2.12.14

Crisi. Il dilemma di Archimede (Roberto Monicchia)

E' un vecchio articolo, di un anno e mezzo fa, quello che riprendo togliendo qualche riferimento all'attualità del tempo, ora difficilmente comprensibile. Mi pare tuttora utilissimo a spiegare perché i governi dell'Occidente in generale e quello italiano sembrino pestare l'acqua nel mortaio della crisi. (S.L.L.)
La natura della crisi
Molto si è discusso e si discute sulla natura della crisi internazionale iniziata nel 2007-2008. Da più parti essa è stata paragonata a quella del 1929.
La dinamica è effettivamente simile: l’innesco finanziario negli Usa con la bolla dei subprime ha causato una crisi di sovrapproduzione globale; al crack è seguita una lunga recessione segnata da una disoccupazione di massa che indebolisce lavoratori e ceti medi anche nei paesi più ricchi dell’occidente. A ben vedere, però, questa analogia si traduce in una tautologia: si conferma cioè il funzionamento normale del modo di produzione capitalistico. Del resto la crisi del ‘29 aveva convinto definitivamente Keynes di quello che Marx aveva già scoperto, pur avendo di fronte un grado di sviluppo molto più basso: il capitalismo è un’economia monetaria di produzione, quindi la relazione tra economia reale e finanza non è né un accidente, né un’aggiunta “a posteriori”, tanto meno una degenerazione, ma un tratto fondamentale, lo strumento necessario di un’economia basata sul profitto, cui è consustanziale un andamento ciclico.

Crisi rivelatrici
Perciò le fasi di crisi mostrano le impalcature e le linee di evoluzione del sistema. Come lo shock petrolifero dei primi anni ‘70 (anticipato dalla fine degli accordi di Bretton Woods) aveva evidenziato i limiti del modello di sviluppo “fordista-keynesiano”, preannunciando una profonda ristrutturazione a tutti i livelli, la crisi attuale porta alla luce quanto avvenuto nel trentennio liberista.
In questo senso alle analogie di superficie con il 1929 si affiancano notevoli differenze. Rispetto agli anni ‘20, alle spalle della crisi attuale vi è da un lato un ruolo infinitamente più grande del capitale finanziario, sia in termini geografici che istituzionali, dall’altro una gigantesca ristrutturazione dei sistemi produttivi e dei mercati internazionali, da cui emerge una mutazione profonda dei ruoli nella divisione internazionale del lavoro.
Ulteriore, importantissimo, effetto della globalizzazione è la modifica della sovranità statale e del ruolo delle istituzioni pubbliche nel ciclo economico. Su tutto ciò hanno un peso fondamentale la sconfitta dell’Urss e il crollo del sistema di stati ad essa collegato.
Col prolungarsi della recessione le ricette dell’ultimo trentennio, basate sui tagli alla spesa e ai servizi, sulla riduzione dei diritti, sulla ridislocazione in favore del profitto delle regole finanziarie e istituzionali, mostrano tutta la propria natura di “falsa coscienza”, quasi di “rimozione” freudiana della colpa; l’austerità – comunque si mostra sempre più chiaramente come una concausa della crisi.
D’altra parte la riproposizione delle ricette keynesiane, già messe a dura prova negli anni ‘70 (con la crisi fiscale dello stato), risulta una strada ardua di fronte ad un quadro sociale e istituzionale profondamente mutato.

Il caso italiano
Ciò è particolarmente evidente nel caso italiano, che reca in forma patologica i segni caratteristici della crisi generale. Il declino economico, con l’abbandono di intere produzioni di base e la sofferenza del modello alternativo della terza Italia, comincia già al volgere del secolo, in sostanziale coincidenza con l’ingresso nell’euro. Quanto alla crisi del sistema politico essa se non si vuole risalire, come fanno molti storici, al tourning point del delitto Moro è evidente almeno dal trauma di Tangentopoli del 1992. E’ comunque universalmente riconosciuto che la cosiddetta seconda repubblica abbia visto una progressiva paralisi delle istituzioni, impegnate in un’interminabile quanto vana fase di “transizione”, sfociata nell’ultimo anno e mezzo nella fine “pilotata” del governo Berlusconi, nell’anomala investitura di Monti, infine nello “stallo messicano” emerso dalle elezioni politiche. Che ci si trovi impigliati in un groviglio inestricabile lo provano le improbabili alchimie a cui è ricorso Napolitano, nonché il rapidissimo mutare delle correnti di opinione: tutti ricordiamo il favore generalizzato di cui godevano Monti e i tecnici appena un anno fa, tutti o quasi abbiamo sottodimensionato la forza del Movimento 5 stelle. La crisi di sistema scoppia nel pieno di una recessione economica prolungata i cui effetti sociali sono già particolarmente evidenti: bastino il dato della disoccupazione giovanile, ormai vicina al 40%, e l’evidenza del potere incontrastato dell’economia criminale.

Senza leva né punto di appoggio

In questa situazione il fallimento delle politiche di austerità è sotto gli occhi di tutti, mentre le posizioni dell’economia critica diventano spesso senso comune. Eppure, quanto spazio c’è per vie alternative? Lasciamo pure da parte le ipotesi palingenetiche alla Guido Viale, fuori dall’orizzonte del breve periodo, e limitiamoci alle ricette keynesiane classiche. Un mutamento di direzione in verso deficit spending, il sostegno alla domanda effettiva e alla piena occupazione dovrebbe innanzitutto vincere potenti vincoli oggettivi, sia esterni (lo stock del debito pubblico, l’impossibilità di forzare le esportazioni col vecchio strumento della svalutazione competitiva) che interni (l’impossibilità di spingere oltre la leva fiscale, il discredito e il degrado dei servizi e delle imprese pubblici).
Non è da escludere comunque che, magari sulla base di un qualche accordo in sede Ue, si possa ovviare a questi limiti; tuttavia la leva keynesiana resta inservibile in assenza di un credibile punto di appoggio ovvero, fuor di metafora, di forze sociali e soggettività politiche che la sostengano e la orientino. Alla base delle fortune del welfare nel trentennio postbellico vi era, oltre ad una crescita sostenuta e costante, un solido patto sociale, mediato da strutture statali pienamente legittimate e dotate di potenti strumenti di azione. Allo stato attuale tutti i capisaldi di quel patto lo stato nazionale, le classi, i partiti e i sindacati di massa appaiono travolti dalla frana con cui Hobsbawm designa l’ultimo tratto del XX secolo, e non è facile prevedere quali modelli sociali e istituzionali possano prenderne il posto. Da un lato infatti le molteplici forme di governance locali, nazionali e internazionali, pubbliche e private, sembrano cercare forme di adattamento alla situazione, piuttosto che guidarla; dall’altro, il declino del binomio classi lavoratrici-partito di massa, lungi dal liberare soggettività rivoluzionarie (le tesi dell’operaismo di ogni tempo e declinazione), rende intermittenti e difficilmente cumulative le esperienze dei movimenti, mentre il concetto di moltitudine resta sfuggente...


micropolis, 26 aprile 2013

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