a un «luogo», storico, concreto; e molto presto il destino del processo rivoluzionario si identificherà, tenderà a identificarsi, più o meno confessatamente, nel destino di questo suo unico luogo di realizzazione, l'Unione sovietica. Sola, dunque assediata: la fortezza assediata. Il Comintern diventa il superpartito dell'Urss di Stalin, e le priorità dell'Urss di Stalin sono «oggettivamente» le sue. Non è molto interessante chiedersi, anche se su questo a lungo si arrovellarono i rivoluzionari non staliniani, se questo sarebbe dovuto e potuto essere diverso; è un fatto che l'identificazione avviene e da luogo a un processo storico che innegabilmente muta il volto del secolo, la dinamica dei processi mondiali. Quando i comunisti italiani, di fronte a certe liquidazioni totali, ricordano questo, ricordano una verità. Si arrestano, quando si tratta di definire la natura esatta di queste processo «reale», che è poi anche la definizione corretta della natura del rivoluzionamento che era avvenuto nell'Urss, perché quel tipo di stato, quel tipo di «base strutturale», quella sua rigidezza, quel suo terrore, quel suo essere così radicalmente diversa dall'utopia da cui tutto era nato. Le condizioni di isolamento, la arretratezza del terreno della prima rivoluzione furono, a lungo, la giustificazione esplicita o implicita di quel che in essa non andava, dei primi delusi retours de l'Urss. La colpa era delle dimensioni del nemico.

«L'Internazionale non ha fatto nessuna rivoluzione»
Questa rigidezza si trasmise a tutta l'Internazionale, assieme facendone leva di crescita e meccanismo di blocco dei partiti comunisti. Dai secondi anni venti al VII congresso dell'Internazionale, la direzione è assieme così rigida e così sclerotica che non solo non fa vincere, ma paralizza una parte di quel magma che pochi anni prima aveva messo in movimento. E se è vero che il VII congresso apre un varco, da respiro perché sfonda l'isolamento dei comunisti nel fronte antifascista — lo sfonda al punto che in alcuni luoghi, come in Francia, si parla di riunificazione fra II e III Internazionale, comunisti e socialisti, nel breve periodo seguito all'euforia del Fronte popolare — è vero che non solo questa apertura risente dellasua tattlcità (la necessità di far fronte al fascismo e alla guerra), ma poi non riesce a innescare alcun processo realmente rivoluzionarlo. Ebbe a dirmi una volta Fidel Castro che l'Internazionale non fece alcuna rivoluzione; era allora in fase assai polemica con l'Urss, ma aveva ragione. I grandi processi rivoluzionari che si innescarono, si innescarono fuori dei dettami di questo mastodontico e prepotente corpo — la rivoluzione cinese nasce da un atto di rottura con l'Internazionale, quando Mao, sfidando gli organismi riconosciuti, diventa nel 1931 il capo della frazione del potere reale, quella che farà la lunga marcia. Sempre rendendo, ma molto da lontano, omaggio a Stalin; senza mai andare in cerca di direttiva a Mosca, né riceverle. Salvo una volta forse, la guerra di Corea, e fu una volta per sempre, tanto duramente fu pagata dalla Cina.
Così non si celebrarono, al momento della fine della III Internazionale, grandissime vittorie. Fu piuttosto la presa d'atto che, nel corso della stessa grande guerra mondiale, la seconda, le condizioni d'un processo unitariamente guidato erano venute a mancare. Non solo, ma le unità dei fronti antifascisti, le alleanze su scala mondiale, consigliavano all'Urss di cessare di essere così «polo internazionale» da fare dei partiti comunisti membri sospetti d'una serie di alleanze nazionali. Il famoso fattore K, che allora non si chiamava così. L'Internazionale muore, senza una sola rivoluzione in più al suo attivo, nel 1943.

