19.12.14

Il ruggito di Roma (Carlo Levi)

Il testo che segue è l'incipit di un libro importante, L'Orologio di Carlo Levi, pubblicato nel 1950 ed ambientato nel 1945, in quell'autunno nel quale, con la caduta del governo Parri, sembravano venire meno le speranze di una palingenesi democratica dell'Italia, che erano state alimentate dalla Resistenza. L'attacco che qui si legge, lirico nella tematica (i suoni della notte), mostra nello stesso tempo l'aspirazione a un'epica coralità. A me sembra assai bello, anche a prescindere dal libro cui dà inizio. (S.L.L.)
La notte, a Roma, par di sentire ruggire leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue cupole nere e i colli lontani, nell'ombra qua e là scintillante; e a tratti un rumore roco di sirene, come se il mare fosse vicino, e dal porto partissero navi per chissà quali orizzonti. E poi quel suono, insieme vago e selvatico, crudele ma non privo di una strana dolcezza, il ruggito dei leoni, nel deserto notturno delle case.
Non ho mai capito che cosa producesse quel rumore. Forse invisibili officine, o motori di automobili sulle salite? O forse il suono nasce, più che da un fatto presente, dal fondo profondo della memoria, quando fra il Tevere e i boschi, sulle pendici solitarie, si aggiravano le belve, e le lupe allattavano ancora i fanciulli abbandonati?
Tendevo l'orecchio ad ascoltare, e scrutavo nel buio, sopra i tetti e le altane, in quel mondo pullulante di ombre; e il suono penetrava in me come un'immagine infantile, spaventosa, commovente ed arcana, legata a un altro tempo. Anche nato da macchine è un suono animalesco, che par venire da viscere nascoste o da gole aperte invano a cercare una parola impossibile. Non è il suono metallico dei tram notturni nelle curve, lo stridere lungo e eccitante dei tram di Torino, grido dolente ma fiducioso di quelle notti operaie nell'aria fredda e vuota. È un rumore pieno d'ozio, come uno sbadiglio belluino, indeterminato e terribile.

Lo si sente da tutte le parti della città. Lo avevo ascoltato In prima volta, tanti anni or sono, penetrare dalle inferriate di una cella di Regina Coeli, insieme agli urli dei malati e dei pazzi dell'infermeria, e a un lontano battere di ferri; pareva allora il respiro di quella libertà misteriosa che pur doveva esistere, fuori. E lo ascoltavo ora, pochi mesi dopo la liberazione, da una stanza alta su via Gregoriana, porto effimero e provvisorio, in quei tempi di mutamenti, secondo che ci conduceva, qua e là, un provvidenziale destino.

Carlo Levi, L'Orologio, Einaudi, I edizione nei Supercoralli, 1974

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