Scompare la forma, lo scheletro resta
Che cosa diventa allora in termini storici reali il rapporto fra l'Unione sovietica e i partiti comunisti? Scomparsa la forma, lo scheletro resta. Resta un potere d'arbitrato del Pcus, partito-guida, riconosciuto come tale fino al 1956; nonostante la breve e ingloriosa vita del Cominform, che nel dopoguerra cerca di rifondare un'internazionale riveduta e corretta sotto forma di Ufficio d'informazione, scomunica Tito e vede la Jugoslavia resistergli e procedere per la sua strada, scacco di non poco conto. Ma resta soprattutto il «modello», l'ideologia, il principio primo del giusto e dell'ingiusto — il grande compagno Stalin, nostro capo, padre amato dei comunisti di tutto il mondo, come si scriverà di lui alla sua morte, nel 1953. Tutti coloro che spesso hanno elucubrato sulla rete segreta di rapporti che forse funzionò sempre, forse non funzionò realmente mai, fuori del blocco sovietico definito a Yalta, non si rendono conto del potere di coesione che quella sola «ideologia», diventata forma e modello della rivoluzione, poté avere. Così forte che, a guardar bene, le sue vestigia sono riconoscibili anche in chi a sinistra le contesta: di stalinisti è piena la nuova sinistra nascente, appena passa dalla fase spontanea iniziale alla agglutinazione per gruppi. La «forma partito» non può essere studiata davvero senza tener conto di questa densità storica e cogente d'un modello che si riflette perfino in partiti e formazioni che non sono comunisti né leninisti, come i partiti progressisti unici, propri di molti paesi terzi. Così succede che l'Urss resta davvero un polo dirigente, morta l'internazionale, non meno, ma forse più incontrollato e potente dopo la sua fine; e questo suo ruolo non sarà mai messo esplicitamente in causa fino a che una grande rivoluzione — grande come e più dell'Ottobre — non le si oppone. Tutte le altre frizioni o scissioni sono, prima di allora, destinate a breve vita, a restare esperienza intellettuale o poco più o meno; ai partiti comunisti che, come quello italiano, ne sentono il peso (l'ipoteca, ebbe a dire un giorno Giorgio Amendola, rampognato da Togliatti che pur la pensava allo stesso modo) non resta che conquistarsi una nicchia di autonomia reale in un ambito di inalterati rapporti formali.
Da Stalin, Togliatti ha imparato che quel che conta è vincere; e la sua autonomia, lui la fonda non sui principi ma sulla capacità di radicare questa formazione eterodossa che è il Partito comunista italiano, incrocio fra partito rigidamente strutturato sul «modello» terzinternazionalista (quello è e quello resta, fino agli ultimissimi anni, e piuttosto si sgretola che trovare in sé il modo di trasformarsi) e blocco popolare autentico, non fungibile, storia e vita e sangue di alcune generazioni.

Fedeltà dei partiti deboli, inquietudine di quelli che contano
Ma lo stesso evolversi della situazione mondiale fa sì che, paradossalmente, là dove i partiti comunisti, tutti cosi modellati, sono una forza in certa misura reale, il rapporto con l'Unione sovietica, il partito della casa madre, è problematico, quando non pessimo. La scissione cinese è la clamorosa sanzione d'una fine. E non solo in occidente i partiti comunisti saranno sempre più deboli, non faranno nessuna rivoluzione, ne mancheranno addirittura una a Cuba non accorgendosi che lo era proprio, dando vita alla sola eccezione italiana (e in minor misura francese e spagnola), alle eccezioni scandinava e giapponese; ma si separeranno di fatto dall'Urss, nei momenti di vitalità, più o meno esplicitamente, i grandi partiti asiatici, oltre a quello cinese.
Il movimento comunista internazionale è una formula, in cui si numerano una ottantina di partiti, ma nei quali la fedeltà inconcussa è di quelli che contano poco o nulla, l'inquietudine è dei pochi che contano e l'obbedienza è solo di quelli del blocco militarmente controllato, e neanche di tutti. Al suo interno, l'eresia rumena vive mentre i tentativi di rivolta o innovazione ungherese, tedesco orientale, cecoslovacca, polacca sono soffocati. Nel correre della storia, quel che era stato il cuore dell'Internazionale è diventato sempre più soltanto una grande potenza incapace di egemonia, e che ancora tende a rivestire i panni d'una chiesa ideologica. In nome della quale invade, dove può, e scomunica, dove non può. Tito, Mao, Berlinguer. Castro c'è andato vicino, ma poi aveva bisogno del petrolio e degli equilibri internazionali delle due superpotenze per reggere, e ha russificato la rivoluzione cubana. Lentamente, di questa facciata ideologica si vanno spegnendo anche le strutture portanti, i partiti: e più presto dove hanno più potere, nel blocco dell'est. Alla forza degli argomenti si sostituisce quella delle armi.
Questa è la storia, cominciata nel 1917 e che con l'editoriale di domenica della “Pravda” ha visto una delle sue tappe finali. Il problema da cui l'Internazionale era partita, quel lontano appello del Manifesto di Marx resta: “Proletari di tutto il mondo, unitevi”. Ricominciando da molto lontano, senza più patrie né modelli né reti né, forse, un vero linguaggio comune.


“il manifesto”, speciale Internazionale senza indicazione di data, ma maggio 1983

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